mercoledì 28 febbraio 2018

Non si tratta semplicemente di un rapporto tra macchine e uomini



Quanto più la scienza s’incorpora nel capitale sotto forma di tecnologia, tanto più essa si erge contro il lavoro come potenza estranea e ad esso ostile.

Agli effetti pratici noi lo possiamo constatare con la modificazione del rapporto tra gli elementi costitutivi della composizione organica del capitale, vale a dire nell’aumento della parte costante in rapporto a quella variabile. Nell’aumento del lavoro morto, passato, rispetto a quello vivo (*).

È ben noto che il mutare del rapporto tra i due fattori della produzione, cioè capitale costante e capitale variabile, ha come conseguenza la caduta del saggio del profitto, come tendenza progressiva. 

Vi è da considerare, inoltre, un altro rapporto oltre a quello descritto, ossia il rapporto tra il tempo di lavoro pagato e quello non pagato, da cui è dato il saggio del plusvalore (**).

Il saggio del plusvalore non indica soltanto il rapporto tra il tempo di lavoro pagato e quello non pagato, ma un rapporto di sfruttamento e quindi di antagonismo. L’aumento del saggio del plusvalore è insieme crescita dello sfruttamento e acutizzazione dell’antagonismo di classe. Il fatto che quest’ultimo, in certi periodi storici sia meglio assorbito, incanalato e controllato dal sistema di dominio borghese, non vuol dire che esso, da latente, non possa esplodere socialmente come antagonismo assoluto e dirompente.

martedì 27 febbraio 2018

Elezioni: non debemus, non possumus, non volumus


I risultati elettorali nei paesi europei e negli Usa – e dunque anche il risultato che si avrà nelle elezioni italiane di domenica prossima – mettono in luce che a essere sotto accusa sono i fenomeni provocati dalla globalizzazione (per usare un termine borghesemente corrente).

Tale quadro è aggravato da un lato dal declino atlantico e dalle divisioni europee, dall’altro dall’emergere di potenze che nel XX secolo stavano sostanzialmente ai margini della contesa imperialistica mondiale, quali anzitutto la Cina, ma anche l’India, l’Iran, la Turchia, ecc..

Sembra quasi di assistere a una riedizione, su scala mondiale, della Guerra dei Trent’anni, quando nessuna delle potenze europee aveva capacità di leadership ed erano in lotta tra loro per l’egemonia senza riuscire a trovare un equilibrio.

lunedì 26 febbraio 2018

Le auto che volano


Secondo quanto riporta il Financial Times, il gruppo FCA si preparerebbe ad interrompere la produzione di vetture a gasolio a partire dal 2022, con una decisione che verrà ufficializzata in occasione della presentazione del piano industriale per il prossimo quadriennio, fissata per il primo giugno.

Lo scandalo del diesel ha dato una mano, e i costi per rendere la tecnologia in linea con gli standard delle emissioni non sono certo lievi. Anche per questo motivo, da parte sua, la Volkswagen ha annunciato d’investire entro il 2030 nell’auto elettrica 20 miliardi di euro e altri 50 miliardi per le batterie. Si punta soprattutto a un miglioramento delle prestazioni energetiche delle batterie a ioni di litio con elettrolita solido, in modo da ottenere un rendimento simile al gasolio.

Nondimeno la Cina – un paese capace d’idee strategiche di lungo periodo – ha avviato un piano per indirizzare una quota della produzione verso l’auto elettrica, e nessun costruttore di stazza globale può ignorare quello che è diventato il primo mercato mondiale. E tutto ciò non potrà non aprire una guerra dei motori tra i titani dell’industria automobilistica.

Pertanto, anche se “la grande prosperità tedesca non è più sufficiente a se stessa”, per dirla con il ministro degli Esteri Sigmar Gabriel, la Germania e la Cina mantengono una visione strategica. Viceversa, queste tendenze di fondo di strategia economica e politica non scuscitano in Italia, almeno a livello di dibattito pubblico (ma temo anche a livello di vertici economici e politici), alcuna riflessione nella definizione dei propri interessi.

Il mondo è un altro mondo ma qui da noi il carnevale non finisce mai, nemmeno dopo il 4 marzo, e già si è sentito un Pulcinella promettere un milione di auto elettriche nei prossimi due anni. Come volete che ci prendano sul serio all’estero quando si sentono stupidaggini come queste e, per altro verso, quando la capitale resta bloccata per cinque centimetri di neve? Ahó, semo a Roma, mica a Juneau. Perciò a che cosa servono gli pneumatici da neve posto che alle prossime elezioni ci prometteranno le auto che volano?

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domenica 25 febbraio 2018

Pane e ...


Da molto tempo è mutata la forma propria del denaro quale mezzo di circolazione, ossia non usa più il denaro nelle forme metalliche quali l’oro e l’argento. La funzione della moneta si è resa infine indipendente dall’oro, tanto più dopo l’esonero del gold exchange standard del 1971. Il denaro è rappresentato essenzialmente da surrogati, da cedole di carta, o addirittura da virtualità elettroniche. Le monete virtuali segnano una volta di più il processo, non da oggi in atto, di demonetizzazione del denaro

Questi segni del valore, oltre a funzionare come vera moneta, sono anche falsa moneta, appunto perché non possono mai essere altro che un segno dell’oro. L’eccessiva e trasbordante emissione di una qualsiasi forma di questo tipo di denaro, con qualsivoglia denominazione monetaria, viola le leggi della circolazione semplice, e presto o tardi tali leggi finiscono sempre per imporsi (*).

I famosi bulbi di tulipano avevano dalla loro un’oggettività e una potenziale bellezza incommensurabile rispetto agli odierni rappresentanti del valore.

