lunedì 24 settembre 2018

La spirale canforiana



Il recente saggio di Luciano Canfora, La scopa di don Abbondio, ha per tema, come rivela il sottotitolo, Il moto violento della storia, ossia i processi storici del mutamento sociale. Un librino, questo, che ha la pretesa dell'obiettività ma che la dice lunga sul peso della concezione idealistica della storia anche presso storici di vaglia come l’Autore.

Apre con una citazione tratta da Guerra e Pace, laddove Tolstoj, scrive Canfora, «coglie meglio di chiunque la difficoltà insita nel tentativo, che di continuo compiamo, di comprendere i ‘fatti storici’»:

«Per la mente umana –scrive Tolstoj – è inconcepibile l’assoluta continuità del moto. All’uomo divengono comprensibili e leggi di qualsiasi moto solo quando esamina delle unità arbitrariamente scelte di questo moto; [ed è] da questa arbitraria divisione del moto continuo in unità discontinue che scaturisce la gran parte degli errori».

Chiosa Canfora: «Intende: errori di comprensione dei fatti storici. E si riferisce all’immenso continuum delle volontà dei singoli, che costituiscono il vero (e difficilmente decifrabile) tessuto della storia.

«Il moto dell’umanità – osserva Tolstoj –, scaturente da un’infinita quantità di volontà personali, si compie continuamente». E perciò deduce che “La comprensione delle leggi di questo moto è lo scopo della storia»; «leggi – ribadisce Tolstoj – del moto continuo, somma di tutte le volontà degli uomini». E poi: «La somma delle volontà degli uomini ha prodotto sia la rivoluzione che Napoleone, e soltanto la somma di queste volontà li ha tollerati e annientati.»

Conclude Canfora: «Anche Tolstoj, dunque, perde la sfida con se stesso e si concentra sui destini e le volontà dei singoli. Compie la stessa operazione di ritagliare una “unità arbitraria”, sia pure anti-eroica. Ma la sfida resta in piedi. E il cimento è, per chi tenta di capire, immettersi, a proprio rischio, nella “assoluta continuità del moto”. Donde la domanda, legittima: di quale genere di moto si tratti».

Moto storico a spirale, sostiene Canfora, e in ciò ha buon gioco sul mero volontarismo tolstojano. Tornare indietro e ricominciare “a grado a grado”. Ciò che viene dopo non cancella del tutto ciò che è avvenuto prima, e altri truismi del genere. Delle rivoluzioni dice ciò che è inevitabile dire, e insomma ramazza i fatti di superfice e ne fa il solito mucchio condito da erudite citazioni.

Scrive che (il giovane) Marx azzardava le sue analisi “con tono spavaldo” (sic!), formulando “ingenui auspici”. Rimprovera al Marx quarantenne di credere in uno sviluppo unidirezionale (ascendente) della società borghese, di negare, già nelle prime righe del Manifesto, il persistere di forme di schiavitù vera e propria (*). Il che non è assolutamente vero, poiché Marx si riferisce al carattere generale della società moderna, «dove [la borghesia] ha raggiunto il dominio». Già ben prima del Manifesto, ossia nei Manoscritti del 1844, solo per citare un esempio, scriveva: «Ricordiamo solo di passaggio la tendenza al monopolio da parte dei proprietari fondiari nei confronti della proprietà fondiaria di paesi stranieri, donde hanno origine per esempio le leggi sul grano. Cosi pure sorvoliamo sulla servitù della gleba del Medioevo, sulla schiavitù nelle colonie, sulla miseria dei contadini, dei braccianti in Gran Bretagna».

Quanto al processo ascendente, ebbene sì, ma non all’infinito, non privo di contraddizioni. Scriveva Marx nel Capitolo VI inedito:

«Così si produce una rivoluzione economica completa; essa da una parte genera per prima le condizioni reali del dominio del capitale sul lavoro, gli dà forma adeguata e compiuta, dall’altra crea nelle forze produttive del lavoro, nelle condizioni di produzione e nei rapporti di circolazione da essa sviluppati in antitesi al lavoratore, le condizioni reali di un nuovo modo di produzione destinato a sopprimere la forma antagonistica del modo di produzione capitalistico, e perciò getta le basi materiali di un processo di vita sociale diversamente organizzato, quindi di una formazione sociale nuova.

È questa una visione radicalmente diversa da quella degli economisti borghesi, che, impigliati come sono nelle rappresentazioni capitalistiche, vedono come si produce entro il rapporto capitalistico, ma non come questo rapporto è prodotto e come, nello stesso tempo, si sprigionano dal suo seno le condizioni materiali della sua dissoluzione, sopprimendo così la sua giustificazione storica in quanto forma necessaria dello sviluppo economico, della produzione della ricchezza sociale.»

Non solo una visione radicalmente diversa da quella degli economisti borghesi, ma anche da quella degli storici borghesi!

*

Quale rapporto stabilì Marx tra il suo metodo scientifico e la storia? Il metodo scientifico che procede dall’astratto al concreto, che “sale dal più semplice al più complesso”, che opera secondo modelli, riflette o meno il movimento storico reale?

