Durante le varie fasi della rivoluzione industriale, l’innovazione tecnologica, ossia le nuove macchine e tecniche che riducevano la quantità di lavoro necessaria per unità di prodotto, ebbe sicuramente un impatto sull’occupazione (vedi il celebre caso del luddismo), ma non quanto le crisi cicliche, spesso lunghe e gravi.
L’ultima grande crisi economica, per estensione, profondità e durata, va sotto il nome di Grande Depressione, che segnò drammaticamente gli anni Trenta del Novecento. Essa fu superata, seppure con difficoltà, dal massiccio intervento dello Stato nell’economia e, soprattutto, per i giganteschi investimenti nella produzione bellica.
Nel dopoguerra, la ricostruzione, le straordinarie performance dell’automotive e dei prodotti elettromeccanici, l’esplosione dei consumi di massa, garantirono trent’anni di grande sviluppo industriale, e quello tecnologico non ebbe effetti sull’occupazione, tanto che fu possibile assorbire decine di milioni di ex lavoratori delle campagne.
Già a partire dagli anni 1960 e ancor più degli anni 1970 si assiste a una nuova fase dello sviluppo tecnologico che va sotto il nome di “automazione”. Il sistema di fabbrica subì una profonda trasformazione, con un forte calo degli addetti L’impatto sull’occupazione della robotica e dell’informatica fu tuttavia mitigato dalla grande espansione del settore terziario e quaternario (*).
Ancora negli anni 1970 si potevano trovare figure lavorative archetipiche, come la dattilografa e il contabile, ma già nel decennio successivo quelle stesse figure rappresentavano un anacronismo. Dall’elettromeccanico tradizionale si è passati a tecnologie basate sulla microelettronica, la diffusione di sua maestà il computer, quindi il salto dall’analogico verso il digitale, poi dai floppy disk via via fino al cloud, dal gettone ai cellulari e ora agli smartphone, nell’insieme lo sviluppo di nuovi canali di comunicazione
Questa trasformazione tecnologica ha avuto un decisivo impatto sulla struttura dei posti di lavoro, dunque sull’occupazione, sulle condizioni di lavoro e sui rapporti salariali, ovviamente anche sugli incrementi di produttività e sull’orario di lavoro. Tuttavia altri fattori di segno opposto sono intervenuti in modo che la disoccupazione non è diventata, fino ad ora, un fenomeno di massa: l’emigrazione, questa volta non solo di braccia ma anche di teste; la precarizzazione del lavoro; il progressivo decremento demografico fino al crollo delle nascite attuale.
Tali fenomeni sociali, se in parte mitigavano gli effetti di una potenziale disoccupazione di massa indotta dalle nuove tecnologie, dall’altro creavano nuove situazioni problematiche: la carenza di figure professionali di alto livello; l’irrompere di nuove povertà; lo sbilanciamento del rapporto demografico tra giovani e anziani, con varie ricadute, anche sul fronte della spesa pubblica.
Siamo ora all’inizio di una nuova fase dello sviluppo tecnologico, l’ascesa vertiginosa della nuova tecnologia “intelligente” cambierà in modo significativo il panorama del mercato del lavoro. Le competenze che sono rilevanti oggi potrebbero non esserlo più già domani, e dunque ci aspettano decisive ricadute sul piano sociale. Questa volta l’impatto sull’occupazione non interesserà principalmente la forza-lavoro generica (tipo le cassiere dei supermercati), di media o bassa istruzione, ma anche, se non soprattutto, la forza-lavoro degli ambiti professionali più spiccatamente intellettuali e specializzati (si veda già cosa accade nelle banche). È probabile, per esempio, che non sentiremo più da parte di molti giornalisti parlare di “distruzione creativa”, perché ad essere distrutti, tra gli altri, saranno proprio i loro posti di lavoro (**).
Tra l’altro, già oggi i dividendi tecnologici (superprofitti) sono distribuiti in modo non uniforme (eufemismo) tra le aziende. I grandi gruppi monopolistici stanno sfruttando appieno le nuove tecnologie, a differenza di molte piccole e medie imprese che incontrano difficoltà per adattarsi alle costose nuove tecnologie.
