I nostri eroi della fornicazione giornalistica riescono a rendere insignificante la maggior parte di ciò che accade realmente nel mondo, pubblicando per giorni e giorni cazzate sulle lussuose vacanze del nemico politico di turno, oppure fingendo scandalo per episodi di ordinaria corruzione, come non fosse notorio il fatto che i comportamenti fraudolenti, anche quando non formalmente illeciti, sono una componente strutturale non solo della vita politica ma di tutto il sistema borghese (si potrebbe ricopiare tutto Balzac ecc.).
Infatti, non mi pare che la stampa e la televisione qui da noi stiano dando il risalto che merita a ciò che sta avvenendo in Iran. Dati i rapporti economici tra Italia ed Iran c’è stato forse l’ordine di tenere un basso profilo? Non parliamo poi dei social network, dove i soliti personaggi da cabaret sono troppo impegnati nel loro monologo su se stessi.
Per esempio, più di trenta autori e poeti sono stati imprigionati nel Paese dall’inizio della rivolta contro il regime. Dalla morte di Mahsa Amini, il 16 settembre, dopo il suo arresto per una sciarpa “male indossata”, più di 14.000 persone sono state arrestate secondo Human Rights Activists News Agency, e tra loro un certo numero di romanzieri, librai, traduttori, editori. Diciamocelo francamente, frega un cazzo a nessuno o a molto pochi.
Non bisogna tuttavia tacere il fatto che le proteste di massa in Iran nascono anche per la grave situazione economica e l’aggravarsi di una diffusa povertà. Ciò ovviamente non giustifica in alcun modo il regime di cui è a capo, almeno formalmente, il presidente Ebrahim Raisi. Il potere effettivo e il controllo sulla polizia e i bassidji (milizia legata ai “guardiani della rivoluzione”) è nelle mani di Khamenei, un fanatico sciita determinato a reprimere il movimento di protesta con brutale violenza e condanne capitali.
Washington, sotto Trump e ora Biden, ha montato una campagna di massima pressione contro l’Iran, imponendo sanzioni economiche che equivalgono a un atto di guerra. Lo scopo esplicito di questa campagna è far crollare l’economia iraniana, e quindi sfruttare le divisioni all’interno della borghesia in modo da ottenere un cambio di regime, cosa in sé ottima, se non fosse che si punta a un regime neocoloniale sotto controllo americano (*).
Le due parti sembrano avere un tacito accordo. Finora non sono mai venuti in una guerra aperta (l’Iran non è per molti aspetti l’Iraq). Quando ci sono scontri, questi avvengono nell’ombra: terrorismo, accuse, provocazioni e attacchi informatici. L’Iran rimane un paria internazionale, con pochi alleati tra i suoi vicini tranne una Siria moribonda, la minuscola enclave dell’Armenia, ambigue presenze in Libano e ora pare ci sia un avvicinamento con Mosca (**).
Più che le violazioni dei diritti umani, ciò che vogliono gli Usa e i suoi alleati è l’abbandono del programma nucleare iraniano, così come da ultimo non viene perdonato a Teheran la fornitura di droni alla Russia. Non si è lontani dal vero se si sospetta che dietro le proteste, promosse inizialmente nell’Iraq settentrionale controllato dai curdi (dove sono attivi da tempo la CIA, il servizio segreto britannico MI6 e il Mossad), vi sia la lunga mano di Washington e dei suoi alleati (***).
Pertanto, pieno sostegno alle proteste contro il regime di Teheran, che però gode ancora dell’appoggio di larghi strati della popolazione (come dimostra l’imponente manifestazione filogovernativa del 4 novembre: non deve stupire che si difenda l’orgoglio nazionale ignorando la parte reazionaria e oscurantista del regime), ma occhio alle manovre di guerrafondai e ladri occidentali, maestri nell’usare i diritti umani in funzione dei loro criminali disegni.