Il denaro effettivo è custodito in lingotti d’oro presso le banche centrali, il FMI e altri organismi. I governi sanno bene che solo quello è vero denaro, non moneta fittizia a corso forzoso o surrogati scambiati sulla fiducia (chiamiamola così). Non ha alcuna importanza se quei lingotti sono marchiati con il punzone di uno Stato piuttosto che con il nome di Ebenezer Scrooge.

La tesaurizzazione dell’oro muove proprio dal fatto che esso rappresenta dell’equivalente generale, ad onta di quello che molti credono sulla fine della funzione dell’oro quale misura dei valori.

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venerdì 23 febbraio 2018

Sopra e sotto la cintura


Nei giorni pari si scopre l’acqua calda, e cioè che i paesi dove la manodopera costa di meno possono avvantaggiarsi in termini di competitività.

Nei giorni dispari è la volta dell’acqua tiepida: la competitività non è data solo dal costo del lavoro, ma dalla produttività.

L’Italia è il secondo paese esportatore d’Europa, dunque quanto a competitività delle sue merci è dietro solo alla Germania.

Resta da spiegare per quale motivo un operaio tedesco e un operaio italiano, di pari livello, guadagnino l’uno il doppio dell’altro, e quello che guadagna di meno lavora mediamente per più ore di quello che ha un salario più alto.

giovedì 22 febbraio 2018

Che cos'è il genio?


«È fantasia, intuizione, decisione e velocità di esecuzione» (cit.).

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A proposito di fantasia, leggete questa: 


Freddo siberiano in Sardegna!


Il virus marxiano



Questo mattina su radiotre ho seguito il dibattito su (neo)fascismo e antifascismo. Anche interventi di buon senso, per carità, nei quali viene citata la distinzione tra il rigurgito odierno e il fascismo storico, e quindi la mancanza di “educazione alla democrazia”, il disagio sociale con accompagno di sfiducia nelle istituzioni, l’immigrazione e via di seguito. Si è udito anche un cenno – mero omaggio alla “complessità” del tema – alla “crisi” e all’incapacità di risposta da parte della politica e delle istituzioni. La parola “capitalismo”, al solito, è bandita. Come se la crisi e ciò che ne consegue fosse causa di un virus proveniente da Marte e del quale non è creanza parlare in pubblico e in termini espliciti.

È nota a tutti l’ouverture de Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte, nella quale Marx, si richiama a un passo di Hegel, laddove il filosofo di Schdùagert osservava che tutti i grandi fatti e i grandi personaggi della storia universale si presentano, per così dire, due volte. Marx chiosa che Hegel aveva dimenticato di aggiungere che la prima volta si presentano come tragedia, la seconda volta come farsa. Nel caso del fascismo si potrebbe, alla luce dei fatti, sostenere che la farsa del nuovo impero mutava ben presto in disfatta e immane tragedia.

La borghesia ha sempre buon gioco nel cambiare nome e forma alla propria dittatura (*). Con ciò non voglio sostenere che le libertà nella società democratica borghese siano da disprezzare, tutt’altro. Esse sono da tenere in massima considerazione, tuttavia non va trascurata l’effettualità dei rapporti sociali, e anzitutto il rapporto di proprietà del capitale sulla forza-lavoro, che si distingue solo per la forma da altre più dirette forme di asservimento del lavoratore. Una forma prodotta sempre di nuovo e che prescinde da quale sia lo statuto giuridico e politico-sociale di riferimento.

Infatti sbaglia chi, alla luce della Costituzione, pretenda di caratterizzare tale rapporto sussumendo lavoratore e capitalista in un rapporto di parità, facendo in tal modo l’apologia di un’uguaglianza solo fittizia e dissolvendo la differenza specifica.

(*) Dopo la rivoluzione del luglio 1830, il banchiere liberale Laffitte si lascia sfuggire: “D'ora innanzi regneranno i banchieri”. Sta accompagnando il suo compare, il duca di Orléans, cioè Luigi Filippo, in trionfo all'Hôtel de Ville, centro del movimento repubblicano. Durante tale visita, Luigi Filippo s'impegnò a rispettare i diritti costituzionali e, col tricolore in mano, si affacciò alla finestra insieme al veterano della Rivoluzione francese Lafayette, che lo abbracciò presentandolo al popolo come "re cittadino" e definendo il suo regno la migliore delle repubbliche!

Nel 1847 Parigi insorge contro la monarchia di Luigi Filippo, il quale difenderà “la migliore delle repubbliche” fucilando migliaia di operai. L’insurrezione si trasforma in rivoluzione e finalmente, nel febbraio 1848, è proclamata la seconda repubblica. I francesi per la prima volta possono votare, ed eleggono presidente il nipote di Napoleone. Il quale, ironia della storia, si chiama come i monarchi dell’ancien régime: Carlo Luigi. Con un colpo di Stato, si fa incoronare imperatore. Addio repubblica e suffragio universale. A comandare, comunque e sempre, è la borghesia, qualunque sia la frazione vincente.


Se l’acchiappo ...


