giovedì 14 settembre 2017

Notarella tecnica sulla disoccupazione



L’aumento del capitale implica l’aumento della sua parte costitutiva variabile, ossia della forza-lavoro. In altri termini, una parte del plusvalore (quella che padroni e lacchè chiamano genericamente “profitto” o "valore aggiunto") trasformato in capitale addizionale deve costantemente essere ritrasformata in capitale variabile ossia in un fondo addizionale di lavoro. Sempre che le altre circostanze rimangano invariate, e dunque resti invariata la composizione del capitale, in tal caso una determinata massa di mezzi di produzione o di capitale costante richiederà sempre la medesima massa di forza-lavoro per essere messa in moto; in tal caso la domanda di forza-lavoro aumenterà evidentemente in proporzione del capitale e aumenterà tanto più rapidamente quanto più rapidamente aumenterà il capitale.

Siamo in presenza della classica riproduzione semplice che riproduce costantemente lo stesso rapporto capitalistico. Non solo un caso di scuola, ma una realtà concreta del capitalismo. Va da sé che la riproduzione della forza-lavoro, che deve incessantemente incorporarsi al capitale come mezzo di valorizzazione, costituisce effettivamente un elemento della riproduzione dello stesso capitale, e perciò l’accumulazione del capitale comporta un aumento del proletariato.

Se aumenta la domanda di forza-lavoro aumentano anche i salari. Se poi, per contro, l’accumulazione si allenta in seguito all’aumento del prezzo del lavoro, perchè ottunde lo stimolo del guadagno, l’accumulazione diminuisce e il prezzo del lavoro ricade a un livello corrispondente ai bisogni di valorizzazione del capitale.



Nel primo caso è l’aumento del capitale che rende insufficiente la forza-lavoro sfruttabile. Nel secondo caso è la diminuzione del capitale rende eccedente la forza-lavoro sfruttabile o, piuttosto, il suo prezzo. La grandezza dell’accumulazione è la variabile indipendente, la grandezza del salario quella dipendente, non viceversa. La teoria borghese, fraintendendo completamente, interpreta il fenomeno dell’accumulazione nel senso che la prima volta esistono troppo pochi operai salariati, mentre nel secondo caso se ne hanno troppi.

Pertanto e come detto all’inizio, è il lavoro non pagato, il plusvalore, trasformato in capitale addizionale, che determina da un lato l’aumento della composizione del capitale e dunque la domanda di forza-lavoro.

Finora, però, non si è tenuto conto del mutamento nella composizione tecnica del capitale, ossia dell’aumento della massa dei mezzi di produzione a paragone della massa della forza-lavoro che li anima, e dunque, in definitiva, dell’aumentata produttività del lavoro. Infatti, la crescente grandezza di volume dei mezzi di produzione paragonata alla forza-lavoro ad essi incorporata esprime la crescente produttività del lavoro. Vale a dire che la massa dei mezzi di lavoro e delle materie prime aumenta sempre più a paragone della somma di forza operaia necessaria al loro uso, e nella misura quindi in cui l’aumento del capitale rende il lavoro più produttivo, esso diminuisce la domanda di lavoro in rapporto alla grandezza del capitale.

Scrive Marx: “L’aumento della differenza tra capitale costante [macchinari, materie prime, ecc.] e variabile [salari] è quindi molto minore dell’aumento della differenza fra la massa dei mezzi di produzione in cui si converte il capitale costante e la massa di forza-lavoro in cui si converte il capitale variabile. La prima delle due differenze aumenta insieme con la seconda, ma in un grado minore”.

Soprassedendo qui su questioni quali la concentrazione e la centralizzazione del capitale, così come per altri aspetti della riproduzione su scala allargata del capitale, resta da osservare che il cambiamento della composizione tecnica del capitale, comporta che la parte costitutiva variabile diventa sempre più piccola a paragone di quella costante. Ciò non è senza conseguenze decisive, e non solo per gli effetti che tale dinamica produce in termini di disoccupazione della forza-lavoro.

