sabato 16 luglio 2022

La prima multinazionale della storia

 

Segnalo un saggio storico monumentale e imperdibile. Quasi 500 pagine di testo, dunque un saggio abbastanza corposo, con buona pace di quelli che hanno “problemi con i libri lunghi” e pongono “un limite massimo di 400 pagine”. Ammettono che leggere un libro lungo è sempre meglio “che starsene davanti alla Tv a guardare una gara di auto in cui nessuno supera nessuno”, precisando che “una parte del tuo tempo sarà [comunque] andata sprecata”.

L’opera della quale propongo qui di seguito alcuni brevi stralci, è dello storico scozzese William Dalrymple, uno dei migliori specialisti britannici di India e Asia. S’intitola Anarchia (The Anarchy. The Relentless Rise of the East India Company), per l’editore Adelphi. Leggendolo hai la sensazione che la storia si ripete in ogni modo e la geografia politica rimane la stessa.

«Il 28 agosto 1608 il capitano William Hawkins, il burbero comandante della Terza Spedizione, ormeggiava la sua nave, l’Hector, a largo di Surat, diventando così il primo comandante di un vascello della Compagnia delle Indie Orientali a mettere piede sul suolo indiano.

L’India contava allora 150 milioni di abitanti – più o meno un quinto della popolazione mondiale – e produceva circa un quarto della manifattura globale; per molti aspetti era la locomotiva industriale del mondo e la prima produttrice di manufatti tessili. Non è casuale se tanti lemmi collegati alla tessitura presenti nelle lingue europee – chintz, calicò, scialle, pigiama, kaki, dungaree, cummerbund, taffetà – sono di origine indiana» (pp. 58- 59).

«Lo storico di Cambridge Angus Maddison ha dimostrato che intorno al 1700 l’India superò brevemente la Cina come prima economia del mondo. Le cause erano diverse: Sher Shah Suri e i Moghul avevano favorito i commerci sviluppando strade, trasporto fluviale, rotte marittime, porti e abolendo molti dazi e gabelle nell’entroterra. Anche la loro voluttà estetica contribuì a far raggiungere nuove vette di bellezza e lucentezza ai prodotti tessili indiani. [...] Le cifre dettagliate di Maddison mostrano che nel 1600 l’Inghilterra produceva l’1,8% del Pil mondiale, mentre in India il 22,5%» (nota alle pp. 498-99).

« [...] il Bengala era “il paese più bello e più fertile del mondo”, secondo il viaggiatore francese Francois Bernier. Era uno dei “paesi più ricchi, popolosi, è meglio coltivati” riconobbe lo scozzese Alexander Dow. Con le sue miriadi di tessitori – 250.000 nella sola Dacca – e l’ineguagliata produzione di tessuti di lusso – sete e mussoline ricamate, di straordinaria raffinatezza –, sul finire del diciassettesimo secolo il Bengala era il principale fornitore asiatico di beni all’Europa e di gran lunga la regione più prospera dell’impero moghul, il luogo dove più facilmente si poteva fare fortuna» (pp. 72-73).

«Si sente ancora dire che gli inglesi conquistarono l’India, ma questa frase cela una realtà più sinistra. Non fu il governo britannico che iniziò a dilaniare l’India, un pezzo alla volta, a metà del XVIII secolo, ma una società privata pericolosamente non regolamentata basata in un piccolo ufficio di sole cinque finestre a Londra e gestita in India da un predatore aziendale violento, assolutamente spietato e, a tratti mentalmente instabile: Robert Clive.

La transizione dell’India al colonialismo avvenne per mano di una società a scopo di lucro, che operava solo fine di arricchire i suoi investitori» (pp. 29-30).

« [...] I Vittoriani pensavano che la sostanza della Storia fosse la politica degli Stati nazionali. Questa, e non l’attività economica di aziende corrotte, era, nel loro credo, l’unità fondamentale di studio e il vero motore della trasformazione delle vicende umane. Inoltre, gli piaceva pensare che l’Impero fosse investito di una mission civilisatrice: un benevolo trasferimento nazionale di saperi, ferrovie e arti dal civile Occidente all’Oriente; mentre il saccheggio privato che aveva elaborato il governo britannico era oggetto di una calcolata e deliberata amnesia» (p. 30).

« [...] Come accade con tutte le aziende di questo tipo, allora come oggi, la Compagnia delle Indie Orientali doveva rendere conto esclusivamente ai suoi azionisti. Non avendo alcun interesse nell’equa gestione della regione o nel suo benessere a lungo termine, il governo della Compagnia si trasformò presto in un saccheggio sistematico del Bengala e nell’immediato trasferimento delle sue ricchezze a Occidente» (p. 33).

« [...] Nel 1803, quando l’esercito privato della compagnia contava quasi 200.000 uomini, essa aveva già rapidamente sottomesso o direttamente annesso un intero subcontinente. Incredibilmente vi riuscì in meno di mezzo secolo. Le prime conquiste territoriali vere e proprie erano iniziate nel Bengala nel 1756; quarantasette anni dopo, Il braccio della compagnia si estendeva a nord fino a Delhi, la capitale moghul, e quasi tutta l’India a sud di quella città era governata di fatto dalla sala riunioni di un consiglio di amministrazione nella City di Londra. “Che onore ci rimane” chiese un funzionario moghul “se dobbiamo prendere ordini da un pugno di mercanti che non hanno ancora imparato a lavarsi il sedere?”» (p. 29).