Càpita di cercare un libro tra gli scaffali di casa e di non trovarlo, magari di scoprirne un altro del quale non si aveva ricordo di averlo acquistato, letto o magari solo sfogliato. Toh, sembra dirti, ho atteso per anni e finalmente ti degni. Un po’ ti vergogni. E invece no, questa volta, da ieri, cerco solo e proprio lui, famigerato. Proprio non si fa trovare, s’è offeso sentendosi trascurato, negletto. Si sta vendicando del fatto che l’ho riposto o troppo in alto o troppo in basso. I libri sono vanitosi, ci tengono a stare in bellavista, su scaffali importanti e non d’ordine secondario. Tra prestigiosi colleghi, dandosi arie, non stretti tra libracci plebei. Né il ricercato posso invocarlo per nome, ma solo indagare con gli occhi. Sono furbi, e alcuni, come questo disgraziato, anche un po’ carogne. Appena scoprono che li stai cercando si defilano apposta. Si burlano di te, per dirla carina. E non voglio dargli troppa soddisfazione. Ma se l’acchiappo, poi non lo mollo più. Ed è quello che vuole, sia chiaro, ma intanto mi fa soffrire. Molto.

mercoledì 21 febbraio 2018

Senza fare nulla


21 febbraio 1916, ore 7,15. Il principe ereditario Guglielmo, comandante in capo della 5ª Armata (*) e il capo di stato maggiore, Erich Falkenhayn, lanciano un imponente attacco, l’operazione “Gericht”, sulla città di Verdun e le sue fortificazioni.

In poche ore le posizioni francesi sono bersagliate da un milione di colpi, il tuono dei bombardamenti si può sentire a oltre 150 km. Per il loro attacco su Verdun i tedeschi dispiegano un’arma terrificante: il lanciafiamme.

Scriveva lo scrittore Jean Giono nel suo diario di quei giorni:

«Siamo in nove in una buca, nulla ci tirerà fuori di qui. Abbiamo mangiato e dobbiamo andare di corpo. Il primo di noi a sentire lo stimolo si arrampica fuori. Ora è lì da due giorni, a tre metri da noi, ucciso, con i pantaloni abbassati.

Facciamo i nostri bisogni sulla carta e poi la lanciamo fuori. La carta finisce. La facciamo nei nostri zaini. La battaglia di Verdun prosegue, ce la facciamo in mano. La dissenteria ci scorre tra le dita, defechiamo sempre, la facciamo dove dormiamo. Siamo divorati dalle fiamme della sete; beviamo la nostra urina. Se restiamo su questo campo di battaglia è perché non ci lasciano andare via.»

Due sottotenenti francesi vengono fucilati perché dopo lo sfondamento tedesco si erano ritirati.

Durante la battaglia di Verdun, tedeschi e francesi si scambiano oltre venti milioni di colpi d’artiglieria.

I soliti farabutti al servizio della propaganda chiamarono quel luogo “sacro”, un luogo “di sacrificio e consacrazione”.  

Oggi quei fantasmi ritornano in gioco grazie al fatto che la nostra coscienza scruta il mondo così com’è, senza fare nulla.

(*) L’armata era comandata di fatto dal generale Konstantin Schmidt Knobelsdorf.

martedì 20 febbraio 2018

Sabbie mobili


Sempre aderente ai fatti.


Buffone. Finge indignazione perché una multinazionale vuole licenziare 500 operai. Dov’è vissuto finora, in una spa a sei stelle? I più anziani ricorderanno quando si parlava di “sistema imperialistico delle multinazionali”. Tanto tempo fa. Un’espressione che fu irrisa dai giornalisti grandi firme e gentaglia così. Avevano gli occhi chiusi e le orecchie tappate dai biglietti da 100.000 lire.

La realtà è testarda e s’impone anche a quelli che non vogliono vedere e sentire: gli Stati, la UE e le altre organizzazioni imperialistiche non sono altro che espressione degli interessi del grande capitale. Dal punto di vista industriale, finanziario, fiscale, il capitale monopolistico, in un’atmosfera di palese corruzione e parossistica fine del mondo, è il padrone assoluto del pianeta, e concentra i profitti nel circuito di una speculazione internazionale la cui demenziale inutilità è quotata in borsa.

Il lavoro ha perso l’interesse che gli riconosceva un padronato al quale assicurava la ricchezza. Oggi può essere acquistato ovunque, al prezzo più basso e alle condizioni desiderate. Al lavoro ormai non resta che la stima lontana e impersonale dei chiacchieroni della televisione e dei giornali finanziati dalla pubblicità delle stesse multinazionali che sfruttano e licenziano.

Votate, votate per chi volete, ma votate. Poi ci penseranno loro a dividersi poltrone e prebende, a intascare stipendi e rimborsi, e con aerei di Stato volare a Bruxelles e Berlino per omaggiare e farsi ridere dietro. Agli operai della Embraco, frazione del popolo sovrano che affonda nelle sabbie mobili dell’indifferenza, non resterà che prendersela col destino cinico & baro, con i manager della multinazionale, assenti, mentre gli azionisti potranno già accarezzare l’idea di dividendi più cospicui.

lunedì 19 febbraio 2018

Ogni tanto ci provo



Che cos’è rimasto del comunismo del Novecento? L’idea che fosse la soluzione sbagliata a dei problemi reali. Porsi una domanda è viepiù necessario: si possono definire comuniste delle società burocratiche fondate sul dominio statale nazionale, dove tutto e tutti obbediscono alla logica di quella realtà, secondo gli interessi particolari imposti dal grado di sviluppo del paese?

Come poteva venire in mente a Lenin e agli altri bolscevichi, pur nella temperie di quegli anni, di parlare di rivoluzione mondiale laddove più di tre quarti dell’umanità viveva ancora in società in gran parte semifeudali, se non più arretrate? L’internazionalismo poteva appartenere alla burocrazia dello Stato russo-sovietico solo come proclamazione illusoria al servizio dei suoi reali interessi

giovedì 15 febbraio 2018

Pensioni: la tagliola e la corda



Andare tardi in pensione è un vantaggio per pochi, ossia un privilegio di classe. Per gli altri è solo una condanna, perché il lavoro per chi sta negli ultimi gradini della scala sociale non è solo pagato poco, è schiavitù.

