Coloro
che parlano degli sviluppi della tecnologia solo in termini positivi,
entusiastici, denotano una concezione deterministica, unilaterale, delle cose.
Per contro, chi campa alla giornata, vede il proprio lavoro sostituito da una
macchina, e dunque trovandosi disoccupato o costretto ad un’occupazione
precaria, la tecnologia gli si presenta come un dono divino spacchettato senza
tante cautele. Inoltre, non va trascurato che scopo precipuo del modo di
produzione capitalistico è quello di ridurre il tempo di lavoro necessario e
dunque il valore stesso per unità di prodotto.
Prendiamo
il caso della produzione ceramica in Inghilterra, che nel corso del ‘700 ebbe
una prima svolta rivoluzionaria. Questa manifattura fu povera nei sistemi e nei
profitti, produceva deliziose figurine spesso in stile Sèvres; i vasai erano
analfabeti, rozzi, le loro abitazioni erano capanne, il mercato subiva le
restrizioni dell’intransitabilità delle strade. Sennonché nel 1775 in
Cornovaglia fu scoperto un ricco giacimento di caolino (silicato d’alluminio),
simile a quello usato dai cinesi. Però si trovava a ben 350 kilometri dai
centri di lavorazione della ceramica.
Ed
è a questo punto della storia che fa la sua comparsa Josiah Wedgwood, che non
diventerà noto solo per essere stato il nonno materno di un certo Charles
Darwin (senza le fortune ereditate dal nonno, Charles probabilmente non avrebbe
intrapreso certi studi e soprattutto il suo celebre viaggio). Wedgwood cominciò
a lavorare alla ruota del vasaio a nove anni, nel 1739 (la “scoperta” della tecnica di produzione della porcellana in Europa è di poco precedente). Non era istruito ma era un lettore
assiduo e lo studio di alcune opere sull’arte classica e le tecniche artigiane gli
offrì le basi del buon gusto e, in seguito, gl’ispirò l’ambizioso proposito di
imitare le forme classiche (*).
Per
farla breve, nel 1753 divenne proprietario della fabbrica Ivy House, nei pressi
di Burslem (non lontano da Manchester). Wedgwood facilitò il trasporto del
caolino alle sue fabbriche, sostenendo in parte gli oneri per il miglioramento
delle strade e la costruzione di canali. Disegnò utensili di precisione,
potenziò la resa delle attrezzature, adottando la macchina a vapore, sperimentò
sistemi di cottura sempre migliori (inventò un pirometro per misurare le
temperature elevate), introdusse la specializzazione della mano d’opera e una
nuova organizzazione del lavoro, rinnovò e affinò le forme e le decorazioni dei
suoi prodotti, ampliò la gamma degli articoli offerti, conquistò il mercato
nazionale e poi si affermò anche in quello internazionale (la solita Caterina II
gli commissionò un servizio da tavola di mille pezzi) (**).
Siamo
dunque nella fase eroica dello sviluppo del capitalismo, senza dimenticare che
nel lavoro di fabbrica erano impiegate donne e bambini per 12-14 ore anche con
turni notturni. Le nuove tecnologie cambiano il lavoro e la sua organizzazione,
soprattutto nelle industrie principali, quelle del cotone, del lino e della
lana; aumentò il numero dei proletari nelle fasi alte del ciclo di accumulazione,
ma anche la disoccupazione e la disperazione durante i periodi di crisi. Si
trattò di una rivoluzione che trasformò tutta la società da capo a piedi, una
vittoria della macchina sul lavoro manuale nei principali settori
dell’industria, e tutta la storia successiva ci racconta come i lavoratori
furono scacciati da una posizione dopo l’altra ad opera delle macchine.
Un
esempio, sempre a proposito della lavorazione della ceramica, fu offerto dalla
Francia nella seconda metà dell’Ottocento, laddove Pierre-Auguste Renoir era decoratore
di porcellane. Quando le macchine stampatrici resero il suo lavoro artigianale troppo
lento e costoso, importava poco che la qualità delle nuove porcellane prodotte industrialmente
fosse di qualità dozzinale. Moneta cattiva scaccia quella buona. Per il consumo
di massa qualunque estetica, purché renda in termini di profitti, va benissimo.