Siamo solo agli inizi di una nuova fase storica, il vecchio operaio-massa, inteso quale soggetto interessato al radicale rovesciamento del sistema, appartiene al passato. Altre e diverse figure sociali, in bilico tra lo status attuale e la proletarizzazione, si presenteranno sul palcoscenico del dramma capitalistico. La loro ideologia è improntata alla conservazione e anche alla reazione, ma, sotto l’incalzare degli eventi potrebbero volgersi da tutt’altra parte. Dal punto di vista politico, chi saprà approfittarne?
(*) Il legame tra progresso tecnico e diminuzione della quota di lavoro necessario risponde alla legge fondamentale del modo di produzione capitalistico, scoperta da Marx, che riguarda il saggio del profitto (da non confondere con il saggio di plusvalore).
(**) La questione di quello che potrebbero fare le nuove macchine “intelligenti”, è mal posta. Una macchina, per quanto possa essere potente nei suoi processi di calcolo, resterà sempre una macchina. Il problema va visto da un altro punto di vista, e riguarda in genere la scienza e la tecnologia nel loro insieme: l’impiego e il controllo capitalistico e politico di tali potenti mezzi.
Non so se e quando i proletarizzati si ribelleranno. Le rivolte contadine erano un cavallo di battaglia di Dario Fo, ma sono rimaste confinate a Mistero Buffo. A mio parere, il nocciolo duro della questione sta nel potenziale ingripparsi del circuito salari/ricavi. Ossia, con quali soldi i neoproletari pagheranno i beni e servizi? Suppongo che l'élite abbia in mente una soluzione a tenaglia: riduzione della popolazione e statalizzazione dei costi. Se fossi Stanley Kubrick, farei un bel film con la filiera: allevamento di insetti/fabbrica di alimenti ecologici/ mensa dei neoproletari, il tutto di dimensioni sconfinate. Finita la sua razione di larve, il proletario riceve una razione di droga sintetica e si dedica a qualche attività interattiva che non riesco a immaginare oggi, ma se fossi Kubrick immaginerei. (Forse però è meglio Aldous Huxley).
RispondiEliminaRimane irrisolta la sproporzione numerica, resa più disturbante dall'innalzarsi dell'età media. Sì, occorrerà trovare un sistema efficiente di riduzione delle bocche.
il sistema efficiente di riduzione delle bocche esiste da sempre
EliminaE Gaza e Ucraina sono solo l'inizio.
EliminaPietro
Ps investimenti massicci della Silicon Valley in startup belliche con lo scopo di testare nuove armi durante l'olocausto nella striscia. Il maiale non butta via niente.
“divitiae avaritiam…et desiderium per luxum atque libidem pereundi perdendique omnia” – Livio (le ricchezze hanno portato l’AVIDITÀ e la smania di distruggere tutto per il lusso sfrenato).
RispondiEliminaIl 5% delle famiglie possiede la metà della ricchezza
FQ 9 GENNAIO 2024
Il 5% delle famiglie italiane possiede circa il 46% della ricchezza netta totale”. È quanto si legge nell’analisi della Banca d’Italia nell’ambito Bce secondo cui “i principali indici di disuguaglianza sono rimasti sostanzialmente stabili tra il 2017 e il 2022, dopo essere aumentati tra il 2010 e il 2016”. Lo studio evidenzia come le famiglie meno abbienti possano contare principalmente sul possesso dell’abitazione mentre quelle più benestanti detengano un portafoglio più diversificato in azioni, depositi, polizze. L’analisi ricorda come “metà della ricchezza degli italiani sia rappresentata dalle abitazioni” e “tale percentuale varia tuttavia fortemente in base alla ricchezza: le abitazioni raggiungono i tre quarti della ricchezza per le famiglie sotto la mediana, si attestano poco sotto il 70% per quelle della classe centrale mentre scendono a poco più di un terzo per quelle appartenenti alla classe più ricca. Per le famiglie più povere, i depositi sono l’unica componente rilevante di ricchezza finanziaria (17%).