Posta in altro modo, la questione si presenta così: l’indagine scientifica deve o meno ripercorrere il processo di sviluppo storico del suo oggetto, e, eventualmente, in quali termini? La risposta non è per nulla scontata, ed infatti Marx risponde: «Ça dépend», dipende!

In alcuni casi, “il cammino del pensiero astratto che sale dal più semplice al più complesso” corrisponde “al processo storico reale”. In altri, no. E poiché non necessariamente vi è corrispondenza tra successione storica ed ordinamento logico delle categorie, sarebbe «dunque inopportuno ed erroneo disporre le categorie economiche nell’ordine in cui esse furono storicamente determinante. La loro successione è invece determinata dalla relazione in cui esse si trovano l’una con l’altra nella moderna della società borghese.»

A tal proposito, Engels osserva:

«La critica dell'economia, anche dopo che era stato acquisito il metodo, poteva ancora essere intrapresa in due modi: storicamente o logicamente. Poiché nella storia, come nel suo riflesso letterario, l'evoluzione va pure, in sostanza, dai rapporti più semplici ai rapporti più complicati, lo sviluppo storico-letterario dell'economia politica offriva un filo conduttore naturale a cui la critica poteva aggrapparsi, e in sostanza le categorie economiche sarebbero apparse anche in questo caso nello stesso ordine che nello sviluppo logico. […] La storia procede spesso a salti e a zigzag, e si sarebbe dovuto tenerle dietro dappertutto, il che avrebbe obbligato non solo a inserire molto materiale di poca importanza, ma anche a interrompere spesso il corso delle idee. Inoltre non si può scrivere la storia dell’economia senza quella della società borghese, e il lavoro non sarebbe mai arrivato alla fine perché mancano tutti i lavori preparatori. Il modo logico di trattare la questione era dunque il solo adatto. Questo non è però altro che il modo storico, unicamente spogliato della forma storica e degli elementi occasionali e perturbatori. Nel modo come incomincia la storia, così deve pure incominciare il corso dei pensieri, e il suo corso ulteriore non sarà altro che il riflesso, in forma astratta e teoricamente conseguente, del corso della storia; un riflesso corretto, ma corretto secondo leggi che il corso stesso della storia fornisce, poiché ogni momento può essere considerato nel punto del suo sviluppo in cui ha raggiunto la sua piena maturità, la sua classicità.»

Il metodo logico è, dunque, la chiave per la comprensione dello sviluppo storico: esso va al nucleo strutturale dello sviluppo storico consentendone un’analisi attenta, scientifica e sistematica. Ecco perché Marx afferma: «Per sviluppare le leggi dell’economia borghese non è quindi necessario scrivere la storia reale dei rapporti di produzione».

Il criterio logico di disposizione delle categorie economiche non è soggettivo.
La logica dialettica di Marx è una logica oggettiva e materialistica.

«Come in generale in ogni scienza storica e sociale, anche rispetto al procedere delle categorie economiche va sempre tenuto ben fermo che  ­– sia nella realtà, che nella testa ­– il soggetto, la società borghese nel nostro caso, è dato; e che, dunque, le categorie esprimono ­– di questa determinata società, di questo soggetto ­– forme d’esistenza determinata, determinazioni d’esistenza e, spesso, solo singoli lati; ancora, che questa società, pure dal punto di vista scientifico, in nessun modo inizia laddove inizia il suo discorso su di essa in quanto tale. »

*

Della crisi storica del capitalismo, e delle sue cause, nel librino di Canfora non c’è traccia. Né menziona la lotta di classe, se non per denunciare quanto sia diventata dura ed estesa la schiavitù moderna, né il ruolo della tecnologia quale sovrana del processo lavorativo, eccetera. Ciò che realmente gl’interessa è mettere alla berlina Marx sulle questioni che più hanno rilievo. Perciò mi chiedo per quale motivo Canfora accetti di vestire i panni di un Achille Loria dei nostri giorni (**). Forse il successo mediatico ed editoriale, il fatto che un pubblico semicolto accorra a frotte alle sue conferenze può fargli credere di poter trattare Marx come un suo pari?


(*) Scrive Canfora a p. 39: «È una vicenda [la guerra civile americana] che Marx seguirà da giornalista e che potrebbe aver scosso l'ingenua, o meglio astrattamente eurocentrica, sua visione dello sviluppo storico (affidata ai primi righi del Manifesto), che relegava la schiavitù tra i modi di produzione inerenti ad un passato remotissimo». Totalmente falso.

(**) F. Engels, nella Prefazione al III Libro: « L’Italia è la terra della classicità. Dalla grande epoca in cui spuntò sul suo orizzonte l’alba della civiltà moderna, essa ha prodotto grandi caratteri, di classica ineguagliata perfezione, da Dante a Garibaldi. Ma anche l’età della decadenza e della dominazione straniera le ha lasciato maschere classiche di caratteri, fra cui due tipi particolarmente elaborati: Sganarello e Dulcamara. La loro classica unità noi la vediamo impersonata nel nostro illustre Loria.»

4 commenti: