Mi è stato segnalato questo intervento di Riccardo
Bellofiore, il quale passa per essere un economista “marxista”, o qualcosa del
genere. Nel suo intervento Bellofiore passa in rassegna le crisi che hanno
segnato la storia recente del capitalismo. Quella degli anni Trenta, per
esempio, fu una crisi “di sottoconsumo”. Quella del 2008, non più, sostiene sempre Bellofiore.
Partiamo dalla teoria della crisi quale crisi di
sottoconsumo.
Quasi tutti gli “esperti” ritengono, chi in un modo e
chi in un altro ma nella sostanza tutti d’accordo, che la contraddizione
centrale dell’economia capitalistica sia da rintracciarsi nel rapporto tra
produzione e consumo. Pertanto essi individuano la causa della crisi nella
sovrapproduzione di merci determinata dalla loro impossibilità a realizzarsi in
seguito al sottoconsumo, vale a dire alla povertà e alla limitatezza di
consumo delle masse. Un tempo si era giunti a teorizzare persino che gli
schiavi moderni consumino meno di quanto producono per loro mera propensione
psicologica alla parsimonia, quasi per dispetto (*).
Tra parentesi, anche la cosiddetta teoria di sproporzionalità
appartiene al novero delle concezioni che individuano la causa della crisi
nella sola sovrapproduzione di
merci. Per i sostenitori della teoria della sproporzionalità, la crisi
dell’economia capitalistica deriverebbe da uno sviluppo sproporzionato dei
diversi settori della produzione sociale.
Pertanto, pur essendo sottoconsumo e sproporzione
concetti diversi, nella sostanza rinviano alle stesse cause e agli stessi
effetti della crisi e agli stessi velleitari rimedi (**). Vediamo di fare un
po’ di chiarezza.
Nel modo di produzione capitalistico la
contraddizione tra produzione e consumo assume effettivamente una rilevanza di
primo piano, poiché la crisi di sovrapproduzione è anche “crisi di
sottoconsumo”, benché quest’ultima ne rappresenti unicamente un lato, un aspetto, non la necessità (nelle facoltà di
economia non si studia la dialettica ritenendola faccenda di “filosofi”, cioè
di perditempo).
Le contraddizioni operanti nella sfera del consumo,
infatti, sono indotte da quelle interne alla sfera della produzione. Di
conseguenza la genesi della crisi va ricercata nella produzione di plusvalore,
e non nella sua realizzazione.
Procedere in senso inverso, collocando cioè la contraddizione principale nella
circolazione, conduce inevitabilmente alle interpretazioni della crisi come,
appunto, crisi di sottoconsumo. Questa tesi alimenta l’illusione che sia
possibile risolvere la crisi intervenendo sulla sfera del mercato e degli
investimenti, in definitiva agendo sul movimento del denaro, dei tassi e sulla fiscalità
(anche il Governo del Cambiamento è grossomodo su questa linea, con
teorizzazioni ancor più fantasmagoriche).
In realtà, la crisi per cause di sovrapproduzione (o
di sproporzione tra le diverse sfere produttive), ha la sua reale causa, in
ultima istanza, nel meccanismo stesso dell’accumulazione, vale a dire nella produzione del plusvalore per il plusvalore.
*
Bellofiore nega anche il fatto che si sia in presenza
della tendenziale caduta del saggio del profitto. E sostiene che ciò sarebbe
dimostrato dall’aumento registrato negli ultimi decenni del saggio del
profitto. Bellofiore, che spesso cita il
nome di Marx, sembra confondere il saggio
del profitto con quello del plusvalore. Infatti, non tiene conto di quanto ha scritto Marx in proposito. Vedo di
portare un po’ di luce, anche a tale riguardo, per quei due o forse tre lettori
che potrebbero essere giunti fin qui.