Se lo Stato non ce la fa a sostenere la previdenza sociale non è solo per ragioni di sperequazione e privilegi incredibili, ma è questione che riguarda la distribuzione della ricchezza sociale, che dunque va vista anzitutto dal lato della fiscalità e della spesa sociale: evasione/elusione di tutti i tipi e dissipazione del denaro pubblico sotto ogni forma.

Pertanto la questione della sostenibilità previdenziale, prima ancora di essere un problema economico-finanziario, riguarda le scelte politiche, direttamente i rapporti tra le classi sociali. Rapporti di forza, come sempre, in un quadro sociale dov’è assente una classe dirigente omogenea, coesa, attiva, attenta. Siamo succubi invece di forze parassitarie, rapaci e incapaci di politiche di equità sociale e sviluppo.

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Ho simulato sul sito dell’Inps la cosiddetta Ape volontaria con dati calibrati su un'ipotetico lavoratore con 64 anni di età e 40 di contributi, che nel 2021 maturerà sia la pensione di vecchiaia sia quella contributiva, cioè quella che degli stronzi hanno chiamato anticipata. Ho simulato che maturerebbe una pensione lorda di 1.750 euro (circa 1.400 netti).

Ebbene, per avere con l'Ape 1.036 euro netti (dunque un assegno molto più basso di quello previsto per la pensione) per 36 rate (in totale 37.296 euro), a partire dal 2021 e fino al 2040 dovrebbe pagare 226,36 euro mensili per 240 ratei di rimborso, un totale di circa 53.800 euro. Una differenza di 16.504 euro circa. Credo bene che le Banche fanno utili miliardari e le assicurazioni stacchino dividendi.

La chiamano flessibilità in uscita. Farabutti. Bisogna essere con l’acqua alla gola, o pazzi, per cadere in una simile tagliola.


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Sintomatico ma scontato: ieri sera, il Nobel per la vanità Brunetta Renato, ospite dalla piddina Gruber, a domanda precisa sull'età e i contributi che secondo il programma di F.I. sarebbero necessari per la pensione, non ha risposto adducendo "complessità della materia". Nemmeno il programma della lista di Bersani e della sorridente Boldrini dice nulla di preciso nel merito: meglio restare nel vago. Le proposte di Lega e 5stelle, 41 di contributi e quota 100, non specificano nulla in dettaglio, e celano, a mio avviso (nemo profeta in patria) delle insidie, fatta la tara di tutta un'altra serie di considerazioni politiche e finanziarie. Spiace scriverlo ma l'unica proposta chiara è quella del Pd, ossia mantenere sostanzialmente inalterata la Monti-Fornero. Della serie: scegliete voi a quale corda impiccarvi, da parte mia non voglio né dare soddisfazione e tantomeno legittimare il boia. 

mercoledì 14 febbraio 2018

Dobbiamo dir grazie ai napoletani se ...



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L’8 febbraio del 1848, veniva presentato al re Ferdinando II di Borbone il disegno di Costituzione; il giorno dopo era discusso dal Consiglio di Stato; e, la sera del 10, il re vi apponeva la firma, cosicché l’11 febbraio venne pubblicato.

Francesco Bozzelli ne era stato l’estensore sulla base della Costituzione francese del 1830. Ebbe a canzonarlo il Settembrini: “Credeva di avere scritto il codice di Solone, che avrebbe reso lui immortale e il popolo felicissimo”. E tuttavia senza quel processo che portò alla Costituzione napoletana (che tanto scontento portò a Palermo e in Sicilia) e poi a quella Toscana, non si sarebbe avuto quel movimento di popolo (classi medio-alte) di Piemonte e Liguria che condusse allo Statuto Albertino.

martedì 13 febbraio 2018

Scegliere una canzone


Sono anni che non guardo più un telegiornale, per il semplice motivo che mi annoiano e incupiscono. Non mi piace la sguaiataggine dei mezzibusti, il modo assertivo con il quale riportano le opinioni del capo politico pro tempore, né m’interessa prendere parte alle psicosi collettive, per esempio sapere in quanti pezzi è stato fatto il corpo di una povera ragazza prima di metterlo in due valige.

Per un aggiornamento delle bugie leggo qualche giornale, anche perché l’odore della carta mi ricorda la mia giovinezza, quando ancora si poteva distinguere destra e sinistra, e per un’idea o una passione si rischiava qualcosa in proprio, insomma quando ancora si respiravano dei momenti di libertà e si potevano incontrare persone autentiche.

Per farla breve e venire al dunque, ieri sera ho visto uno spicchio di un Tg, non importa quale. Ad incuriosirmi, questo il motivo della sosta mentre passavo davanti al televisore, un sondaggio sulle intenzioni di voto e non voto. Ebbene gli astemi al voto venivano dati a circa il 32 per cento, gli indecisi, cioè coloro che non hanno ancora deciso a quale brigante votarsi o se non votare affatto, a circa il 12 virgola qualcosa per cento. Insomma, un 44 per cento circa degli aventi diritto al voto. Questo dato illumina più di ogni altra considerazione la situazione di stanchezza, sfiducia, rassegnazione, e quella di tanti che si sono riscossi dall’illusione che il proprio voto possa cambiare le cose o contare qualcosa.

Del restante 56 per cento, non sono pochi quelli che dicono di non sapere per chi votare, ma andranno al seggio lo stesso, adducendo motivazioni quali, per esempio: altri prima di noi “sono morti per darci questo diritto”. S’è per questo, ne sono morti non pochi anche per il motivo opposto!

Decine di migliaia di persone sono state uccise solo perché rivendicavano un’idea diversa di ciò che altri consideravano la “vera” religione. La fede politica diventò poi la nuova religione e il voto l’atto fondamentale di essa, la democrazia. Anche in Iran, in Russia, negli Usa, si vota. Ma negli Usa, si dirà (ma sono sempre di meno a dirlo), c’è la “vera” democrazia.