Ci pensano i media a creare le subculture “alla moda”. Per chi vuole ancora un
prodotto di qualità artigianale o simil-artigianale, deve poterselo permettere.
Ed è ciò che fa la differenza tra l’Ikea (tanto per dire) e il buon gusto, del
quale tra poco resterà traccia solo nei musei e in sempre più rari ambiti
domestici.
Il
nostro Renoir rimase disoccupato, si diede a fare dei lavoretti come decoratore
d’interni e d’esterni. Poi cominciò con i pennelli e i colori in tubetto a lavorare
in proprio. Il talento, un mercante d’arte che ebbe fiuto, e soprattutto il
mutamento del gusto artistico dopo l’introduzione della fotografia, fecero il
resto. Quanti tra i decoratori di porcellane soppiantati dalla nuova tecnologia
di stampa ebbero la fortuna di Pierre-Auguste?
Oggi,
l’impatto della rivoluzione tecnologica in atto, per quanto riguarda la
composizione tecnica del capitale, ha raggiunto un punto limite oltre il quale
il rapporto tra l’investimento e il profitto risulta sempre più sfavorevole
(l’alto costo del “capitale fisso”, come impropriamente dice Marchionne). Al
punto che ad avvantaggiarsene, per il momento, sono quei settori produttivi
dove l’innovazione delle nuove tecnologie è più spinta e, sul mercato, può
erodere i profitti di altre sfere della produzione e di altre aree produttive (cosa
peraltro non nuova). Nel medio periodo però le cose sono destinate a cambiare
anche nella Silicon Valley e nella relativa filiera.
Dal
lato dell’occupazione di forza-lavoro, l’impatto delle nuove tecnologie sta
creando una disoccupazione di massa che non sarà più riassorbita e che anzi
tenderà progressivamente – ma velocemente – ad aumentare. Qui le misure del
riformismo sono inefficaci, illusorie. Sarebbe necessario ridurre la giornata
lavorativa normale e anche la settimana lavorativa, ma per far ciò sarebbe
necessario una rivoluzione di paradigma e quantomeno un accordo internazionale. Vai avanti tu che a me vien da ridere. Tuttavia ciò implicherebbe il venir meno di una delle cause antagoniste
(massimizzazione del plusvalore relativo) alla caduta del saggio del profitto,
cosa improponibile in una congiuntura come questa. Dal punto di vista politico
e sociale si andrà dunque sempre più alla ricerca di soluzioni fantasmagoriche e
con tutti i rischi relativi.
(*)
Secondo Will e Ariel Durant, nel loro volume sull’Inghilterra di Johnson e il crollo della Francia feudale, ad ispirare Wedgwood fu
soprattutto la Recueil d'antiquités
égyptiennes, étrusques, grecques, romaines et gauloises del conte Anne
Claude de Caylus, bella opera in sette volumi. Credo di poter respingere tale
ipotesi. Wedgwood non conosceva il francese e l’opera di Caylus non fu
tradotta. È probabile che ad influenzare il ceramista inglese fu l’opera del
monaco Bernard de Montfaucon, L'antiquité
expliquée et représentée en figures, pubblicata tra il 1719 e il 1725, che
effettivamente fu tradotta in inglese e che Wedgwood lesse nel terzo quarto del
secolo.
(**)
Alla categoria delle porcellane Wedgwood,
cotte a temperatura moderata (a “piccolo fuoco”), appartiene quella
preparata un tempo in Inghilterra, la “Bone China”, di cui divenne specialista, ottenuta con ceneri di ossa (fosfati),
caolino, ecc.. Altra variante Wedgwood è il grès vetroso (Jasper) che
porcellana propriamente non è.
Fare un passo indietro e piangere, va bene uguale?
RispondiEliminae perché piangere? con tutto il tempo libero che le nuove tecnologie ci mettono a disposizione c'è ampio agio per fottere
EliminaIn "Renoir, mio padre" il pittore dice che per fare quello che ha fatto servivano soprattutto 2 cose:
RispondiElimina1 mangiare poco
2 rinunciare a vivere come gli altri.
