lunedì 15 gennaio 2024

Un bersaglio sulle spalle

 

Della guerra in Ucraina ci siamo nauseati da tempo. Di ciò che accade in Medio Oriente ci stiamo stancando, resiste il tifo residuale per l’uno o per l’altro contendente. La guerra è diventata di moda, parlarne e scriverne un passatempo. Rivedevo ieri sera su Rai Storia il film 1918 – I giorni del coraggio, e riflettevo sul fatto che se è possibile mettere sullo stesso piano le sofferenze dei soldati di entrambe le parti di quella guerra (è più difficile individuarne la dimensione ideologica), ciò non è possibile con le guerre successive, che sono diventate guerre ideologiche in tutto e per tutto.

Le cause della guerra 1914-‘18 sono piuttosto vaghe, sembrano derivare da una catena di eventi casuali e sfortunati, che hanno messo in moto il timer infernale delle alleanze e hanno trascinato tutta un’umanità nel baratro senza comprenderne appieno il motivo. Tutti possono dolersi della loro sorte, senza che ciò implichi la difesa di un regime politico piuttosto che di un altro. Tutti possiamo proiettarci in questo conflitto, attraverso i nostri antenati, qualunque sia la nostra origine, nazionalità, e questo senza alcuna vergogna.

Poi non è più stato così. Siamo schierati ideologicamente e sono in uso altre parole: “invasione”, “occupazione”, “territorio”, “crimini di guerra”, “genocidio”, eccetera. Sempre più le guerre si combattono con il codice penale sotto il braccio, ne fu un esempio anche quella nella ex Jugoslavia, troppo presto dimenticata anche quella. Basta che non si tratti d’Israele, il quale ha diritto di difesa con ogni mezzo. Le bombe lanciate contro i civili per farli a pezzi sono consentite, autorizzate, quando addirittura fortemente raccomandate.

Se lo Stato sionista decidesse di passare per le armi uno per uno i palestinesi, attendersi delle sanzioni da parte dell’Occidente è impensabile. Ora il conflitto si sta spostando più a nord, verso il Libano, rispetto alla Striscia di Gaza dove sono solo macerie.

Il Libano è il cortile del conflitto arabo-israeliano. E pensare che era considerato la Svizzera del Medio Oriente fino allo scoppio della guerra civile del 1975-1990. È lì, per esempio, che si rifugiavano i bancarottieri italiani per sottrarsi al carcere. Tipo Felice Riva, l’ex re del cotone (ed ex presidente del Milan) era fuggito a Beirut per evitare sei anni di carcere per bancarotta e ricorso abusivo al credito. L’industriale era già stato arrestato a Milano la sera del 4 febbraio 1969 all’uscita di un cinema del centro. Ma la solita Cassazione annullò il mandato di cattura per vizio di forma.

Il Libano è da decenni un paese disgraziato la cui economia è a terra e dove lo Stato non è altro che un fantasma. Certamente la geografia non ha aiutato: è stretto nella tenaglia tra la Siria degli al-Assad e la Palestina occupata dallo Stato sionista e il panarabismo. Pensare alla costituzione di due Stati in Palestina significa non aver chiaro che cosa è il sionismo (“Grande Israele”) e il panarabismo (la liberazione di tutta la Palestina dal mare al Giordano) [*]; pensare alla creazione di un unico Stato, che garantisca gli stessi diritti a tutti i cittadini, senza distinzione di origine o religione, significa non aver chiaro che cos’è il panarabismo, il sionismo e l’imperialismo.

Già nel 1932, quando sia Beirut che Damasco erano sotto mandato francese in due Stati distinti, il libanese Antoun Saadé fondò il Partito Social Nazionalista Siriano (SSNP), multiconfessionale e tuttora attivo in Siria, Libano e Giordania, con l’obiettivo di realizzare la “Grande Siria”. Paradossalmente, tra i musulmani libanesi il panarabismo ha avvicinato molti cittadini al Baath siriano (antagonista del Baath iracheno), un partito socialista. Invece buona parte della comunità cristiana, in particolare maronita, ha fatto la scelta opposta, quella di un legame privilegiato con l’Occidente e il nazionalismo libanese. Ma in realtà la linea di faglia è molto più complessa.

La realtà è che il Libano è un mosaico di comunità ed è soggetto a un sistema politico confessionale che promuove il clanismo, l’immobilità e la divisione. Per il momento, l’instaurazione di un sistema democratico e laico è impensabile, e la linea di demarcazione politica è semplice: un campo sostiene Assad (l’Alleanza dell’8 marzo), il suo avversario è la nutrita (più di 15 partiti) e contraddittoria coalizione anti-siriana (l’Alleanza del 14 marzo).

Gli sciiti libanesi, socialmente emarginati, hanno riposto le loro speranze in Hezbollah e nel movimento Amal, suo alleato, per il quale Israele è il nemico assoluto. A metà degli anni ’80, l’Iran, volendo trovare alleati sunniti, aprì le porte del Paese ad Hamas per formare un “asse di resistenza” che si estendeva da Gaza a Beirut. Il Libano è tornato ad essere il centro della lotta palestinese dopo che Israele ne aveva occupato il territorio fino a Beirut e aveva espulso l’OLP nel 1982. I libanesi hanno quindi ancora una volta un bersaglio sulle spalle, dove tutti possono sparare.

[*] Il Fronte popolare marxista-leninista per la liberazione della Palestina (PFLP) e la sua scissione, il Fronte democratico per la liberazione della Palestina (FDPLP), si attengono alla loro idea di un unico Stato, disconoscendo quanto invece riconosciuto nel novembre 1988 dall’OLP, ossia la risoluzione 242 dell’ONU votata nel 1967, e quindi di ammettere il diritto di Israele esistere. Provenienti dalla sinistra sedicente marxista, fondata da cristiani, questi due gruppi hanno finito per partecipare alla lotta armata contro Israele insieme ad Hamas e alla Jihad islamica. Oggi, avendo Fatah perso la sua legittimità agli occhi dei palestinesi a causa della sua accettazione di uno Stato che non riconosce i diritti dei palestinesi, i gruppi radicali giovanili si sono islamizzati e sostengono la resistenza armata, che, dicono, è l’unico modo perché il popolo palestinese riconquisti i suoi diritti storici e legittimi.

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