Nell’inserto culturale di domenica scorsa del quotidiano di Confindustria compare una recensione di Gilberto Corbellini dal titolo accattivante: “E Vygotskij mandò i bambini a giocare”. Il libro recensito raccoglie cinque articoli di Vygotskij inediti in italiano ed è curato da Luciano Mecacci (un’autorità in materia).
Lev Semënovič Vygotskij (1896-1934) è stato un eminente psicologo russo, scomparso prematuramente per l’aggravarsi della tisi. La varietà dei suoi contributi spazia dall’estetica alla linguistica, dalla psicologia alla pedagogia, dalla psicopatologia alla neuropsicologia e a molto altro ancora. A leggere la recensione di Corbellini, Vygotskij è dato come un “materialista e monista, avendo come modello filosofico Spinoza” [sic!].
Ebbene, siamo alla solita e ormai frusta e datata conventio ad excludendum diventata una forma d’arte già ai tempi di cui Vittorio Strada fu maestro anche a proposito dei presunti nom de plume di Michail Bachtin solo perché erano “marxisti”.
Questo metodo elusivo di presentare i curricula di personaggi e la narrazione di fatti del passato, ha l’unico pregio di riportarmi con la memoria a certe letture formative di gioventù.
Sullo Spinoza modello filosofico dello psicologo russo un dubbio al lettore attento potrebbe venire laddove legge nelle parole di Corbellini: «Secondo Vygotskij, studiare qualcosa di storico significa studiarlo nel processo di cambiamento. Per questo sosteneva che lo studio storico del comportamento non è un aspetto ausiliario della ricerca teorica, ma ne costituisce la base stessa e chiama in causa il metodo dialettico».
Evidente la puzza di zolfo e come incombe l’ombra sinistra di Marx, ossia del materialismo storico-dialettico, se non proprio del “marxismo”, ormai diventato un marchio infamante.
Andiamo alla prosa vigotskijana esatta: «Studiare storicamente alcunché significa studiarlo il movimento [...]. È questa un’esigenza fondamentale del metodo dialettico. Soltanto cogliere come oggetto d’indagine il processo e lo sviluppo di qualche fenomeno in tutte le sue fasi e in tutti suoi mutamenti, dal momento del suo insorgere fino alla sua scomparsa, significa scoprire la sua natura e rivelare che cosa esso è in sostanza, poiché soltanto nel suo movimento un corpo mostra che cos’è. L’indagine storica del comportamento non è, dunque, soltanto un supplemento o un sussidio all’indagine teorica, ma anzi è la base di quest’ultima».
I termini della polemica evergreen sul riduzionismo sono già posti. L’uomo non è semplicemente un mammifero; non è solo il punto più alto raggiunto dalla materia nel suo divenire. Esso è qualitativamente irriducibile nei suoi processi sociali e psicologici al mondo animale dal quale si è emancipato.
In altre parole, le funzioni psichiche dell’uomo (linguaggio, attenzione, percezione, memoria, eccetera) non possono essere ridotte a semplici schemi di stimolo/risposta e neppure al meccanismo dei riflessi condizionati, come pretendeva il riduzionismo psicologico. D’altra parte, il comportamento umano non è nemmeno interamente deducibile dall’ambiente e dai fattori sociali, come pretende un certo riduzionismo sociologico, essendo esso condizionato anche da fattori biologici e fisiologici.
Con ciò Vygotskij prendeva le distanze non solo dal materialismo meccanicistico che caratterizzava le teorie riflessologiche, ma anche dalle correnti della psicologia occidentale, quale il comportamentismo statunitense, la psicologia della Gestalt, la psicanalisi. Egli affermava l’unità dialettica dell’aspetto materiale e di quello psichico, come pure dell’elemento sociale e di quello personale nel processo di autocostruzione della persona.
È un chiarimento importante, che riguarda da un lato il rifiuto di ogni determinismo naturalistico così come dall’altro è la presa di distanza dal mero storicismo.