Questa è la differenza fra Renoir e NOI.
In questa "crisi" non solo cede il "saggio di profitto" ( sviluppo tecnologico ) , ma pure la massa vendibile ( riduzione del monte salarii). Evidentemente stavolta il capitalismo non vuole ( o non può) uscire dalla solita "crisi di produttività " col solito sistema di " creare nuovo lavoro" ed "incrementare i salarii " si che la massa vendibile cresca più velocemente della caduta del saggio di profitto.
RispondiEliminaMa allora un cambio di paradigma politico diverrà inevitabile; e se molti credono sia " la volta buona" di una qualche "società socialista" io temo più probabile un ritorno ad una nuova "società feudale".
ws
Non posso fare a meno di complimentarmi per questo tuo pezzo.
RispondiEliminaBuon lavoro.g
grazie. un po' di incoraggiamento non guasta. buon lavoro anche a te.
EliminaUN Report: Robots Will Replace Two-Thirds of All Workers in the Developing World
RispondiEliminahttp://futurism.com/un-report-robots-will-replace-two-thirds-of-all-workers-in-the-developing-world/
Sempre più analisi sottolineano che lo scenario potrebbe essere presto ben diverso. Secondo i ricercatori di Oxford, Carl Benedikt Frey e Michael A. Osborne, il 47% dei lavori negli Stati Uniti è già a rischio computerizzazione – e un ulteriore 13% vi si potrebbe aggiungere, nota McKinsey, quando le macchine diverranno capaci di “comprendere” e processare davvero il linguaggio naturale. Per l’Europa, poi, le percentuali ottenute rielaborando quei dati sono perfino più elevate.
Da qui le profezie di sventura. Per il docente della Rice University, Moshe Vardi, per esempio, entro i prossimi 30 anni i robot potrebbero portare a tassi di disoccupazione superiori al 50%. «Se le macchine sanno fare tutto», chiede Vardi, «che resta agli umani?»
E dire che il problema si pone in questi esatti termini, anche a livello mediatico e di massa, fin dagli anni ’60. «L’automazione è davvero qui, i posti di lavoro diminuiscono», scriveva – echeggiando le cronache odierne – la prima pagina di Life del 13 luglio 1963. Attenti, ammoniva il settimanale: “siamo al punto di non ritorno per tutti”.
“Un sistema dalla capacità produttiva pressoché illimitata”, che richiede tuttavia “sempre meno lavoro umano”. A meno che non ci sia “una reale comprensione” del fenomeno, concludevano gli autori di quel visionario rapporto, “potremmo stare consentendo l’emergenza di una comunità efficiente e disumanizzata senza alternative”
Se anche il lavoro finisse, non sarebbe utopia
Davvero un mondo – come quello immaginato già da Oscar Wilde – in cui all’uomo non resta che tempo libero è un’utopia? Per Vardi è piuttosto il suo contrario, una distopia. La lezione dell’opera di Carel Kapek che diede i natali, a inizio Novecento, alla parola “robot” non fa che confermarlo. Ciò che si presenta con le fattezze di un paradiso edonistico, nel suo seminale ‘R.U.R.’ (1920) si rivela infatti presto essere un inferno disumano. La promessa è di uno dei protagonisti, Domin: i robot “produrranno talmente tanto grano, stoffe e molto altro, da poter dire che le cose non avranno più alcun valore”.
È l’antenato dell’odierna “era dell’abbondanza”, in cui “ognuno potrà prendere ciò di cui ha bisogno. Non ci sarà più miseria”. Insomma, il problema di Life è risolto alla radice. Perché sì, gli uomini “resteranno senza lavoro. Ma poi non ci sarà più bisogno di lavorare per nessuno. Tutto verrà fatto dalle macchine vive. L’uomo farà solo ciò che più gli piace. Vivrà solo per perfezionarsi”.
Paradossalmente la soluzione, se si vuole mantenere la proprietà dei mezzi di produzione,è il REDDITO di CITTADINANZA.