Qual è la causa della depressione
economica, ossia della crisi?
Nell’evo antico e poi nel medioevo
la crisi economica, quale noi oggi l’intendiamo con il concetto di “depressione”,
non esisteva. C’era la carestia, ossia la mancanza di generi di prima necessità,
dovuta a cause naturali o come conseguenza delle guerre. Nelle formazioni
sociali precapitalistiche la crisi economica nelle forme quali noi oggi la
conosciamo non poteva esistere, dal lato pratico per motivi “tecnici”, e dal
lato teorico poiché anche i concetti che la descrivono hanno carattere storico. La semplice tesaurizzazione di una parte della ricchezza sociale
non era causa di crisi, bensì l’accaparramento di granaglie e altri generi
alimentari poteva aggravare lo stato di carestia.
Oggi le crisi si manifestano anzitutto nella sopraproduzione
di capitale e di merci, il contrario di ciò che succedeva nel passato con le
carestie. Le crisi attuali, con i fenomeni di eccedenza di capitali che non trovano impiego
profittevole nella produzione e la sovrapproduzione che non trova sbocco,
provocano disoccupazione, miseria, disagio sociale, proteste e rivolte.
Gli ideologi borghesi, sempre in
malafede, tentando di spiegare le cause della crisi in molti modi:
«La depressione ha varie cause che la determinano. La prima, fatalistica
e al tempo stesso consolatoria, la spiega con la teoria del ciclo economico;
sarebbe una sorta di respiro: la depressione ha una pausa nel corso della quale
la società decresce, la miseria aumenta e si diffonde fino a quando, toccato il
fondo, tutta l'attività si rimette in movimento, il benessere torna a
diffondersi, il progresso sociale raggiunge vette ancor più alte di prima. Si
discute tra i sostenitori di questa tesi quale sia la durata del ciclo; secondo
alcuni la depressione arriva ogni 25 anni, secondo altri 50 ed altri ancora
prevedono che avvenga ogni 70 anni».
Questo modo d’intendere le cause
della crisi non ha nulla di scientifico, perciò non spiega nulla e si limita a
ipotizzare, in modo del tutto aleatorio, la durata e la cadenza temporale dei cicli depressivi.
«I sostenitori della seconda tesi – scrive Eugenio Scalfari – escludono la teoria del ciclo e ne
sostengono un'altra molto più convincente: la cattiva e a volte pessima
distribuzione della ricchezza. Il liberismo in realtà genera rapidamente
sistemi economici monopoloidi [sic!],
dove il 10 e a volte perfino il 5 per cento della popolazione possiede il 40 e
a volte il 50 per cento della ricchezza nazionale. La depressione sarebbe
causata da questa diseguaglianza, una sorta di ribellione improvvisa dei ceti
più bassi che sperano di ottenere l'intervento dello Stato per modificare in
senso più egualitario le classi della società».
Questa tesi descrive un aspetto,
dal lato della sua manifestazione fenomenica, della crisi, ma non ne spiega
scientificamente le cause. Non è la disuguaglianza sociale, l’ineguale
distribuzione della ricchezza, la causa effettiva delle crisi nel modo di
produzione capitalistico, altrimenti la crisi di genere capitalistico si segnalerebbe
anche nelle formazioni economiche precedenti. Questa teoria ritiene che la
contraddizione centrale dell’economia capitalistica sia tra produzione e
consumo, e dunque individua la causa della crisi nella disuguale distribuzione
della ricchezza, vale a dire nel sottoconsumo,
non comprendendo che esso esprime solo un lato, un aspetto, della crisi, non la sua necessità.
E tuttavia Scalfari non manca, a
questo punto, di falsificare la storia, quella delle dottrine
economiche e segnatamente la storia del marxismo:
«Del resto tutto il pensiero marxista nacque sulla tesi della pessima
distribuzione della ricchezza che avrebbe provocato, una volta compiutasi la
rivoluzione borghese, la rivolta proletaria e l'instaurazione d'una società
comunista».
Scalfari, volutamente, pasticcia
con i termini. Laddove egli cita il “pensiero marxista” intende in realtà
riferirsi al pensiero socialista, che non sono evidentemente la stessa cosa,
altrimenti anche Proudhon sarebbe da annoverare tra i marxisti, così come Lassalle
e, volendo proseguire con tale gratuita nonchalance, pure lo stesso grande Eugenio.
