*
Ferdinand Domila Nieuwenhuis, il maggior esponente della lega socialdemocratica, la principale forza politica socialista in Olanda, il 6 gennaio 1881 scrisse a Karl Marx chiedendo quali misure legislative in tema politico ed economico avrebbero dovuto prendere i socialisti nell’eventualità di una loro conquista del potere.
Roba da far tremare i polsi.
Tale “questione” i socialisti olandesi intendevano discuterla al Congresso internazionale di Zurigo (si tenne poi a Chur, alias Coira) dal 2 al 4 ottobre 1881. Il congresso era stato convocato su iniziativa dei socialisti belgi per discutere la creazione di una nuova Internazionale, decisone che non fu adottata.
La domanda posta da Nieuwenhuis, offrì a Marx l’occasione per precisare, ancora una volta, il suo pensiero in merito alla “questione” che turbava i sonni di molti socialisti e avrebbe continuato ad agitarli per generazioni, fino a quando, sfiniti da questo enigma della Sfinge, gli apostati dell’ultimo “comunismo” getteranno la spugna sputando sulle reliquie.
Non c’è conservatore borghese al quale non venga facile porre la domanda sul futuro eden comunista per mettere in difficoltà chiunque s’attardi sulla “questione” e non s’accontenti di brucare l’erba nel pascolo capitalista. Al balbettio evanescente che può seguire la fatidica domanda, il borghese gongola per la sua vittoria a tavolino, per aver inchiodato l’avversario sulla dirimente “questione”.
Né sono da meno, per contro, i compagni tutto pane e rivoluzione, con le loro rappresentazioni, i miti, le icone, le suggestioni, le invenzioni. Gestori dell’osteria dell’avvenire, sciorinano la ricetta della felicità perpetua, che contempla la “socializzazione dei mezzi di produzione” quale ingrediente principale con proprietà legante dell’insieme.
Come rispose, a sua volta, il Moro alla domanda posta da Nieuwenhuis? In premessa scrisse che la “questione” era una “sciocchezza” (*), che anzi doveva essere assunta come critica della questione stessa.
Oh, che delusione per coloro che s’attendevano i decreti attuativi pronti per la firma. Quale più smaccata conferma della mancata “soluzione” per chi lo considera alla stregua di un utopista. “Marx ha eluso la questione”, spettava a lui l’onere di dimostrare il “che fare” del comunismo al potere, e invece ha nascosto il proprio fallimento teorico nella “prolissità e oscurità” del suo linguaggio. Ecco perché non ha “concluso il secondo e il terzo volume del Capitale”, non ha saputo andare oltre l’uomo medio di Adolphe Quetelet !
Nella traduzione italiana, sostanzialmente corretta, della lettera marxiana, si legge:
«Ciò che si dovrà fare, e fare immediatamente, in un dato e particolare momento del futuro dipenderà naturalmente in tutto per tutto dalle reali condizioni storiche in cui si dovrà agire. La questione, allora, posta così in astratto, crea infatti un falso problema al quale si può rispondere solo con la critica della questione stessa. Non possiamo risolvere un’equazione che non racchiuda nei suoi termini gli elementi della sua soluzione. Inoltre, non c’è niente di specificatamente socialista nelle difficili decisioni di un governo nato all’improvviso in seguito a una vittoria popolare [...].
Lei potrà forse rimandarmi alla comune di Parigi ma, a parte il fatto che si trattò della sollevazione di una sola città in condizioni eccezionali, la maggioranza della Comune non fu in alcun modo socialista, e mai avrebbe potuto esserlo. [...] l’anticipazione dottrinaria e necessariamente fantasiosa del programma d’azione di una futura rivoluzione serve solo a distrarre dalla lotta presente.»
Max ebbe modo di riprendere la questione anche in altre occasioni. Per esempio ne Il Capitale, affermò che: «il modo di tipo capitalistico di produzione [...] si presenta come necessità storica affinché il processo lavorativo si trasformi in un processo sociale». Aveva ben chiaro che lo sviluppo del capitalismo avrebbe prodotto le condizioni più favorevoli per «costruire la base reale d’una forma superiore di società, il cui principio fondamentale sia lo sviluppo, pieno e libero, di ogni individuo».
Questo non era solo un auspicio; Marx ci offre la chiave per comprendere il carattere storico e transeunte della forma-valore, spiegando come questa possibilità potesse diventare realtà storica concreta (ne ho accennato qui).
E ciò malgrado l’insistenza sulla bontà ed eternità conferita dai suoi apologeti al capitalismo, e nonostante gli sforzi degli anticapitalisti, convinti suppergiù che basti “espropriare i capitalisti” per risolvere la famosa equazione (ricordo per l’ennesima volta che anche i CasaPound si definiscono anticapitalisti, non meno di quel bel tomo di Diego Fusaro).
Da parte mia non sostengo che Marx fosse un rivoluzionario moderato, tanto meno un riformista del capitalismo. La rivoluzione per lui non era un mero e rapido rovesciamento del sistema, bensì un processo lungo e complesso. Che il processo rivoluzionario si possa concludere nell’impeto della presa del “palazzo”, dello Stato, è cosa propria di lettori frettolosi e superficiali di Marx. Proprio nella lettera di cui qui si parla, Marx cita l’esempio del 1789, laddove nulla fu predefinito né sulle generali e tantomeno nel dettaglio.
Finalmente Marx, dopo la caduta dei cosiddetti socialismi reali, può essere liberato da tutto ciò che, suo malgrado, gli è stato fatto cadere addosso. Le sue idee e i suoi scritti tornano nuovamente oggetto d’interesse. Molto meno in Italia, a dire il vero, ma ciò non deve stupire, così come non desta sorpresa rilevare la bassa qualità e il consueto pregiudizio, manifesto o latente, che spesso contraddistingue gli articoli che se ne occupano occasionalmente. Del resto i media, contrariamente a quanto sostengono, non hanno lo scopo d’informare, ma quello di “creare la notizia”.
-------
(*) La lettera di Marx fu pubblicata per la prima volta, in russo, sulla Pravda, n. 62, il 14 marzo 1928. Nell’originale, così come proposto nel vol. 46 (p. 66) della Collected Works, si legge: «The forthcoming Zurich Congress’s “question” which you mention would seem to me a mistake». Nel volume di Lotta Comunista (Lettere 1880-1883), il termine “mistake” è tradotto, a mio avviso impropriamente, con “sciocchezza” (p. 53). Nel libro di Marcello Musto, L’ultimo Marx, Donzelli, la trad. a pag. 35 è data sulla scorta dalla richiamata edizione di Lotta Comunista. L’edizione tedesca (MEW, bd. 35, p. 160), riporta “Fehlgrif” (da Fehler = sbaglio).
La lettera originale prosegue così:
«What is to be done, and done immediately at any given, particular moment in the future, depends, of course, wholly and entirely on the actual historical circumstances in which action is to be taken. But the said question, being posed out of the blue, in fact poses a fallacious problem to which the only answer can be a critique of the question as such. We cannot solve an equation that does not comprise within its terms the elements of its solution».
grazie
RispondiElimina:)
Elimina