martedì 10 gennaio 2023

Uno dei tanti

 

Finalmente ho portato a termine la lettura dell’autobiografia di Andrea Carandini: L’ultimo della classe. Tentarne una sintesi, in un post, è impresa assai problematica, non solo per la mole del libro (704 pp. di testo), ma per la miriade di argomenti toccati dall’Autore. Temi d’impronta filosofica e psicologica, di sociologia e di costume, ovviamente di archeologia e storia, di critica politica e sociale, tutto ciò o quasi in connessione con i trascorsi della sua lunga vita.

È un libro a tratti imbarazzante, specie laddove evoca il suo complesso di Edipo, che a suo dire l’ha tormentato per gran parte della sua esistenza. Mi ricorda in qualche modo il fastidio che mi provocava la lettura di Proust, laddove per centinaia di pagine ci si deve sorbire la frustrazione dello scrittore di quand’era bambino per il mancato “bacio della mamma”.

Personaggi di estrazione borghese (Carandini ha origini aristocratiche, fatto che quasi stigmatizza, pur rimarcandolo ad ogni pagina), che da adulti non avevano il problema di mettere assieme il pranzo con la cena, e dunque inclini a manifestare ansie e “disturbi” neurovegetativi. Proust è considerato unanimemente un caposaldo della letteratura del ‘900, perciò bisogna farsene una ragione. Carandini è considerato un archeologo di vaglia, e su questo non ho nulla da dire, quanto al resto ho più di qualche perplessità su ciò che sostiene, e non mi riferisco solo alla sua suggestiva e contestata tesi sulle caratteristiche proprie della schiavitù nel mondo preromano (rinvio sul punto a Filippo Coarelli).

Dicevo dell’imbarazzo che può suscitare questo libro. Già dal titolo si denota un marcato narcisismo, poiché l’Autore per “ultimo della classe” intende riferirsi a se stesso non perché fosse stato un alunno neghittoso, bensì perché rivendica di essere l’ultimo (o tra gli ultimi) borghese liberal-democratico rimasto sulla piazza, erede di un impegno civile e di un sentimento morale propri dell’aristocrazia degli intellettuali del tempo che fu, che con gli attuali chiari di luna si può, ahimè, rimpiangere. Tuttavia, osservo, tali personaggi non furono tutti esenti da ambiguità nei loro rapporti con il fascismo, basti pensare al suo maestro Bianchi Bandinelli.

Racconta di un’epoca e di un ambiente sociale che non esistono più, in cui “tutto era intatto, naturale e stabile, pronto a tradursi in una leggenda eterna”. Insomma, Carandini scrive come testimone di un paradiso perduto a causa di “uomini ignoranti quanto frettolosi di progredire, vitalissimi e con l’avversione spasmodica per la natura, madre della loro tramontata miseria”. Nostalgico rammenta “la visione di un mare deserto e profumato, con rari signori in visita diurna al quel tempietto delle nostre delizie” (p. 155).

Se guardiamo a come sono stati ridotti i nostri litorali non gli si può dare torto, non almeno del tutto, e si può anche comprendere la sua “giovanile idiozia” per l’infatuazione maoista, fino a tappezzare la propria casa di manifesti cinesi. Più centrata è la sua critica agli “industriali italiani, [che] dopo aver ceduto quasi tutti al fascismo e usato lo Stato come stampella alle loro poco autonome imprese, sono stati sempre pronti ad accordarsi con qualsivoglia potere pur di difendere i propri affari” (p. 308).

Pentito dei suoi trascorsi maoisti e della sua successiva breve stagione nel Pci, Carandini se la prende in particolare con il marxismo, “il maggior avversario del liberalismo”, ma non con Marx, quello dei Grundrisse, per ciò che piace a lui però (molti anni fa lessi di Carandini L’anatomia della scimmia, una sua epitome delle Formen marxiane). Anzi, lamenta che i liberali lo conoscano poco o per nulla, e dunque come faccio a non essere d’accordo?

Più volte ribadisce la sua vera e propria idiosincrasia per la lotta di classe (non quella dei padroni, ma quella delle classi subalterne). Ciò che auspica è la collaborazione tra le classi sociali, il “compromesso sempre da rinnovare per quanto riguarda l’antinomia per libertà e uguaglianza” (304), del quale compromesso “non è accettabile se ne siano scordati gli stessi eredi del liberalismo di sinistra”.

Questo è un punto interessante, perché permette di rilevare che chi non appartiene alla destra (alla destra italiana!), può essere annoverato tra quelli “di sinistra”, qualunque cosa ciò voglia dire, ossia è sufficiente che sia un conservatore nostalgico e non sia invece apertamente un nostalgico reazionario.

Lo scopo ultimo è preservare il ruolo di guida di una élite illuminata, liberal democratica, “contro il pericolo di una sovranità popolare illimitata”, “come era nel passato riuscita a fare l’aristocrazia nei confronti della monarchia assoluta” (359). A “compenso della omogeneità mediocre delle masse” e a “uno Stato onnipresente”, Carandini antepone l’essenzialità di “libere associazioni di cittadini come lo erano stati gli antichi casati nobiliari” (ibidem).

