Quella subita negli ultimi decenni del Novecento non è stata solo una sconfitta politica per i movimenti antagonisti a livello mondiale, ma soprattutto una debacle culturale e di prospettiva clamorosa. È venuto in chiaro, anche se non subito e non a tutti allo stesso modo, che un sistema alternativo nelle forme consolidate dell’impianto sovietico (mutuato poi nei modelli terzomondisti), era destinato al fallimento sia sul piano delle libertà fondamentali che su quello molto concreto dello sviluppo economico. Dal canto suo, il cosiddetto Sessantotto, surrealista per molti aspetti, propose poco di pragmatico e di diverso, rappresentando negli slogan l’ultima e la più apparente delle occasioni rivoluzionarie (c’è una differenza di fondo tra rivoluzione e contestazione), che si tradusse in una richiesta di diritti civili, di riconoscimenti e di carriera.
Il comunismo sovietico, la statalizzazione dei mezzi di produzione, il processo di centralizzazione e di piano, aveva dimostrato i suoi indubbi successi in realtà sociali ed economiche molto arretrate, laddove era richiesta una concentrazione degli sforzi tesi al raggiungimento di obiettivi cospicui nell’ambito dell’accumulazione originaria, della realizzazione d’infrastrutture industriali e civili, dell’alfabetizzazione di massa. Superata tale congiuntura (dai costi umani non lievi), l’impossibilità di una cogente rimodulazione delle esigenze secondo criteri di efficienza e di scelta, condusse il sistema a un’impasse tragica [*].
Si arriva così alla vittoria del capitalismo occidentale e del cosiddetto libero mercato, cioè alla dimostrazione-rivendicazione che in assenza dell’iniziativa privata, dell’abbandono dei freni e dei vincoli dello statalismo, il risultato è la stasi economica e il livellamento pauperistico dei consumi e degli stili di vita, aggravati dal dispotismo di una burocrazia sclerotizzata ed autoreferenziale.
Che si sia trattato di una vittoria è indubbio, che essa nasconda un bluff è altrettanto certo. Raccontarlo però non è, finora, molto convincente né presso le “aristocrazie salariate” della metropoli e nemmeno presso le masse disperate dei paesi economicamente arretrati che aspirano a condizioni di vita e di consumo secondo gli standard occidentali. È questo uno dei segnali più marcati della sconfitta patita e delle difficoltà di elaborarne il lutto.
Per comprendere la natura del bluff, è necessario valutare la qualità e la quantità delle contraddizioni che segnano il mercato mondiale e la sorte del capitalismo. Per farla breve mi limito a citare la contraddizione fondamentale legata alla crisi, nei suoi due aspetti essenziali, produttivo e finanziario. Da un lato l’acutizzarsi della lotta sul mercato delle esportazioni e dello sfruttamento della forza-lavoro rinvia innanzitutto al processo di valorizzazione del capitale (da ultimo, ne ho fatto cenno qui ); dall’altro, sul fronte finanziario, la situazione è fuori controllo: nei sette anni che hanno preceduto la crisi, l’insieme dei derivati censiti dalla BRI è cresciuto di sei volte, sfiorando i 700mila miliardi di dollari; mentre per quanto riguarda i CDS, strumenti finanziari per garantirsi dai rischi di default, questi sono cresciuti nello stesso periodo di circa 60 volte, raggiungendo nel 2009 i 58mila miliardi di dollari, un valore nozionale vicino al PIL mondiale.
È evidente a qualunque persona di buon senso che il totale di tale azzardo porta come inevitabile conseguenza l’esplosione del sistema, la caduta in una crisi di proporzioni inedite e dagli esiti oscuri, ed è la fine di un’epoca di apparente pacificazione sociale e geopolitica.
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[*] Viceversa il comunismo cinese ha evitato un simile epilogo solo perché ha abbandonato, per tempo, il vecchio sistema monopolistico di stato per aprirsi al mercato e allo scambio internazionale. Ma anche in tale caso, non si tratta di una soluzione ma solo di un escamotage che consente al paese asiatico di realizzare enormi surplus commerciali che, invece di essere impiegati specialmente nel miglioramento delle condizioni di vita complessive della popolazione, vengono agiti sul mercato finanziario internazionale come arma di penetrazione e di ricatto. La Cina rappresenta un mondo che si aggiunge al mondo e costituisce quindi uno spostamento rilevante nelle relazioni internazionali. Mai nella storia, anche in quella dell’imperialismo moderno, uno spostamento di tale importanza è rimasto solo sul terreno pacifico.
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