Un rapporto conflittuale tra ciò che crediamo di essere e ciò che in realtà siamo. Difficile far comprendere che non siamo noi i giocatori, ma solo i pedoni sulla scacchiera.

È risaputo che chi controlla certi meccanismi, in primis i media, controlla il voto. I grandi media sono controllati ampiamente dai grandi partiti, quando non sono direttamente di proprietà di un capo partito, oppure sono proprietà di affaristi che in cambio del loro appoggio a una lista elettorale s’aspettano concrete contropartite.

Alla fine riusciranno a convincere non pochi di quel 12 per cento d’indecisi che non possono sottrarsi alla competizione e dunque dovranno scegliere una canzone.

domenica 11 febbraio 2018

Sul fascismo



Il post che segue richiede circa cinque minuti di lettura, dunque non è calibrato sulle aspettative e le consuetudini della maggior parte dei lettori addestrati ad una comunicazione molto più rapidità, perciò consiglio ad essi, se lo vogliono, di limitarsi alla prima parte.

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L’ultimo editoriale del professor Ernesto Galli della Loggia, sul Corriere della sera, dal titolo Il vuoto socio-culturale e l’illegalità da arginare, merita attenzione per vari motivi. Esso parte da una premessa storica, l’avvento del fascismo, per giungere ad altre considerazioni sull’oggi. Prenderò le premesse anch’io (si parva licet) dalla medesima premessa del professore per poi terminare la prima parte del post con una didascalica considerazione sul nostro presente.

Scrive il professore:

«Chi ha letto qualche libro lo sa. La ragione forse più importante che determinò la vittoria del fascismo nel 1922 fu lo scardinamento dell’applicazione della legge avutasi negli anni precedenti. Uno scardinamento che ebbe due momenti: dapprima, durante il cosiddetto biennio rosso, il governo si mostrò di un’assoluta indulgenza nel tollerare da parte dei socialisti le violenze di piazza, il sobillamento continuo e in mille modi alla violazione dell’ordine pubblico e al sabotaggio, le minacce e le aggressioni, verbali e non, contro i rappresentanti dell’ordine e dell’esercito.

In un secondo tempo, nel 1920-21, quando contro le cose e le persone delle leghe contadine, del movimento operaio e dei comuni socialisti, si scatenò in risposta la violenza fascista — più mirata, più organizzata e più feroce — il governo centrale ne ordinò, sì, a più riprese e anche con forza la repressione, ma senz’alcun esito. Ciò che accadde, infatti, fu la virtuale insubordinazione delle forze dell’ordine, dell’esercito e dell’apparato giudiziario. Le quali, consenzienti vasti settori dell’opinione pubblica borghese, si rifiutarono silenziosamente di esercitare contro i «neri» quell’azione repressiva che in precedenza non era stata esercitata contro i «rossi». Fu grazie a tale catena di eventi che la democrazia italiana corse alla rovina».

Il professor Galli ha letto sicuramente più libri di me sull’argomento (è il suo mestiere), ma qualche librino l’ho letto anch’io, e mi sono fatta un’idea però abbastanza diversa da quello che racconta nel suo editoriale.

La “ragione forse più importante che determinò la vittoria del fascismo nel 1922” non “fu lo scardinamento dell’applicazione della legge avutasi negli anni precedenti”. Certo che vi fu tolleranza e spesso connivenza tra forze di polizia, esercito e magistratura nei confronti dello squadrismo fascista, tuttavia “lo scardinamento dell’applicazione della legge” deve essere visto alla luce di ciò che stava maturando sul proscenio internazionale e nazionale e ciò che accadeva dietro le quinte.

Vale a dire che le ragioni che portarono al governo Mussolini furono d’ordine politico ed economico-finanziario. Ridurre l’avvento del fascismo a motivo d’ordine pubblico e di mancato rigore nell’applicazione delle leggi, significa far prevalere un aspetto sugli altri, tanto più se si pone in luce l’uno tacendo del tutto sugli altri.

Il fascismo italiano, per tutta una serie di ragioni, merita un posto e una considerazione del tutto particolare nell’ambito dell’offensiva reazionaria mondiale del capitalismo per spezzare ogni possibilità e ogni speranza di avanzamento delle classi lavoratrici. L’appoggio di cui godette il movimento fascista da parte della borghesia, degli agrari e da parte degli apparati statali, così come la rapidità con la quale esso prese piede, vanno visti, da un lato, come l’ultimo aspetto della crisi dello Stato e della società italiana, e, dall’altro, come crisi interna ai partiti della sinistra italiana.

Se non si hanno presenti e in evidenza questi due fatti è inutile discutere. Ed è ciò che sta via via maturando nei nostri anni, e a ben poco serviranno le marcette contro l’antifascismo. Non questo neofascismo becero e antiquato bisogna temere (per quanto lo si debba affrontare con decisione), ma ciò che vi si nasconde dietro e fermenta da lunga, lunghissima pezza.

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I fascisti alle elezioni del 1919 non avevano preso nemmeno un seggio, perfino Mussolini era stato trombato a Milano (nella sua lista c'era anche, tra gli altri, il musicista Arturo Toscanini). E nel 1921 ne avevano ottenuti pochi di seggi e solo nelle liste dei liberali di Giolitti (blocchi nazionali): 35 su 530. I fascisti dovettero attendere la truffa della legge Acerbo e il 1924 per entrare in massa a Montecitorio.

Facciamo un passo indietro, anzi, più d’uno, ponendo attenzione alla scansione delle date. Il 20 febbraio 1919 si era raggiunto un accordo con l’Associazione industriali dei metalmeccanici che prevedeva la riduzione di orario a 8 ore giornaliere e 48 settimanali, il riconoscimento delle commissioni interne e la loro istituzione in ogni fabbrica; la nomina di una commissione per il miglioramento della legislazione sociale e di un’altra per studiare la riforma delle paghe e del carovita.