Il marxismo, ovvero la scienza
marxista, ha una spiegazione teorico-critica del tutto diversa delle crisi
capitalistiche, e lo scopo dei falsificatori è appunto quello, rivolgendosi a "lettori
ingenui" come quelli di Repubblica, di
occultare questo specifico fatto.
Scalfari però, oltre alle due
citate teorie, privilegia una terza spiegazione della crisi capitalistica, anche
questa molto gettonata dagli scribacchini di “sinistra”:
«C'è però una terza tesi che spiega la depressione dandone la
responsabilità principale ai possessori del capitale, ai capi delle aziende e
al management; questa rappresenta la vera classe dirigente d'un paese e si
comporta come una classe chiusa nella forza dei suoi privilegi. Non reinveste i
profitti ma li incassa come dividendi e/o come bonus destinati al management.
Questa massa di ricchezza viene affidata alle banche d'affari che investono e
speculano su determinati asset, sulle industrie del lusso, miniere non
utilizzate, mutui all'edilizia popolare, nuove invenzioni tecnologiche che
puntano sul restringimento della base occupazionale. Insomma speculazione; a
volte positiva perché fa avanzare il nuovo, altre volte negativa perché sottrae
risorse all'industria, all'agricoltura, ai servizi e le destina alla finanza e
al suo arricchimento».
Anche in questo caso non abbiamo
una teoria scientifica della crisi, ma semplicemente una descrizione secondo
un’interpretazione psicologica e pragmatica dei comportamenti dei diversi
attori economici. Come ricordavo a mia volta nel post di sabato scorso,
presagendo con una certa facilità ciò che avrebbe scritto Scalfari la domenica
successiva:
Tutti gli atti economici degli individui
rispondono a casualità, e tuttavia i rapporti economici nel loro complesso
seguono leggi cogenti e imprescrittibili delle quali gli economisti non
vogliono occuparsi se non nel senso che essi, ancor prima d’indagarle, si
preoccupano di negare le contraddizioni fondamentali in modo da dimostrare che
il sistema economico capitalista può trovare un proprio equilibrio in coerenza,
ovviamente, con le loro farneticanti teorie. L’economia politica è ad ogni
effetto un caposaldo dell’ideologia del capitale.
E, del
resto, come si fa a parlare di crisi e di teoria marxista della crisi senza
inquadrare la materia nell’ambito del concetto di formazione economico sociale,
quindi dei rapporti di produzione capitalistici, per esempio; senza dire della
contraddizione dialettica tra forze produttive capitalistiche e rapporti di
produzione capitalistici, per fare un altro esempio? Per non dire poi del
metodo d’indagine, di metodo scientifico e di modelli teorici, di metodo
storico e di metodo logico, insomma di tutte cose che non piovono dal cielo e
che sulle quali i falsificatori di professione sorvolano.
E tutto
ciò prima ancora d’addentrasi nelle categorie di valore d’uso e di valore di
scambio, della loro fondamentale
opposizione interna; quindi di lavoro concreto e di lavoro astratto, di
quello privato e di quello sociale, e in buona sostanza in quella teoria che va
sotto il nome di teoria del valore-lavoro e che implica a sua volta concetti
quali forza-lavoro, lavoro produttivo e improduttivo. Questo ancor prima di
trattare approfonditamente della circolazione delle merci e del denaro, della
produzione di plusvalore e del processo di valorizzazione, della composizione
organica del capitale e dunque di capitale costante e variabile, e poi di
saggio del plusvalore, della giornata lavorativa e del plusvalore assoluto e
relativo, di ciclo e rotazione del capitale, di capitale fisso e circolante,
prezzo di costo e profitto (quest’ultimo, è bene ricordare, è una forma
secondaria, derivata e trasformata del plusvalore).
E fin qui
siamo solo alle premesse, a categorie e concetti di base, perciò solo con faccia di lazzaroni si può parlare di teoria marxista della crisi ricondotta
alle povere, superficialissime e fraintese nozioni che della teoria marxiana hanno
i lustrascarpe della pubblicistica borghese.
Sia detto per le testine acute che
pontificano da mane a sera di queste cose nei media, nei blog e in rete: le contraddizioni operanti nella sfera del consumo sono indotte da
quelle interne alla sfera della
produzione. Di conseguenza, peraltro, la genesi della crisi va cercata nella
produzione di plusvalore e non nella sua
realizzazione.