A tale riguardo un’ultima osservazione: la disoccupazione appare come un aumento assoluto della popolazione operaia costantemente più rapido di quello del capitale variabile, ossia dei mezzi che le danno occupazione. In realtà è vero il contrario: è l’accumulazione capitalistica che costantemente produce, precisamente in proporzione della propria energia e del proprio volume, una popolazione operaia relativa, cioè eccedente i bisogni medi di valorizzazione del capitale, e quindi superflua.


Tutto ciò in termini scientifici. Dopo di che ci si può baloccare con terminologie, numerelli, grafici e le altre infinite e fantasmagoriche congetture della “scienza” borghese.

8 commenti:

  1. viviamo in sistemi spuri, specie in Italia. Spuri e parecchio inquinati dalla borghesia.

    Buona parte della poca occupazione di questo paese non è operaia, ma terziaria (non avanzata). E se la dinamica illustrata vale per gli operai, non vale per la disoccupazione, visto che spesso la massa operaia "superflua" viene impiegata, in qualche modo, nel terziario; con i risultati, nei servizi, che tutti apprezziamo.
    Certo i disoccupati oggi sono invariabilmente i figli degli operai. Tuttavia le cose sono più complesse e sembrano poco riducibili alle leggi del bisogno.

    RispondiElimina
  2. “E’ il lavoro non pagato, il plusvalore, trasformato in capitale addizionale, che determina da un lato l’aumento della composizione del capitale e dunque la domanda di forza-lavoro.”
    Siamo alla fase “matura” del capitalismo neoliberista quella dei lavoratori involontari senza alcuna retribuzione ma volenterosi.
    Ormai lavoriamo ,da utili idioti ,a tempo pieno e gratis sui nuovi mezzi di accumulazione capitalista come Google,Facebook & compagnie varie .
    Quanto tempo della nostra esistenza( e in quanti )dedichiamo a questa forma di neolavoro sulle tastiere non lavoro(dal punto di vista della retribuzione)?.
    La “forza lavoro” si è ingigantita e il risultato lo vediamo dalla evoluzione economica delle società menzionate.
    E non finisce qui.

    RispondiElimina
  3. Estrapolando il processo si arriverebbe al limite che un solo uomo ( il supercapitalista) produrrebbe PER SE tutto il prodotto per i suoi propri bisogni ( un superpanfilo di oro zecchino ? ) lasciando briciole ( ma anche nulla ) al resto de l' umanità
    E' evidente quindi che anche rinunciando a vendere ( perchè nessuno può comprare) questo "re del mondo" avrebbe ancora bisogno di "servizi " cioè di SERVI, il che significa che un "punto di equilibrio" si deve formare prima ad un qualche rapporto piccolo a piacere ( dei kapitalisti) tra "forza lavoro" e "esercito industriale di riserva" che deve calmierare il costo del primo.

    la speranza "rivoluzionaria" è che il sistema capitalistico esploda quando questo rapporto divenisse troppo piccolo , ma ciò non è assolutamente detto se mancasse cultura e coscienza di classe ai "venditori di se stessi".

    Quindi l' immigrazione di culture allogene e arretrate non porterà ad alcuna rivoluzione ma solo a guerre tra impoveriti.
    In questo già "America docet".
    ws

    RispondiElimina
    Risposte
    1. il capitalista, super o normal, non produce una beata fava
      tanto meno per sé. il capitale viene investito nella produzione ad un solo esclusivo scopo: il plusvalore. ciao

      Elimina
  4. e quindi seppure l'aumento delle produttività ripaghi in termini di massa di profitto, lo stesso aumento su questo lato non ne produce altrettanto sul lato del saggio di profitto

    RispondiElimina
  5. https://www.sinistrainrete.info/marxismo/10447-andrea-martocchia-lavoro-mentale-e-classe-operaia-di-g-carchedi.html

    collaterale al post

    RispondiElimina