Una
delle fiabe preferite dagli analisti della borghesia è di spacciare la crisi
come un fenomeno passeggero e non come un elemento strutturale che ha le sue
basi nel modo di produzione stesso.
Le
crisi di ciclo hanno punteggiato tutta la storia del capitalismo:
nell’Ottocento, poi all’inizio del secolo scorso, crisi strisciante negli anni
Venti, clamorosa nel decennio successivo. Il capitalismo, messo alle strette,
ha imboccato la strada della guerra. Nel dopoguerra, con la ricostruzione e
l’immissione nel mercato di nuove merci (automobili, elettrodomestici, ecc.),
per una ventina d’anni c’è stata una forte ripresa del ciclo
dell’accumulazione. In seguito il sistema è entrato in una crisi che, salvo
brevi momenti, non ci ha più lasciato.
Le
crisi scaturiscono da una contraddizione fondamentale del modo di produzione
capitalistico: si tratta del lavoro non
pagato, ossia erogato in più dall’operaio (pluslavoro) e che il padrone non
gli retribuisce. Il lavoro estorto e non pagato, in forma di merce, non trova
nella sfera della circolazione, cioè nello scambio, il suo corrispettivo. Gli
antichi egizi con quel surplus edificavano piramidi, ma nel capitalismo le
cose, per molti versi, non funzionano allo stesso modo (il processo di
produzione capitalistico è, allo stesso tempo, essenzialmente un processo di
accumulazione).
La
crisi nella fase attuale non è semplicemente una crisi di ciclo cui seguirà,
una volta bruciate in qualche modo le eccedenze, una ripresa. Siamo in presenza
della crisi generale del modo di
produzione capitalistico, dunque di un fenomeno di decisivo rilievo storico.
Una crisi tutta interna al processo di
valorizzazione e che riguarda la caduta tendenziale del saggio del
profitto. Una tendenza che è espressione peculiare del modo di produzione
capitalistico dato lo sviluppo progressivo della produttività sociale del
lavoro.
Considerata
l’enorme importanza che questa legge riveste nella produzione capitalistica, tutti
gli sforzi degli analisti borghesi, cioè dei leccaculo del capitale (o sycophants se preferite la dizione british),
consiste nell’ignorarne l’esistenza preferendo parlare d’altro. Ecco dunque che
per spiegare la crisi sono tirate in ballo le cose più fantasiose alle quali è
dato crisma di scientificità con grafici e tabelle. Secondo certi coglioni –
che sono maggioranza – sarebbe sufficiente attivare politiche di distribuzione
della ricchezza e di sostegno alla produzione attraverso la tassazione.
Per
altri versi, e dunque sul terreno opposto della teoria borghese, c’è ancora chi
non ha compreso per nulla l’essenziale del metodo d’indagine scientifica di
Marx. Non comprende che egli non descrive il movimento relativamente caotico
della realtà fenomenica, bensì elabora un modello logico dinamico capace di
simulare concettualmente il possibile movimento di una tendenza necessaria e
delle sue contraddizioni (cause antagoniste).
Il
concetto di tendenza non è pura proiezione in avanti della realtà fenomenica,
ma è riflesso anticipante della realtà empirica. In altri termini, spingendo la
simulazione concettuale del modo di produzione capitalistico al punto limite in
cui le contraddizioni giungono alla loro piena maturità, Marx si mette nella
condizione migliore per fissare una previsione di una situazione futura.
E
tuttavia il “crollo” della “produzione basata sul valore di scambio” di cui
parla Marx, non si lascia trasferire facilmente, spontaneamente,
automaticamente, pacificamente, dal modello logico alla storia reale, anche se
è proprio l’indagine scientifica del movimento storico reale del modo di
produzione capitalistico ad aver consentito la costruzione teorica del modello
che lo prevede.
Come
si vede da questo accenno, non abbiamo a che fare con una polemica politica,
con previsioni astratte da adattare all’utopia, ma con una riflessione
strettamente scientifica.
Là dove gli economisti borghesi vedevano dei rapporti tra oggetti… Marx scoprì dei rapporti tra “uomini.”
RispondiElimina“Una delle fiabe preferite dagli analisti della borghesia è di spacciare la crisi come un fenomeno passeggero e non come un elemento strutturale che ha le sue basi nel modo di produzione stesso”.
Dal mio punto di vista non c’è stata un’effettiva modificazione qualitativa nell’approccio dell’economia politica: il neoliberismo ripete alcuni schemi fondamentali che abbiamo visto in atto già nel corso del Novecento, prima fra tutte l’idea che il lavoro non sia il motore principale dell’accumulazione capitalistica.
“La crisi nella fase attuale non è semplicemente una crisi di ciclo cui seguirà, una volta bruciate in qualche modo le eccedenze, una ripresa. Siamo in presenza della crisi generale del modo di produzione capitalistico, dunque di un fenomeno di decisivo rilievo storico. Una crisi tutta interna al processo di valorizzazione e che riguarda la caduta tendenziale del saggio del profitto. Una tendenza che è espressione peculiare del modo di produzione capitalistico dato lo sviluppo progressivo della produttività sociale del lavoro”.
il capitale ha fatto della crisi permanente – non più concepita quindi come declino nel ciclo economico e produttivo – lo strumento primario per «recuperare» queste trasformazioni. Recupero che si attua con le vecchie «medicine» applicate a livello globale: la separazione dei produttori dai mezzi di produzione attuata con lo spossessamento di massa, le migrazioni forzate, la privatizzazione delle terre, ma anche dei servizi e del Welfare State. La globalizzazione non va intesa tanto o solo come svolta economica, ma come una vera e propria macchina politica che, permanentemente, spossessa e disloca persone. Essa è un processo continuo di ricolonizzazione, che avviene con la massima violenza.
"Si confondono le cause con gli effetti"
Mi ricorda la mia nipotina che un giorno mi disse: nonno quel bambino mi mena. Non è un bambino, è una bambina, le risposi. E lei: vabbè, ma mi mena lo stesso.
in questo quadro la tassazione della ricchezza, come quella che vorremmo sulle successioni, è una provocazione. E' indicare le contraddizioni. E' il dito che indica non la luna ma se stesso. E' il dito medio.
RispondiEliminaE tuttavia il “crollo”.... non si lascia trasferire ... dal modello logico alla storia reale
RispondiEliminain effetti davanti alle sue ricorrenti ed inevitabili ( come ben spiegate da Marx ) crisi il capitalismo ha mostrato finora impreviste capacità di trasformazione. Quindi, nonostante l' enorme gravità della attuale crisi, non è detto che questo "mutante" non trovi , anche stavolta, una "via" per sfuggire alle previsioni marxiane.
ws
il capitalismo non è affatto imprevedibile, specie se marcato a uomo.
RispondiElimina"Marx si mette nella condizione migliore per fissare una previsione di una situazione futura."
RispondiEliminaah ecco, meno male, mi sembrava strano che venisse accantonato il buon vecchio determinismo positivista. I terremoti non si possono prevedere, le previsioni meteo non hanno un'attendibilità superiore a 7 giorni, però si può prevedere la fine di un modo di produzione e la sua sostituzione con un altro. Vabbè...E' come se dal fatto che ci sia la forza di gravità si volesse dedurre e prevedere che tutti gli uccelli un giorno smetteranno di volare.
Il «vecchio determinismo positivista» con Marx non c'entra un cazzo nulla.
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Eliminaquesto è quello che piace pensare ad alcuni...
Also sprach chiss...
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