Il saggio del profitto è calcolato sul rapporto fra
il pluslavoro (plusvalore) prodotto dalla forza lavoro ed il capitale
complessivo messo in opera. Il saggio del profitto decresce con lo sviluppo del
modo di produzione capitalistico: s’è vero che nell’evoluzione della forza
produttiva si sviluppa anche la composizione superiore del capitale, con la
diminuzione relativa della parte variabile (v) in rapporto alla costante (c) si
giunge ad una diminuzione del saggio generale del profitto, in quanto il
plusvalore cresce sempre meno del capitale complessivo (c + v).
In altri termini, una massa determinata di lavoro
vivo (lavoratori produttivi) mette in azione, con lo sviluppo della
produttività sociale, una massa di lavoro morto (macchine, materie prime, ...)
sempre maggiore. Poiché il saggio del profitto è calcolato sul rapporto fra il
pluslavoro (plusvalore) prodotto dalla forza lavoro ed il capitale complessivo
messo in opera, esso decresce con lo sviluppo del modo di produzione
capitalistico (vedi qui).
Com’è possibile che un numero (il saggio di profitto è
una percentuale, esprime un rapporto tra due grandezze quantitative) provochi
la crisi di un sistema economico reale?
Scrive Marx, la “caduta
del saggio del profitto è così soltanto un indice che rinvia alla caduta
relativa della massa del profitto”. Infatti, il decrescere del saggio del profitto non
implica la diminuzione della massa
di plusvalore prodotto, poiché quest’ultimo può crescere in assoluto a condizione che “il capitale complessivo [cresca] in proporzione maggiore della diminuzione del saggio di profitto”.
In proposito, Marx osserva che lo “stesso sviluppo della produttività sociale
del lavoro si esprime quindi, nel progresso del mondo capitalistico di
produzione, da un lato in una tendenza alla diminuzione progressiva del saggio del profitto, e dall’altro in un
incremento costante della massa assoluta
del plusvalore acquisito o del profitto”.
Come può il movimento crescente del profitto dar
luogo alla crisi?
Se la caduta del saggio del profitto è compensata
dall’aumento del saggio del plusvalore, quindi, dall’incremento complessivo del
profitto, al capitalista non converrebbe accumulare con una rapidità sempre
maggiore di quanto diminuisca il saggio del profitto?
È proprio così che ragionano i padroni e i loro
leccaculi, e, paradossalmente, è proprio per questo che i loro problemi anziché
risolversi, si aggravano!
Poiché esiste un limite all’ulteriore estensione del
plusvalore assoluto e di quello relativo, si giunge egualmente ad un punto del
processo di accumulazione in cui la massa del plusvalore è insufficiente a
valorizzare una massa ancora accresciuta di capitale accumulato.
Il saggio generale del profitto cade, quindi, perché
– come dice Marx – “la massa del profitto diminuisce relativamente al capitale
anticipato: la diminuzione del saggio del profitto esprime il rapporto
decrescente tra il plusvalore stesso e il capitale complessivo anticipato”.
Quanto più si sviluppa l’accumulazione, tanto più il saggio del profitto cade,
in quanto la massa del profitto, pur potendo aumentare in assoluto, aumenta in
maniera insufficiente a consentire la
valorizzazione del capitale sempre crescente sulla base precedente:
“l’estensione della produzione e la valorizzazione” entrano in conflitto.
La legge dell’aumento della composizione organica,
infatti, non va analizzata esclusivamente dal lato del valore, solo come
aumento di (c) relativamente a (v), ma anche dal lato della materia, come
aumento della grandezza fisica dei mezzi di produzione (Mp) relativamente alla
forza-lavoro che li attiva.
Oltretutto, dal punto di vista quantitativo, Mp
cresce rispetto a L più rapidamente di quanto (c) cresca in rapporto a (v), dal
momento che, a causa dei progressi tecnici, il costo dei mezzi di produzione si
riduce dal punto di vista del valore.
