Non c’è un solo aspetto della nostra esistenza, per quanto minimo e privato, che non sia toccato in qualche modo dai rapporti di classe, quindi di gerarchia, e dalle dinamiche anzitutto economiche che li determinano e che si ridefiniscono continuamente. L’ampiezza e la profondità del declino, non solo economico, dell’occidente, presto condurrà a mutare opinione a riguardo di molti stereotipi. La rivoluzione francese ha liberato il lavoro, ma non il lavoratore. Anzi, sotto certi aspetti, egli è ancora meno libero dell’antico servo domestico a cui si garantiva se non altro la sussistenza e una qualche comodità e benevolenza.
I riformatori di tutte le epoche e di tutte le taglie ideologiche hanno sempre puntato, almeno nelle dichiarazioni, al fine ultimo di migliorare le condizioni di esistenza del “popolo” o del proprio paese. Questi bonari filantropi, nonostante i loro sforzi, non sono mai giunti a cambiare molto di più di ciò che non fosse già maturo nelle condizioni date. Oggi lo scopo delle loro dottrine è di farci uscire dalla crisi, da quella economica a quella più generale di sistema. La disputa che va per la maggiore ricorda per analogia il dibattito degli antichi cerusici a favore o contro il salasso. Ma si tratta solo di opinioni.
Marx ci ha spiegato il perché e il percome di molte cose. Ai suoi giorni così come del resto ai nostri, per esempio, è evidente che il mutare delle condizioni strutturali del sistema di produzione in cui si determina il saggio del profitto, producono più sconvolgimenti che i cosiddetti “errori d’impostazione della strategia di consolidamento fiscale” di cui oggi discutono in molti. Del resto solo il New York Times e il Financial Times possono permettersi un dibattito sulla “crisi del capitalismo”, mentre da noi i media razzolano, per un verso, sull’umore dello spread o, per contro e come detto, sull’errore di una strategia recessivo-deflazionistica che minerebbe la fantomatica “crescita”.
Come se dirimente non fosse la cesura innescata della globalizzazione capitalistica con le sue conseguenze strategiche, ma un problema di ”circolazione” e di “aggregati”, quindi di flebotomia sì oppure no. Come se a cambiare direzione alla storia e ai mutamenti strutturali in atto bastassero le politiche dei governi, le visioni più keynesiane e meno rigoriste (comunque meno deleterie e stupide del salasso alla tedesca).
Senza dimenticare, en passant, che sono cause economiche quelle di fondo di una guerra, la quale è pur sempre un’opzione ben presente anche in Cina, dove non per nulla si è epurato l’ultranazionalista Bo Xilai (il maoismo è solo una delle tante maschere della contesa politica). Che questo diventi il secolo cinese è possibile, ma vi sono tante e tali variabili favorevoli e contrarie a questa tendenza che è un azzardo fare previsioni.
Ciao Olympe
RispondiEliminaNon credo neanche io che gli USA dopo decenni di controllo sul mondo intero lasceranno così favorevolmente la palla alla Cina o a qualsiasi altra realtà . La considererebbero comunque come una minaccia.
Dall'altra parte, il notevole surplus della Cina e l'internazionalizzazione dello yuan porteranno inevitabilmente a questo scontro. Lo scontro non sarà diretto perché saranno proprio i capitalisti a scegliere lo yuan come moneta di riserva, anche quelli americani. A quel punto gli USA non potranno che prenderne atto e agire per vie poco ortodosse, così come hanno sempre fatto in casi del genere.
Sullo yuan:
http://www.bbc.co.uk/news/business-17606494