L’ala più oltranzista del padronato comincia a cercare la prova di forza contro gli operai e il sindacato. La trova nell’agosto del 1920, quando la trattativa per il miglioramento delle condizioni di vita e lavoro dei metallurgici viene interrotta e cominciano le serrate. La risposta operaia è l’occupazione delle fabbriche che coinvolge più di 400mila metallurgici e altri 100.000 di altre categorie. Momenti di tensione, episodi di autentiche battaglie in cui si contano morti e feriti.

Questi fatti precedono l’accordo del 19 settembre 1920. Le fabbriche tornano alla normalità nei giorni seguenti, avendo ottenuto il riconoscimento del controllo operaio nelle fabbriche, aumenti salariali, 6 giorni di ferie pagate, miglioramenti per gli straordinari e il lavoro notturno.

Non erano nati i soviet italiani, e su questo punto credo fossero in pochi a farsi illusioni. Erano stati ottenuti però dei miglioramenti significativi. La fase di lotta si chiudeva dunque nel settembre 1920. La marcia su Roma è della fine d’ottobre del 1922. Cos’era avvenuto nel frattempo? Assalti squadristi alle camere del lavoro, alle sedi del Partito socialista, alle redazioni dei giornali di opposizione, pestaggi, intimidazioni, omicidi, raid squadristici.

I padroni, industriali e agrari, non ci stavano, volevano imporre il loro ordine. Fu la neonata Confindustria e i grandi proprietari agrari a finanziare il fascismo e segnatamente la marcia su Roma. Ben vista dal Vaticano per motivi prevalentemente finanziari. Furono queste forze che indussero il Re a non firmare lo stato d’assedio alla vigilia di quella che sarà chiamata, dai fascisti, la marcia su Roma.

*

La marcia su Roma fu poco più di una goliardata nel determinare gli eventi dell’ottobre 1922. Scrive a tal proposito uno storico di simpatie non bolsceviche, cioè Renzo De Felice: «L’azione armata era un elemento importante del piano mussoliniano». Quanto importante? «Non certo decisivo». Ma quante chances di successo aveva? «Militarmente il fascismo non aveva nessuna possibilità di affermarsi» [p. 348]. 

Scriveva nel 1963 Antonino Répaci nel suo La marcia su Roma, I, p. 338:
«Sul finanziamento effettuato dagli industriali ai fascisti non è prevedibile la scoperta di fonti documentarie; nessuno si illude ovviamente di rinvenire le quietanze, che altrettanto ovviamente non vennero rilasciate».

Ernesto Rossi, propone un documento tratto dall’archivio Facta, un “riservato alla persona”, in data 19 ottobre 1922 da San Rossore, in cui il gen. Arturo Cittadini, primo aiutante di campo del re, avverte il presidente del consiglio Facta:

«Persona che non vuole essere nominata e merita di essere ritenuta attendibile ha fatto avere a S.M. il Re notizie le quali danno conferma alle voci corse in questi ultimi tempi circa il colpo di mano che verrebbe prossimamente tentato su Roma. Notizie d’altra fonte, provenienti dall’ambiente bancario di Zurigo, che non sarebbe estraneo alla provvista dei fondi per il movimento di cui si tratta, sono parimenti venute a conoscenza di S.M. il Re e concorrono a dare credito alle informazioni della persona suddetta. Le date, indicate come possibili, sono quelle del 24 ottobre e del 4 novembre. In ogni modo prima dell’apertura della Camera. S.M. il Re mi dà incarico di farle queste comunicazioni per quel valore che possono avere».

Commenta, nel 1955, Ernesto Rossi: «ancora oggi le banche svizzere sono la strada preferita dei Grandi Baroni, che desiderano far perdere ogni traccia della provenienza dei quattrini con i quali comprano gli uomini politici e finanziano giornali e partiti» [p. 79]. «Nelle due settimane precedenti la mobilitazione generale fascista, l’intero stato maggiore della Confindustria fu al fianco di Mussolini.

Il 17 ottobre il prefetto di Milano scrisse al presidente del consiglio [Facta] una lettera in cui lo informava che una commissione di industriali (Targetti, Olivetti, Benni, Pirelli, Conti ed altri minori) gli avevano chiesto udienza per esporre le loro preoccupazioni sulla situazione finanziaria e sul fascismo, che ritenevano “dovesse essere subito incanalato”. Qualsiasi ritardo avrebbe provocato “una crisi gravissima di cui non si potevano calcolare le conseguenze”. Gli industriali avevano pregato il prefetto di far presente all’on. Facta il loro stato d’animo: essi volevano al governo “uomini forti che risollevassero la nazione dal marasma”» [p. 86].

Nel giugno 1919 Francesco Saverio Nitti, già due volte ministro, assume l'incarico di presidente del consiglio. La sua vicenda governativa fu in seguito ricordata, da Amedeo Bordiga, con queste parole: «L’esperienza italiana insegna che il democraticissimo governo Nitti fu in sostanza quanto di meglio la borghesia italiana poteva esperire in sua difesa, e quindi quanto di più reazionario»Bordiga doveva sperimentare quanto fosse più reazionario il fascismo.

Una delle questioni più sentite era quella di stabilire sulle spalle di quali ceti sociali sarebbe dovuto ricadere il peso maggiore delle spese sostenute per la guerra, e in tal senso Nitti si era adoperato per una rigida politica di controlli annonari, tentando di introdurre per decreto il prezzo politico del pane (decreto che gli costò le dimissioni, ma esso fu solo un pretesto per i gruppi organizzati del malaffare di Stato per screditarlo e indurlo a lasciare).