È nella interdipendenza e nella
connessione tra categorie economiche, laddove ciascuna categoria è un’unità di opposti, che la possibilità della
crisi si traduce in necessità, dimostrando che, potendo lo sviluppo
capitalistico avvenire solo attraverso
successivi momenti di crisi, ed essendo poi questo sistema entrato da tempo nella sua fase di crisi
storica generale, il modo di produzione cui esso s’iscrive ha un carattere
storico, transeunte, come storico e transeunte è il carattere dei concetti che
ne definiscono i concetti e le proprietà.
P.S. : a commento di un recente
post di altro argomento mi ha scritto due righe il direttore del Parco dell’Asinara,
osservando: “non tutti si appassionano a queste cose”. A me pare che ormai non
ci si appassioni a nulla se non alle cazzate.
Vous êtes merveilleuse, ma chère Olympe.
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RispondiEliminaLa categoria degli "scalfari". fa sempre da "ventilatore" per la "materia" che gli viene di volta a volta indicata dal loro "padrone ".
E se scalfari ventola rimasticatura di "marxismo" significa certamente che " il padrone" vede il ritorno di questa teoria.
Purtroppo pero' anche se "marx ritorna " ( perche' ovviamente aveva ragione )non c'e' da farsi illusioni su future "rivoluzioni marxiste" . Infatti sebbene il padrone continui a creare " rivoluzioni" , ha imparato la lezione del '17 e non se ne fara' scappare mai piu' di mano una di tipo " marxista". :-)
la storia è capricciosa e imprevedibile
EliminaLeggere periodicamente Eugenio Scalfari verrebbe la voglia di passare direttamente a Vittorio Sgarbi, almeno la posizione è chiara. Sentire parlare di perequazione e di cogenze da parte di un miliardario... Ognuno deve gestire il proprio ruolo, lo faccia con consapevolezza e dignità, almeno ci dica a quali banche d'affari ha affidato la gestione dei propri capitali.
RispondiEliminaPer curiosità, e poi la smetta di tediare chi spende 1,20€ per la Verità debenedettiana.
Un piccolo passo sarebbe quello di riflettere su quanto benessere sia stato diffuso, o forse meglio dire contaminato nel corso del tempo e nel nome della crescita o sviluppo che dirsivoglia nei molti siti industriali della penisola, non solo quelli famosi come Taranto e Porto Marghera.
RispondiEliminaMa il benessere sembra essersi diffuso anche nelle grandi città, dove il commercio, lontano e nascosto dalla produzione, finanzia il capitale cibandosi delle malattie che genera.
Un piccolo passo sarebbe quello di riflettere sul significato della parola “benessere”.
Oppure, accertato che in Italia sia sempre in voga il desiderio di mangiare bene, (...forse un'idea, inquinata anche questa), riflettere su cosa fa di un formaggio un buon formaggio, forse il latte di un animale sano che mangia verdure sane, che respira aria buona, …forse.
Nel grande boom degli anni 60 l'Italia aveva circa il 13% di analfabeti, ma era ancora anche l'Italia di cultura contadina, di una magnifica grande cultura contadina.
Territorio da depredare, consumare, bruciare, benedire, contaminare, ...pardon, anche aria e acqua, la terra non basta, e il mare.
Non sembra, dall'interno, sia una penisola, non sembra proprio di essere stati un popolo di navigatori, e qui potrei spendere una biblioteca di parole, ma evito per la depressione in atto.
Certo, tutto sembra poi transitorio, (sono andato a cercare transeunte) mi sembrava un dio o un semidio greco, proverò a recitarlo, fatto è che a me piacerebbe che un gran numero di persone leggesse quello che leggo anch'io qui da lei.
sono considerazioni inattuali purtroppo, presi come siamo dagli zero virgola qualcosa. una magnifica grande cultura contadina, e oggi invece, di quale cultura possiamo parlare? della cementificazione dell'expo e cose del genere. si parla sempre più e a tutte le ore del giorno di cibi, di ricette, di mangiare, che è cosa diversa dalla nutrizione, per la quale non servono tutti quegli ingredienti e sofisticazioni che ci propinano in televisione. discorso lungo, sappiamo. grazie per il commento
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