(*) In Iran, il bilancio della difesa passò da 1,5 miliardi di dollari nel 1973 a 9,4 miliardi nel 1977. Nello stesso periodo furono firmati contratti per oltre 12 miliardi di dollari per l’acquisto di armi e attrezzature militari negli Stati Uniti. Ciò provocò una sorta di corsa all’oro, più di 40.000 americani arrivarono in Iran per cercare fortuna. La presenza di tanti stranieri è stata fonte di gravi problemi sociali e risentimenti. I dipendenti della Bell Helicopter a Isfahan, per esempio, erano noti per ridicolizzare le tradizioni locali ed essere apertamente sprezzanti.
C’erano semplicemente troppi americani in Iran. Il governo americano, espressione degli interessi delle multinazionali, non poteva impedire a Rockwell, Westinghouse o Raytheon di firmare lucrosi contratti di armi. È necessario partire da queste premesse storiche se si vuole comprendere che cos’è successo in Iran nel 1979 e in seguito. Non avendo una élite politica pronta a sostituire il regime dello Scià, la borghesia iraniana si affidò agli ayatollah, pensando poi di riuscire a tenerli sotto controllo.
Si deve tener presente, al riguardo, il fatto non secondario che l’Iran è l’unica nazione mediorientale ad aver conservato la propria identità nazionale attraverso gli sconvolgimenti delle invasioni arabe, turche e mongole. È l’erede della cultura più ricca del Medio Oriente: una cultura che si estende ben oltre i confini politici dello stato. L’Iran non è un paese coloniale come l’Italia, senza alcuna dignità, che permette l’immunità legale ai soldati americani.
(**) Nel gennaio 2016, proprio mentre lo storico accordo sul nucleare stava per entrare in vigore, due motovedette della marina statunitense sono entrate nelle acque iraniane nel Golfo Persico. Solo sforzi monumentali hanno evitato una nuova crisi degli ostaggi in Iran e il fallimento di questo delicato accordo.
Succede sempre nei rapporti con Washington, come sperimenta oggi la Russia di Putin, laddove gli Usa vogliono ignorare con determinazione il principio di separare la persona dal problema (così con Gheddafi, Saddam, ecc.). La prima regola è: il conflitto porta a qualcosa? Non importa, non è il risultato che conta, perciò rendere tutto più difficile ogni volta che una trattativa sembri fare progressi (vedi il caso sopraccennato delle motovedette, oppure il falso incidente del Tonchino, ecc.). In secondo luogo, non dire mai “sì” a ciò che offre il campo avversario: appariresti in una posizione debole. Terzo, l’obiettivo di Washington, che non varia mai, è indebolirti e destabilizzarti.
(***) Vari gruppi di esuli curdi che hanno sede appena entro il confine iracheno, tra cui il Partito democratico curdo, il Partito Komala del Kurdistan iraniano (Abdullah Mohtadi, segretario generale del partito, è stato a Washington in novembre, dove ha avuto incontri con membri chiave della commissione per le relazioni estere del Senato e del Congresso), il PAK (Parti Azadi Kurdistan) e il PJAK (Partito per la vita libera del Kurdistan), hanno ricevuto finanziamenti da Washington. Lo scopo è quello di sfruttare le legittime proteste della minoranza curda iraniana (10 milioni di persone), che ha subito a lungo discriminazioni da parte del regime clericale, inclusa la messa al bando della loro lingua nelle scuole, la quale sollecita una qualche forma di autonomia che però, data la struttura sociale curda, andrebbe a vantaggio di una piccola manciata di famiglie, come è accaduto nel corrotto governo regionale del Kurdistan iracheno, dominato dal clan Barzani.
Gentile Madame, mi consenta un offtopic d'attualità
RispondiEliminaQuando sento che in questi giorni più di 200mila persone si sono recate a Roma a venerare il papa emerito penso che la nostra società, che pure è una prigione che stritola corpi e menti, consente ancora a molti di impiegare il tempo libero nei modi più strampalati
speriamo che consenta ancora a lungo e a chiunque di impiegare il proprio tempo come desidera, anche nei modi più strampalati purché pacifici e non a danno altrui
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