Ad un determinato livello dell’accumulazione, quindi,
la scala della produzione è data tecnicamente: poiché per la sua espansione è
necessaria una quantità definita di capitale, la grandezza del plusvalore che
si richiede per consentire la valorizzazione non è arbitraria, ma sottoposta a
vincoli tecnici.
L’estensione della produzione richiede, ad esempio,
l’acquisto di tutta una serie di macchine complementari che costituiscono
un’unità, per cui l’espansione produttiva può essere data solo da questa unità
o da un suo multiplo.
Le difficoltà di valorizzazione, nelle fasi storiche
di crescita del capitalismo, si manifestano periodicamente attraverso crisi
cicliche. In altre parole, quando il profitto sociale non è in grado di far
fare al capitale il necessario salto di composizione organica si determina la
crisi di sovrapproduzione.
Per sovrapproduzione di capitale, peraltro, non
s’intende sovrapproduzione di merci (benché la sovrapproduzione di capitale
determini sempre sovrapproduzione di merci) ma sovraccumulazione di mezzi di
produzione e sussistenza in quanto questi possano operare come capitale.
*
Veniamo alla crisi finanziaria del 2008. Essa
apparentemente non ha nulla o poco a che fare con la sfera della produzione,
bensì con quella della circolazione, del movimento del denaro, reale o fittizio
che esso sia. Inizialmente scoppia con la bolla dei famosi mutui, con il crac
della Lehman Brothers e simili.
Dev’essere ben chiaro come la crisi non sia un
fenomeno passeggero dovuto a fattori “esterni”, contingenti (come strombazzano
gli ideologi della borghesia), ma un elemento strutturale che ha le sue basi
nel modo di produzione stesso.
Il grafico mostra con chiarezza che gli investimenti
fissi lordi a livello mondiale subiscono un crollo verticale proprio in
coincidenza del famigerato 2008, e come la curva risalga leggermente solo nel
2012 e poi nel 2014, mentre poi tende nuovamente ad inabissarsi. Questo
significa che nell’ultimo decennio si sia investito nella produzione sempre di meno,
salvo sporadici e deboli sussulti, e come dunque la base produttiva tenda a
restringersi.
Si tratta pertanto, di là del fenomeno speculativo
che denota spettacolarmente gli eventi, di crisi
di sovrapproduzione assoluta di capitale e di caduta del saggio generale del
profitto. L’abnorme trasferimento di capitali dalla sfera produttiva a
quella speculativa, con relative periodiche bolle e bollicine, ne costituisce la conferma.
(*) Se le reali cause della crisi fossero legate
semplicemente alla domanda, basterebbe favorirla. Come dava da intendere anche
quel furbacchione di Keynes, il quale negò quanto avevano sostenuto Say e
Ricardo, e cioè che l’offerta crea la domanda. È necessario un “modello” più
aderente alla realtà, scrisse, che prenda atto dello squilibrio domanda-offerta.
Ed è a questo punto che nasce la famosa “legge psicologica”, corroborata, come
si conviene nei casi in cui la parola non basta, da una serie di: D1 + D2 = φ
(N), dove φ è la funzione di offerta complessiva …
(**) Se il capitalismo si definisce per la propria
incapacità di assicurare un crescita armonica della produzione sociale, il
socialismo, da parte sua, dovrà, necessariamente, distinguersi per la propria
capacità di autoregolazione: l’esistenza o meno di una economia pianificata
diventa la linea di demarcazione fra due “opposti” modi di produzione, essendo
la pianificazione l’unico strumento in grado di imporre, per scelta soggettiva
(di classe) e quindi coercitivamente, uno sviluppo proporzionato ai diversi
settori produttivi e conforme alle esigenze di consumo.