Vygotskij fissava due presupposti generali, due principi metodologici decisivi per l’analisi del comportamento umano, che sono: analizzare i processi e non gli oggetti, spiegare e non semplicemente descrivere.
Anche se non si atteneva a una semplice riproduzione di ciò che avevano detto Marx ed Engels, ma aveva elaborato alcune loro posizioni in una teoria psicologica sofisticata, nondimeno egli fu tutt’altro che estraneo al loro potente influsso di critica della concezione dell’uomo in chiave biologica e naturalistica, e infatti vi contrappose la sua teoria dello sviluppo storico-culturale.
Nel 1925, pubblica il saggio Sulla coscienza che a buon diritto può essere considerato il Manifesto della scuola storico-culturale. Sul filo conduttore di questo lavoro egli pone come epigrafe il celebre passo tratto dal V cap. de Il Capitale di Marx, secondo il quale «Il ragno compie operazioni che assomigliano a quelle del tessitore, l’ape fa vergognare molti architetti con la costruzione delle sue cellette di cera. Ma ciò che fin da principio distingue il peggiore architetto dall’ape migliore è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera».
Scrive Mecacci a tale riguardo: «È un passo importante per la futura scuola storico-culturale perché basa il confronto su un comportamento concreto, un’attività concreta, interpretandola come un processo che dipende da un’idea prodotta dalla mente cosciente e [che] persegue uno scopo» (St. della psicologia del Novecento, p. 340).
Vygotskij non nascondeva nemmeno la continuità del suo lavoro con gli studi di Engels apparsi postumi in forma frammentaria nel 1925 con il titolo Dialettica della natura. Al contrario, egli esplicita questa sua connessione quando afferma che:
«La chiave di volta del nostro metodo [...] deriva direttamente dal contrasto che Engels rintraccia tra gli approcci naturalistici e quelli dialettici alla comprensione della storia umana.
Il naturalismo nell’analisi storica, secondo Engels, si manifesta nell’assunto che solo la natura agisce sugli esseri umani e solo le condizioni naturali determinano lo sviluppo storico. L’approccio dialettico mentre ammette l’influsso della natura sull’uomo, asserisce che l’uomo, dal canto suo, agisce sulla natura e crea attraverso le sue trasformazioni della natura nuove condizioni naturali per la sua esistenza».
Richiamandosi a questa tesi, Vygotskij individua la qualità specifica del comportamento umano nell’adattamento attivo dell’ambiente ai collttivi umani e pone alla base di ciò il lavoro inteso come esperienza duplicata. Scriveva: «Il lavoro ripete nei movimenti delle mani e nella trasformazione del materiale ciò che prima è stato fatto nella rappresentazione del lavoratore [...]. Questa esperienza duplicata che permette all’uomo di sviluppare forme di adattamento attivo, manca all’animale».
Come osservò Leontev: «Egli compì sul piano teorico una critica della concezione dell’uomo in chiave biologica e naturalistica, contrapponendo a questa la sua teoria dello sviluppo storico-culturale. La cosa più importante in tutto ciò fu che egli introdusse l’idea della storicità della natura della psiche umana, l’idea della trasformazione dei meccanismi naturali dei processi psichici nel corso dello sviluppo storico sociale e ontogenetico nella concreta sperimentazione psicologica» (Del metodo storico nello studio dello psichico umano, cit. in L.S. Vygotskij, Storia dello sviluppo delle funzioni psichiche superiori, Giunti 1974, p. 22).
Vygotskij in quegli anni fu un personaggio centrale della psicologia russo-sovietica. Dipendeva direttamente da Anatolij Lunačarskij, commissario del popolo all’istruzione, ed era in contatto personale con Nadežda Krupskaja, pedagogista, moglie di Lenin.