E ancora, a mo’ di programma politico: “il livellamento porta a elevare sempre più chi sta in basso e a deprimere che sta in alto. Nel degradare ogni grandezza, riducendola a mediocrità, ignora ogni sazietà” [...] “la rivoluzione ugualitaria scatenata dalla democrazia deve essere pertanto nuovamente bilanciata dalla resistenza alla passione livellatrice incline al conformismo, all’intolleranza e al dispotismo – visto l’amore che le masse sentono per i leader carismatici –, altrimenti la democrazia degenera in demagogia” (358).

Le trasformazioni della società borghese sono spacciate da Carandini come risultato di “una democratizzazione che ha perso ogni possibile qualità liberale”, tanto che “l’interesse generale della Nazione si è smarrito” (308). Non sembra accorgersi delle cause reali e strutturali della scomparsa di quel proletariato che “conservava i valori della moralità e dell’operosità”, e dunque individua la responsabilità del livellamento verso il basso di tutta la società nel fatto che abbiamo intronizzato, al posto del sapere, l’ignoranza, per cui una maggioranza di cittadini appare oggi sradicata e nullificata” (442).

In sostanza elude i motivi reali del livellamento verso il basso, dell’ignoranza e disaffezione diffusa, che non sono quelli della eccessiva democratizzazione e sviluppo del principio egualitario. Al contrario, basti pensare alle stridenti disuguaglianze reddituali, una forbice della ricchezza e della povertà le cui punte si vanno sempre più divaricando, quindi alle infinite tipologie contrattuali a cui è soggetta la forza lavoro, sfruttata a livelli di vera e propria schiavitù, una situazione che dovrebbe far vergognare una società civile degna di questo nome.

Ciò a cui abbiamo assistito e continuiamo ad assistere impotenti e apparentemente indifferenti, è il risultato di una precisa strategia, perseguita con costante determinazione dall’establishment tecnico-politico, che ha elevato il “mercato” a metro di ogni cosa e favorito in ogni modo lo sviluppo del sistema finanziario al di là di ogni limite.

Anche sul piano dell’istruzione, dell’informazione e della cultura, nulla è accaduto per caso. Fuori del rapporto di scambio e di sfruttamento, per il capitale ogni costo diventa improduttivo, irrazionale e, dunque, assolutamente privo d’interesse. Che si tagli la spesa sociale per dare soldi ai padroni, in nome della crescita e della competitività, rientra nella logica dell’intervento dello Stato appaltato dalla borghesia.

Lo scontro sociale è stato abbondantemente vinto non per via della democratizzazione e dell’egualitarismo, ma è stato vinto dalla borghesia sul piano dei rapporti sociali prima ancora che ideologici, sul piano concreto del dispiegarsi della nuova fase globalista, nell’internazionalizzazione del mercato del lavoro e dello scambio, poi agendo con pervicacia sulle determinazioni politiche della crisi e quindi favorendo la lotta di classe, quella portata avanti dai padroni del mondo.

L’abbandono di ciò che abbiamo di più solido e scientifico in materia di critica dell’economia politica, e dunque l’abbandono e anzi lo sputtanamento sistematico della critica del modo di produzione capitalistico, è stata la causa principale della sconfitta politica, ideologica e morale della sinistra. Di questo essenzialmente si tratta, ma doverlo ammette rode il culo a Carandini e a quelli come lui.

7 commenti:

  1. molto d'accordo ultimo paragrafo: un abbandono interessato comunque. Almeno a livello personale, particolare si direbbe. Bisogna capire quanti sono i Carandini ("uno dei tanti" appunto) e come sono presi oggi.

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  2. in fondo trovo più perniciose uscite liriche tipo Toni... anche se forse più contenute...

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  3. parlavi l'altro giorno dell'inesausta dialettica tra caso e necessità, ma buttaci pure l'interesse - che fa studiare una cosa e non l'altra, per esempio - e frulla.
    Fa presto l'interesse a diventare scienza.

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  4. O. T:
    ANSA) - ROMA, 12 GEN - Il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso e il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi sono ''in arrivo'' a Kiev.

    Lo si apprende da un tweet del ministro che pubblica la foto di loro due in treno verso la capitale ucraina.

    https://www.ansa.it/sito/notizie/topnews/2023/01/12/ucraina-urso-e-bonomi-in-viaggio-verso-kiev_62cada32-6fda-47ba-97ee-a6b2d6a15fa5.html

    P. S: questo spiega anche perché stiamo dalla parte di Zelensky e dei suoi scagnozzi nazisti?

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  5. P. P. S: l'idea di segnalarle l'O. T mi è venuta quando ho letto dal suo post, questo brano: Più centrata è la sua critica agli “industriali italiani, [che] dopo aver ceduto quasi tutti al fascismo e usato lo Stato come stampella alle loro poco autonome imprese, sono stati sempre pronti ad accordarsi con qualsivoglia potere pur di difendere i propri affari” (p. 308).
    Saluti

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  6. D'altronde se pensiamo agli industriali come fossero esseri umani,allora il loro comportamento sarebbe perlomeno criticabile o molto peggio. Ma quelli pensano solo al guadagno e ai privilegi e quindi con chi volete che si apparentino ? Con il potere, mica con noi .

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  7. Urso, nato nel 1953. Che nome gli danno, i genitori? Adolfo.

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