Sennonché si dimentica che la contraddizione valore /
valore-d’uso ha un carattere dirompente e che, pertanto, un’economia basata
sulla produzione di valori di scambio è del tutto impianificabile. Ci si trova
di fronte (gli esempi storici in tal senso non mancano) al fenomeno
apparentemente inspiegabile della crisi di sovrapproduzione in talune sfere
produttive e a penurie e carestie devastanti in altre sfere.
E ciò dipende, ab ovo, da come si sono deformati e fraintesi – semmai siano stati presi in
considerazione – gli schemi di riproduzione marxiani del II Libro de Il Capitale, in tutti i tentativi di
utilizzarli come strumento di legittimazione di regimi ancora fondati sullo
sfruttamento di una classe da parte di un’altra.
https://quifinanza.it/innovazione/il-capitalismo-e-morto-puntare-a-sostenibilita-lo-studio-scientifico/221801/amp/
RispondiEliminacredo non le sfugga la differenza tra rimedi sintomatici e curativi. Nessuno mai che io sappia (avrei piacere ad essere smentito) ha preteso di avere la ricetta per eliminare una volta per tutte le crisi del capitalismo. E'ovvio che sono strutturalmente ineliminabili. Di fronte ad una crisi si tratta di scegliere se giocare al tanto peggio tanto meglio, se agire per salvaguardare i profitti o se agire per mitigare le sofferenze delle milioni di vittime. Lei cosa sceglie ? Sospetterei la prima...
RispondiEliminanon si tratta della "sofferenze di milioni di vittime" poiché questo è un problema etico che lascio volentieri a preti ed affini.
Eliminaper eliminare una volta per tutte le crisi del capitalismo è sufficiente superare il capitalismo. oggi non solo siamo nella condizione di poterlo fare, ma è la necessità storica che lo promuove.
Nel modo di produzione capitalistico il processo lavorativo si presenta solo come mezzo per il processo di valorizzazione (e in tal senso vanno viste le tendenze necessarie ad accorciare il tempo di lavoro per mezzo dello sviluppo della tecnica), ne consegue che la contraddizione tra valore d'uso e valore di scambio tende a divaricarsi sempre più con lo sviluppo della tecnologia applicato alla produzione. Tale dinamica è alla base della crisi generale storica del modo di produzione capitalistico.
La contraddizione tra valore d’uso e valore è la contraddizione fondamentale del capitalismo, che, con la crescita dell’accumulazione, pone le premesse per la sua negazione, in quanto lo sviluppo delle forze produttive entra in contrasto con la forma e la natura che esse assumono nel modo di produzione capitalistico, cioè con i rapporti di produzione esistenti.
“Questi rapporti – scrive Marx –, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale”.
Il futuro di questa rivoluzione è già qui, asini!
Forse voleva scrivere: la contraddizione tra valore d'uso e valore di scambio.
EliminaSaluti
affascinante...
Eliminami permetta: ma se la questione etica le indifferente
in che senso ciò che soppianterà il capitalismo
(inevitabilmente a suo dire) sarà migliore del capitalismo stesso ?
@ anonimo
Eliminain questo caso "di scambio" è sottinteso, tanto è vero che Marx usa l'espressione "legge del valore"
@ chissacosera
Eliminavada a rompere i coglioni altrove
@Olympe
EliminaGrazie per lo specifico,
da...anonimo.
la enorme massa di lavoro morto, fortune a volte ottenute generazioni fa, preme sul lavoro vivo; è scandaloso: non si sa in che cosa investire per ottenere saggi di profitto ragionevoli
RispondiEliminagenericamente detto, i manager hanno come misura una redditività del capitale investito del 10%, sotto la quale non conviene "stare sul mercato", o meglio: si muoverebbero capitali per alimentare le figure intermedie quando non i concorrenti
molto meglio fare il rentier e lasciare queste beghe ad altri: è così moderno, piacevole
pure un riformista moderato come keynes li avrebbe ammazzati, ma dolcemente
il Capitale finalmente svincolato dal lavoro: che pacchia!
sintesi perfetta
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