In seguito, al governo stalinista doveva disturbare non tanto il rapporto con la vecchia guardia leninista, progressivamente falciata via, ma quello ideologico con Trotckij. Questo fu, anche secondo Mecacci, “il vero problema” e alla fine “Vygotskij fu tacciato di trockismo per il suo marxismo eterodosso” (cit. dall’articolo pubblicato su il Domenicale del 9 luglio 2017).
Non va dimenticato il significativo contributo di Vygotskij allo studio delle cosiddette funzioni rudimentali, i comportamenti fossilizzati, che segnano i gradi di sviluppo originari del comportamento umano, quindi l’innovativa indagine sugli stimoli artificiali, creati socialmente per controllare e dirigere i comportamenti.
Ed è proprio in rapporto allo sviluppo delle funzioni psichiche superiori, specificamente umano-storiche, quindi in rapporto ai codici e ai sistemi di segnalazione tipicamente umani e sociali, che Vygotskij schiude la strada allo studio della genesi di un nuovo principio regolativo del comportamento, che rompe con le leggi dell’evoluzione biologica essendo in tutto e fino in fondo condizionato dalle leggi specifiche della materia sociale (*).
Quanto al concetto di “segno”, non è solo oggetto di attenzione da parte di Vygotskij, ma occupa un ruolo di notevole rilievo nella interpretazione complessiva della sua ricerca psicologica.
A Gilberto Corbellini evidentemente questo lato fondamentale della figura del “marxista eterodosso” non riguarda neanche un poco, fosse pure un accenno di passaggio, dunque non deve interessare neanche il lettore.
Si procede di male in peggio su tutti i fronti, si depreca la censura a colpi di censura, si vieta il grigio polarizzando tutto fra bianco e nero. Ed è già tanto che Vygotskij non sia fatto passare per un antesignano del dissenso antilukašėnkiano, visto che era nato a Orša.
(*) Come sono lontani Freud & Co. con le loro interpretazioni che non escono mai dai limiti di una teoria soggettiva su base “pulsionale”, di una continua lotta di motivazioni e “dinamiche psichiche” impregnate di valutazioni e punti di vista, di arbitrarietà che non smettono di stupire per la loro imprevedibilità e paradossalità, tanto che viene da chiedersi se quelle cose siano state scritte sul serio o per scherzo (l’attrazione sessuale verso la madre, il padre avversario, l’odio per il padre e il desiderio che egli muoia: tolto il peso ideologico che questi concetti acquistano soltanto nel contesto del nostro presente “adulto”, che cosa ne rimane?).
Nel 1927, Valentin N. Vološinov (che in troppi vorrebbero far passare per l’ombra marxista di Bachtin), polemizzando con le pretese freudiane di ancorare biologicamente l’inconscio, osservava come l’origine dei conflitti della coscienza individuale vi sia in definitiva lo scontro tra ideologie ufficiali e ideologie non ufficiali in lotta nella formazione sociale.
Per ideologia qui si deve intendere ciò che a tale riguardo scriveva Augusto Ponzio: «Dato il controllo che la classe dominante esercita sui codici, sui canali di comunicazione e sulle modalità di decodificazione e interpretazione del messaggio, il soggetto parlante segue linguaggi prefabbricati, logotecniche; si trova nelle condizioni di essere parlato dalle sue stesse parole, di essere portavoce di una totalizzazione della realtà che egli non ha compiuto, di cui non comprende il fine e la funzione» (Produzione linguistica e ideologia sociale, De Donato 1973, p. 197).
Annotava R. Curcio: «La formazione della coscienza spontanea, se ha come condizione il linguaggio, non può sfuggire al condizionamento dell’ideologia. Sicché, affermando il carattere segnico di tutte le zone della coscienza, se ne afferma anche, necessariamente, il carattere ideologico» (La cultura come meccanismo di produzione, circolazione e fissazione dell’informazione extragenetica, Corrispondenza Internazionale, 1982, p. 93).
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