mercoledì 14 febbraio 2018

Dobbiamo dir grazie ai napoletani se ...



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L’8 febbraio del 1848, veniva presentato al re Ferdinando II di Borbone il disegno di Costituzione; il giorno dopo era discusso dal Consiglio di Stato; e, la sera del 10, il re vi apponeva la firma, cosicché l’11 febbraio venne pubblicato.

Francesco Bozzelli ne era stato l’estensore sulla base della Costituzione francese del 1830. Ebbe a canzonarlo il Settembrini: “Credeva di avere scritto il codice di Solone, che avrebbe reso lui immortale e il popolo felicissimo”. E tuttavia senza quel processo che portò alla Costituzione napoletana (che tanto scontento portò a Palermo e in Sicilia) e poi a quella Toscana, non si sarebbe avuto quel movimento di popolo (classi medio-alte) di Piemonte e Liguria che condusse allo Statuto Albertino.


Carlo Alberto di Savoia, 1798 – 1849, re di Sardegna, principe di Piemonte e qualcos’altro, fu detto il Magnanimo proprio perché concesse, dopo resistenze e infinite esitazioni, lo Statuto che porterà il suo nome. Resistenze tali che si arrivò ad un passo dall’abdicazione. Di concedere lo Statuto proprio non ne voleva sapere, tanto che il 2 gennaio 1848, a Leopoldo di Toscana, che gli aveva chiesto fino a qual punto si poteva avanzare nella politica riformatrice, rispondeva di essere persuaso che si sarebbe potuto “stabilire un savio governo, nel quale la libertà e personali vantaggi [fossero] maggiori di quelli che si incontravano in certi governi costituzionali, ove la libertà è una finzione e l’amministrazione dello Stato si sostiene con la corruzione”.

Insomma, la sapevano lunga anche a quel tempo.

Carlo Alberto era cugino lontanissimo (13° grado) degli eredi al trono di Sardegna, cioè di Vittorio Emanuele I e di Carlo Felice, dunque con un’affinità parentale giuridicamente infondata. Quanto sia bizzarro il caso in ogni vicenda umana trova conferma nella vita e nell’ascesa al trono di questo aristocratico spiantato di simpatie bonapartiste (era stato sottotenente nell’Armée).

Carlo Alberto era alto due metri, magro, timido e insicuro, di educazione francese (tutta la sua infanzia e giovinezza trascorse a Parigi e per un breve periodo a Ginevra). Vittorio Emanuele II, primogenito suo e di Maria Teresa d'Asburgo-Toscana, non assomigliava in nulla ai propri genitori, tanto che nacquero delle leggende. Brevilineo e tarchiato, fisionomia da boscaiolo, di modi rudi, preferiva parlare piemontese, e aveva una passione smodata per la caccia e soprattutto per le donne, specie se giovanissime (la famosa Rosina Vercellese, che diventerà sua moglie morganatica, la conobbe quando questa aveva 14 anni).

Vittorio Emanuele II fu detto, a sua volta, il Galantuomo perché non revocò (né s’azzardasse a farlo) lo Statuto del padre, e dunque mantenne il parlamento del regno sardo (a Torino!), con ciò che consegue. È noto per le vicende risorgimentali, nelle quali in realtà svolse un ruolo in realtà marginale. Ogni scolaretto è tenuto a sapere che fu il primo re d’Italia e che sulla strada nei pressi di Teano, nell’autunno del 1860, ebbe ad incrociarsi con tale Giuseppe Garibaldi, di fede repubblicana ma realista pragmatico.

Il vero artefice dell’Unità fu, come tutti sanno, Camillo Benso, presidente del consiglio a 42 anni e morto prematuramente solo dopo pochi mesi dalla proclamazione del regno d’Italia. Un’unità d’Italia che deve molto anche agli inglesi in chiave antifrancese, ma non divaghiamo in dettagli.

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Quali furono gli esiti dell’annessione degli altri Stati italiani a quello Sabaudo? Lo Stato nato dal Risorgimento ebbe il vizio d’origine di mancare dell’adesione di ampi strati della popolazione, poiché le grandi masse non avevano partecipato, se non episodicamente, al movimento di liberazione nazionale. L’unificazione fu in buona sostanza un processo di annessione da parte di una vecchia famiglia di principi, quella dei Savoia.

Non si può dire che esistesse un potere forte e cosciente della necessità di dominare dal centro e di dare ordine alla nuova società, basata sopra gruppi di forze sane capaci di reale sviluppo, cioè una classe dirigente quale si poteva rintracciare (e si rintraccia) nei principali Stati europei d’allora (e di oggi).

Una situazione, peraltro, che corrispondeva al grado di sviluppo economico raggiunto dall’Italia nella seconda metà del XIX secolo, laddove quando si parla di borghesia nazionale deve intendersi l’accordo di gruppi sociali assai eterogenei. Al Nord si tratta dei primi gruppi industriali e degli agrari della valle padana; al Sud di vecchie consorterie politiche con legami e interessi familiari non di rado di stampo mafioso e camorristico, le quali esercitavano sopra le masse popolari un dominio di carattere feudale.

Da notare che queste consorterie politiche s’impadronirono ben presto del nuovo Stato (si legga a tale proposito Il Gattopardo, un romanzo che dice al riguardo più di tanti saggi storici), municipi e altri organi dell’amministrazione periferica e centrale (burocrazia, magistratura, polizia, ecc.) e si servirono di essi per consolidare il loro potere.

Tra classe dirigente meridionale e ceti più propriamente borghesi del settentrione e del centro, si strinse un patto di alleanza, che in parte perdura, il quale può essere considerato come la forma vera dell’unità dello Stato italiano.

Questo permise ai feudatari del meridione di continuare a sfruttare economicamente e ricattare politicamente i contadini, gli artigiani e i braccianti. In caso di rivolta, ci pensavano le bande di “mazzieri” a riportare l’ordine. Nel settentrione, quando iniziarono apertamente le lotte e i conflitti di classe, la polizia e l’esercito del nuovo Stato diventarono strumenti della repressione. Lo Stato oppose in modo sistematico e spregiudicato la politica della violenza. Per decenni non vi fu, al Sud come al Nord, conflitto sociale che non si risolvesse in un bagno di sangue, cioè con un massacro di proletari.

Sul piano propriamente economico fu adottato un regime speciale di protezione doganale il quale, impedendo l’importazione a prezzi inferiori di strumenti agricoli e di manufatti, fece diventare ancor più gravi le condizioni d’esistenza e lavoro del proletariato agricolo, e tale arretratezza favorì enormemente la disoccupazione e le masse di disperati che prendevano la via dell’emigrazione.

Osservava a tale riguardo Palmiro Togliatti che l’ossatura politica fondamentale e tradizionale dello Stato italiano può essere ascritta “a una borghesia semifeudale da una parte e dall’altra a una borghesia industriale sviluppatasi in modo artificiale e parassitario”. Nella seconda metà del Novecento si assisterà ad un conflitto, non sempre pacifico e alla luce del sole, tra monopolio statale e industria privata, ma si tratterà di tutt’altra storia.


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