Tuttavia fu grazie a Nitti (la cui opera come ministro del Tesoro dopo Caporetto fu rilevantissima sotto ogni profilo) che si cominciarono a mettere in ordine i conti pubblici e soprattutto a congedare una massa enorme di ufficiali (in pratica non c'era ancora stata sotto il gabinetto Orlando la smobilitazione), che erano 117.148 e dovevano essere ridotti dell'80%.

Tale smobilitazione e la questione di Fiume, portata avanti da gente senza scrupoli, strumentalizzata dai soliti affaristi di Stato che nella destabilizzazione avevano solo da guadagnarci, furono grane non lievi per il governo.

Nitti riformò anche il sistema elettorale con il proporzionale (la prima volta di tale sistema in Italia, legge 1401 del 15 ago 1919), grazie al quale PSI e PPI si rafforzano alle elezioni del novembre successivo. Proveniva dal Partito Radicale storico, ed era considerato lo statista liberale di sinistra più qualificato per realizzare la prospettiva di una soluzione riformistica della crisi postbellica. Gli avvenimenti che portano, nel giugno 1920, alla caduta del suo governo, sono esemplificativi del ruolo che non di rado svolge la finanza e l’industria nell'"incanalare" la politica, tanto più in un paese come il nostro.

Il gruppo Ansaldo costituiva la più grande impresa industriale italiana dell’epoca, con 100 fabbriche e 100.000 addetti. L’impresa, controllata dai fratelli Perrone, era enormemente esposta con le banche, in particolare con la Banca di Sconto (Bansconto). Inoltre, soffriva per la forte contrazione delle commesse statali a seguito della fine delle ostilità belliche. Era pertanto necessario procurarsi della liquidità e a tale scopo fu messo in atto il solito giochetto: acquisire il controllo di una società o di una banca con patrimonio da saccheggiare.

Fu scelto di dare la scalata alla banca Commerciale Italiana (Comit). Le azioni della banca passarono in cinque giorni da 1.250 a 2.450 lire (la lira di quel tempo!), vale a dire che quasi raddoppiarono, non certo a vantaggio degli operai dell’Ansaldo. Per farla breve, la scalata non andò in porto per l’opposizione di Nitti, e i fratelli Perrone vendettero le 200.000 azioni in loro possesso ad una holding controllata dalla Comit.

A quel punto la banca più potente d’Italia decise che doveva far pagare caro a Nitti il suo rifiuto di modificare la legge che avrebbe consentito ai Perrone il controllo della banca. Nelle sue memorie l’uomo politico racconta che due banchieri della Comit chiesero d’incontrarlo, prospettandogli la necessità di misure economiche drastiche per ristabilire la fiducia dei mercati finanziari interni ed esteri sulle finanze pubbliche italiane. Infatti, a Nitti erano stati già rifiutati ulteriori aiuti finanziari da parte inglese, rendendo precaria la posizione del suo governo in una situazione sociale assai seria. Tali misure consistevano essenzialmente nell’abolizione del prezzo politico del pane. In cambio, i due banchieri promisero di indurre i loro colleghi esteri a concedere nuovi prestiti.

Nitti, come detto, rifiutò di modificare la legge in favore dei Perrone, presentò alla Camera un progetto di legge per l’abolizione del prezzo politico del pane (e in ciò Bordiga aveva ragione). Nitti fu però battuto, soprattutto perché a mancargli furono i voti decisivi del PPI, il partito cattolico. Secondo Nitti, la Comit si fece promotrice, in quell’occasione, con ogni sforzo, di raccogliere voti contrari alla proposta di legge.

La caduta di Nitti ridusse drasticamente la possibilità di una soluzione riformistica della crisi e aprì la strada a Giolitti, mentre si stava «formando uno “stato fascista nello Stato” in gran parte dell’Italia centro-settentrionale, con la connivenza delle autorità governative locali e centrali, incluso lo stesso Giolitti e il suo ministro della Guerra, Ivanoe Bonomi» (Douglas J. Forsyth, La crisi dell’Italia liberale, Corbaccio, pp. 275-76).

Prima di passare la mano, Nitti chiese sostegno in Vaticano (aveva a suo tempo intrapreso colloqui segreti con il card. Gasparri in vista di una conciliazione sulla questione romana, anche se c’è da credere che il Vaticano cercasse contropartite decisamente più favorevoli di quelle prospettate dal governo italiano pro tempore), ma senza successo.

I suoi successori, cioè Giolitti, Bonomi (luglio 1921-febbraio 1922) e il «deficiente» Facta (feb. – ott. 1922), perseguirono una linea di politica economica essenzialmente tesa alla stabilizzazione finanziaria e monetaria ponendo in secondo piano la ricerca di un sostegno politico e parlamentare da parte dei partiti di massa (sinistra e partito popolare).

Nitti nelle sue memorie (Rivelazioni, 1948) smentisce la propria connivenza con i gruppi bancari, sostenendo anzi che essi furono la causa della sua caduta: «... la lotta dei gruppi bancari che volevano l'uno contro l'altro il predominio dello Stato che io non volevo dare ad alcuno e che poi finirono per essere entrambi contro di me, turbava la vita dello Stato» (p. 543).

Fu Giolitti a smantellare il sistema nittiano dei monopoli fiscali e dei controlli economici statali (in realtà poco efficienti), a frenare il ricorso delle amministrazioni locali (moltissime controllate da socialisti e partito popolare) al credito, a porre fine alla connivenza tra governo e il trust Ansaldo-Bansconto, mantenendo invece ottimi rapporti con la Comit. 