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Com’è possibile che un impero tanto vasto, ricco e dotato di un esercito potentissimo come l’impero moghul sia stato sottomesso e depredato in pochi decenni, nel XVIII secolo, dalla Compagnia delle Indie Orientali? Dalrymple racconta in dettaglio le cause che portarono alla decadenza dell’impero e poi alla sua sottomissione agli inglesi. Anche in India, come già prima in Europa, vi furono cruente e devastanti guerre di religione, le quali però, com’è noto, nascondono ben altro dietro le motivazioni confessionali. Nel libro di Dalrymple si trovano le origini dell’inconciliabile conflitto tra mussulmani e indù che tanta parte hanno nella storia dell’India moderna.

Per chi non volesse prendersi la briga di leggere un saggio relativamente impegnativo come quello di Dalrymple, può ripiegare su un libro che per caso m’è capitato tra le mani il mese scorso: Marco Moneta, Un veneziano alla corte moghul, UTET 2018. È il diario di Nicolò Manucci (Wikipedia: Niccolò), un viaggiatore del Seicento che conobbe molto da vicino la realtà moghul.

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Quando pensiamo alle idilliache ville di campagna britanniche, dovremmo riflettere sul fatto che esse nascondono spesso una storia oscura, di legami con la schiavitù e il colonialismo. Powis Castle, citata da Dalrymple nel suo libro, è una di queste ville, le cui stanze traboccano di spoglie imperiali razziate in India nel XVIII secolo dalla Compagnia delle Indie Orientali. La collezione rivaleggia per mole di tesori artistici con musei come il Palazzo Topkapi, l’Ermitage, ecc.. Vi sono più manufatti moghul accatastati in questo maniero privato nella campagna gallese che esposti in qualsiasi luogo dell’India.

Loot, è la parola hindi (लूट) per bottino, e non a caso è stata una delle prime parole indiane ad entrare nella lingua inglese.

Se chiedessimo a un gruppo di sostenitori del National Trust (l’omologo del Fai italiano), proprietario della imponente villa-castello di Powis Castle, se sia giusto e doveroso restituire ai legittimi proprietari i tesori d’arte saccheggiati dai nazisti, ci sarebbe una risposta univoca. Tuttavia la maggior parte degli inglesi semplicemente non è a conoscenza che per quanto riguarda i tesori accumulati a Powis Castle si tratta del medesimo genere di razzia e che l’India (per altri esempi la Grecia, l’Egitto, la Cina, ecc.) è una delle nazioni saccheggiate e i cui tesori d’arte ora si trovano nei musei inglesi e nelle ville di campagna britanniche.

Ecco a che cosa servono i godibili film come Passaggio in India, a creare lo stereotipo di un’India con donne in fluttuanti crinoline sui prati, maharaja che giocano a croquet ed elefanti disponibili a trasportare sorridenti coloni a caccia di tigri. Il fiore all’occhiello della collezione Powis Castle pare sia una testa di tigre d’oro tempestata di diamanti, smeraldi e rubini, che facevano parte del trono di una dinastia indiana.

Il National Trust ha acquisito circa il 90% della collezione della famiglia Clive, ma alcuni degli oggetti più preziosi sono occasionalmente messi in vendita dai suoi discendenti. Nel 2004, un reale del Qatar ha acquistato una fiaschetta di giada per tre milioni di sterline, uno scacciamosche per ottocentomila e la maggior parte dei narghilè. Dopo il saccheggio e la razzia, la dispersione.

15 commenti:

  1. L'India produceva il 22,5 del PIL mondiale. Alzi la mano chi lo sapeva. Io no.
    Bello questo blog, proprio bello.
    Baci

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  2. A proposito di scacciamosche da ottocentomila sterline, metto in vendita il mio a soli cinquecentomila euro
    tinyurl.com/54s78ftp

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  3. i precedenti storici:
    L’inglese Francis Drake (anzi, sir Francis Drake, dopo che la regina Elisabetta I lo fece cavaliere) nella seconda metà del Cinquecento è a sua volta protagonista di una straordinaria ascesa sociale ed economica. Una carriera straordinaria, che lo vede riscattare il ruolo storico della pirateria, fino ad allora esecrata in pubblico e tollerata, se non finanziata, dagli Stati nelle segrete stanze. La sua nomina a baronetto squarcia il velo di ipocrisia che oscura il rapporto tra il potere e la ciurmaglia terrore dei mari, da tempo capace di coniugare il proprio tornaconto con il bene supremo dell’Inghilterra. Sir Francis Drake ne diventa l’emblema.

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    1. dalla Treccani mi dicono che non bisogna confondere il ruolo di corsaro con quello di pirata, anche se agli effetti pratici pari sono.

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  4. Noi che siamo cresciuti leggendo Salgari sospettavamo già che quello britannico non fosse un impero benevolo e pacifico, ed ecco la conferma. Il libro vale una capatina in biblioteca.
    Pietro

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    1. mai sopportato il povero salgari, non mi giudichi male

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    2. Sarebbe stato un dio del web e dei talk show. Uno capace di scrivere milioni di parole su luoghi e argomenti che non conosceva. Pensa quante cazzate ci avrebbe elargito su Covid, guerra, cambiamenti climatici eccetera. Un Severgnini all'ennesima potenza, e per di più senza la faccia da fesso.

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    3. Ma se scriviamo solo di ciò che conosciamo, niente Divina Commedia né gialli (quanti omicidi ha commesso o vistocommettere A. Christie?), niente arte se non quella descrittiva, didascalica che palle. Saremmo ridotti a prendere atto della realtà, come i robot.
      Pietro

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  5. Il Principe invece ha poche pagine, ma è un testo vecchio e inattuale

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    1. non se ne abbia a male, ma lei è troppo permaloso, frettoloso e unilaterale nei giudizi. si plachi, potrà solo giovarle.

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  6. Le tue indicazioni bibliografiche sono altrettanti ordini.

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