Combattere il neofascismo – ammesso che si faccia non
solo a parole – di per sé è come combattere la febbre. Paracetamolo, quand’è
necessario, ma la febbre, come sappiamo, è un sintomo. E il neofascismo è
appunto un sintomo del quale vanno ricercate le cause e le responsabilità nella
situazione sociale concreta e nel lungo periodo.
Negli ultimi decenni assistiamo a un mutamento di
portata storica, dapprima lento e poi via via sempre più pressante, a seguito
di quella che chiamano globalizzazione. Entra in crisi l’impalcatura dello
Stato nazionale, e della rappresentanza
politica è definitivamente superata l’impostazione e il carattere classista.
Tutto ciò – deve essere ben chiaro – ha origine prima della rinascita dei populismi e
dei nazionalismi, ben prima dell’incattivirsi
della situazione sociale a causa delle ondate migratorie, del precariato di
massa. Quanto voluto e desiderato,
e quanto invece indotto spontaneamente, da un lato dallo sviluppo capitalistico
e dall’altro dalla sua crisi (l’uno non esclude l’altra), è questione lunga e
complessa.
Ad ogni modo, non si può spiegare il vuoto di
rappresentanza politica se non si parte da un’analisi di cos’è successo ai
partiti (e al sindacato) che un tempo rappresentavano le cosiddette istanze dei
lavoratori e dei ceti sociali più deboli.
La borghesia può congratularsi con i suoi specialisti per il grado di spoliticizzazione raggiunto presso un paio di generazioni, e per l'istituzionalizzazione del malcontento, veicolato artatamente dai media, che addormenta la gente invece di mobilitarla.
La sensazione che altri metteranno a posto le cose, ingenera una buona coscienza, dispensa dall'attività e dalle responsabilità in prima persona, rende meno debole l'illusione che basti apporre una croce su una scheda per salvarsi l'anima.
Non si può spiegare Grillo e Renzi senza indagare la parabola
che ha condotto al grillismo e al renzismo, e dunque la mancata resistenza al neoliberismo e
invece l’entusiastica e convinta
adesione ad esso.
Altrimenti come avrebbe fatto un partito, fondato da un
comico che si dichiara né di destra né di sinistra e dunque sicuramente
reazionario, a raggiungere il 25% alle sue prime elezioni, se non si fosse trovato
davanti a sé praterie aperte?
È sufficiente vedere cosa sta accadendo in queste ore
a proposito del nuovo contratto di lavoro dei metalmeccanici tedeschi. Non si
tratta di una vittoria e nemmeno di un pareggio, cioè di un do ut des, bensì di una sconfitta, laddove è data la possibilità ai padroni di
allungare la settimana lavorativa da 35 a 40 ore. Su un anno, fatta la tara
delle festività e delle ferie, sono più di 200 ore a cranio. È questo il punto vero del successo padronale, il
ritorno alle 40 ore! Il padrone le può acquisatre tutte oppure in parte,
dipende dal ciclo produttivo. Su base volontaria? Abbiamo presente quali sono i
rapporti di forza all’interno dei luoghi di lavoro? Peraltro la faccenda delle
28 ore da sei mesi a un massimo di ventiquattro è solo uno specchietto per le
allodole e riguarda solo una parte minoritaria della forza-lavoro tedesca, e di
tale minoranza solo taluni casi.