In tal modo, l’azione governativa di Giolitti, pur riportando decisi progressi verso il risanamento dei conti pubblici, venne a perdere soprattutto il sostegno cruciale del partito cattolico, guidato da Luigi Sturzo. Infatti, il salasso per le classi più deboli scontentò i partiti di massa senza guadagnare l’appoggio delle destre, come sempre accade in simili frangenti.

Da sottolineare un altro fatto non secondario, ovvero l’approvazione della legge del luglio 1920, che doveva entrare in vigore nel luglio del 1921, sulla nominatività dei titoli e altre misure fiscali (Nitti, nel 1920, si era opposto alla nominatività dei titoli).

Oltre che dai soliti gruppi industriali e finanziari, la legge era molto temuta dal Vaticano, che aveva in Italia la quasi totalità dei suoi investimenti e possedeva a preferenza titoli al portatore, così com’era temutissima la norma fiscale sulle trasmissioni ereditarie tra persone non legate da vincoli di sangue. Fu questo il motivo che «obbligò – secondo Ernesto Rossi, testimone coevo – Giolitti a presentare le dimissioni».  Poco prima, il 9 giugno 1921, il suo gabinetto aveva promulgato un decreto contenente norme per la registrazione dei titoli. Con il nuovo governo presieduto da Bonomi, tale norma fu subito sospesa, ma non abrogata. Entrambi i successori di Giolitti, Bonomi e poi Facta, non cancellarono del tutto il decreto giolittiano.

Nella crisi che succedette alla caduta di Giolitti e fino all’avvento del fascismo, il Vaticano si oppose ad un possibile nuovo governo presieduto da Giolitti, innanzitutto con il veto imposto al Partito popolare di aderirvi.

Il costo di questo atteggiamento fu la paralisi parlamentare e, infine, la crisi istituzionale. Successivamente, come rileva nel suo libro Ernesto Rossi, L’Osservatore Romano del 27-28 febbraio 1922 si rallegrò perché la più lunga crisi ministeriale che si fosse mai avuta in Italia era stata finalmente conclusa con la formazione di un governo di coalizione, presieduto dall’on. Facta, dal quale erano esclusi soltanto i socialisti.

In risposta ai giornali che avevano accusato la Santa Sede di essere stata la principale responsabile della eccezionale lunghezza della crisi, col suo veto al ritorno di Giolitti al governo, il giornale del Vaticano ipocriticamente affermò che «la Santa Sede era, voleva e doveva rimanere completamente estranea alle questioni di politica italiana, sia estera che interna, come ad ogni partito di ogni colore».

Scrisse nel 1947 Benedetto Croce:

«L’azione della politica vaticana fu allora perniciosa per l’Italia e aprì le porte al fascismo impedendo ogni ritorno del Giolitti al potere. Su di che potrei aggiungere particolari, come d’un colloquio che l’on. Pozio, sottosegretario alla presidenza con Giolitti e a lui devotissimo, ebbe con il card. Gasparri, che rudemente respinse ogni approccio d’intesa: quel che più aveva inferocito la Chiesa era la legge giolittiana della nominatività dei titoli al portatore, nei quali molto denaro degli istituti ecclesiastici era investito».

Il 12 luglio 1922 le squadre fasciste, lasciate libere di agire, attaccarono il quartier generale delle organizzazioni cattoliche a Cremona. Il PPI si ritirò dal governo Facta, provocando l’ennesima crisi. L’ala riformista del Partito socialista, decise di opporsi al divieto della dirigenza socialista di formare coalizioni con formazioni non socialiste, annunciando l’appoggio ad un governo antifascista, mentre invece Giolitti scoraggiò il suo gruppo di partecipare ad un governo con popolari e socialisti in chiave antifascista. Giolitti e altri liberali preferivano un governo con i fascisti, per poi, credevano, poterli manovrare.

Vi erano forze e interessi che preferivano una politica nettamente conservatrice con a capo Mussolini, un governo forte a una coalizione riformista. Il nuovo governo Facta ebbe vita difficile e breve, fino al colpo di mano di Mussolini, ovvero fino alla “marcia su Roma”. Il 29 ottobre anche il senatore Luigi Albertini, direttore del Corriere della sera, si trovava presso la prefettura di Milano, assieme ai capoccioni di Confindustria, per far pressioni sul re, affinché non indugiasse ad incaricare Mussolini di formare il nuovo governo.

Sotto il titolo « La soddisfazione del Vaticano per la soluzione delle crisi », il Popolo d’Italia (giornale di Mussolini) del 2 novembre del 1922 pubblicò:

«Durante i giorni del travaglio nazionale, che condussero all’avvento al potere dell’on. Mussolini, nessun allarme si ebbe nei circoli più vicini al Pontefice, il quale, quando gli avvenimenti si sono avviati verso il loro sbocco normale, non ha celato agli intimi il Suo compiacimento nel vedere l’Italia dirigersi verso una rivalorizzazione delle sue migliori energie».

Il 10 Novembre, lo stesso giorno in cui Il Popolo d’Italia dava la notizia che il consiglio dei ministri avrebbe abrogato la legge sulla nominatività dei titoli, il suo corrispondente da Roma comunicava:

«Per quanto le sfere responsabili del Vaticano mantengano il loro tradizionale riserbo intorno alla politica del nuovo gabinetto italiano, negli ambienti dei Palazzi Apostolici non si nasconde la simpatia e il senso di fiducia determinato dai primi atti dell’on. Mussolini».

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Non servono monumenti di erudizione, segnalo tre titoli: Renzo De Felice, Mussolini il fascista, Einaudi, I, 1974; Ernesto Rossi, I padroni del vapore, Caos ediz., 2001; Palmiro Togliatti, Sul fascismo, Laterza, 2004.