Esce oggi in Italia «J. Edgar» di Clint Eastwood, ispirato alla controversa figura del creatore dell'Fbi, nel 1924. Fu lui a tenere in scacco il paese per mezzo secolo – Il mondo intercettato a partire da Hoover
di Roberto Silvestri – il manifesto
Continuando la sua saga di controstoria Usa, il regista racconta da vicino il metodo scientifico dell'inventore dell'Ufficio federale investigativo, «riscaldando» il personaggio attraverso una relazione d'amore virile. Nel 1993 il programma televisivo Frontline (il Report della tv commerciale Usa) raccontò cos'era il «metodo J. Edgar Hoover». Come cioè un funzionario pubblico non corrotto e irreprensibile, ossessionato da ogni forma, anche nel look, di ordine borghese e dalla religione della sicurezza, creatore del 1924 dell'Fbi, era riuscito a tenere sotto controllo il paese per mezzo secolo costruendo, perfezionando (e socializzando il sistema in tutti i paesi amici della democrazia liberale per eccellenza) un'efficiente «macchina del fango», capace di colpire a forza di dossier più falsi che veri chiunque desse fastidio all'american way of life, dai wobblies ai comunisti, dal Kkk ai nazisti dell'Illinois, dai gangster ai Black Panthers, dai Kennedy alle «anarchiche Jean Seberg e Jane Fonda» dall'«ipocrita Martin Luther King» ai politici, agli scrittori, ai quarterback estremamente strani come Joe Namath, ai sacerdoti e alle rock star troppo radicali, sia di estrema destra che di estrema sinistra (Jimi Hendrix e la sua stranissima morte per overdose), ma spesso (durante il maccartismo) anche fastidiosamente liberal, noi diremmo oggi di «centro sinistra».
Hoover, fautore del taylorismo investigativo, del metodo scientifico d’indagine, della intercettazione telefonica a tappeto, è entrato nell'immaginario americano, anche se mai come «icona pop», grazie alla sua incredibile capacità promozionale. Personalizzando (esageratamente) sulla sua figura ogni impresa mitica dell'ufficio federale d’investigazione, dall'uccisione di Dillinger alla «soluzione» del caso Lindbergh, dalla tripla vittoria sul «pericolo rosso» nel '20, nel '47 e nel '52 alla caccia grossa al movimento studentesco degli anni 60, era riuscito a capovolgere, a favore degli uomini di legge, dei g-men, il tifo popolare che ogni cultura di massa prova istintivamente - nei nostri stati democratici o autoritari di merda - per i fuorilegge. Bastò descriverli (attraverso giornali, romanzi, fumetti, film e canzonette) come più attraenti, erotici e maligni degli stessi «eroi del male». Così James Cagney capovolse il suo personaggio, da maligno gangster e «Public enemy» che nel 1931 schiaffa il pompelmo sulla faccia perfino della sua fidanzata Mae Clarke, a uomo di legge più duro dei duri perché svezzato nell'università della strada (G-men di William Keighley, 1935) senza perdere neppure un fan.
In fondo, nessun uomo politico poteva permettersi di mettere becco naso e bocca negli uffici e negli scaffali Fbi. Ne sanno qualcosa sia Eleonor Roosevelt (e le sue presunte relazioni lesbiche) che Richard Nixon, che pagò molto cara, con il Watergate e l'impeachment, la sua arrogante curiosità e la sua prepotente smania di impadronirsi di files troppo compromettenti. L'autonomia bipartizan di un corpo pubblico investigativo che diventa «bene comune» contro l'ingerenza «di parte» di statisti, stati e sovversivi, è davvero utopia ed è inconcepibile soprattutto nell'Italia delle stragi di stato irrisolte, coordinate da Giulio Andreotti così come è ritratto in Todo Modo (un film di Elio Petri non facile da trovare e mai querelato).
Rispettare quella jeffersoniana ed emersoniana «sacra anarchia» di Hoover contro quella atea e libertina dei «sovversivi predicatori» come Emma Goldman (nella scena più rigida e odiosa del film) è il metodo di avvicinamento che Clint Eastwood e il suo sceneggiatore Dustin Lance Black (Milk) utilizzano per avvicinarsi con il maggiore calore possibile, e poi descriverci dall'interno, il loro personaggio, da radiografare a tutto tondo. Infatti.
Dopo una serie di documenti di controinformazione new left e anni 70 molto dettagliati e critici su questo «metodo Hoover» (recentemente abbiamo visto un doc educativo a dir poco sulla persecuzione dell'Fbi a John Lennon), e i capolavori polemici di Larry Cohen e Emile De Antonio, anche Clint Eastwood, controstorico dell'America da sempre, da Callaghan a Iwo Jima, da Grenada alla depressione, da Charlie Parker al genocidio west, capace di coniugare l'analisi storica con le sue profonde implicazioni immaginarie e simboliche, come neppure Arthur M. Schlesinger jr. è stato mai capace di fare, torna a Hoover (impersonato - con un ovvio sfoggio di make up pesante, alla Il divo, spesso davvero imbarazzante - da un feroce e delicatissimo Leonardo Di Caprio), monumento rimosso dell'essere americano, ma modificando tono e punto di vista.
Non tanto perché in «Edgar J» Eastwood racconta la lunga e mai interrotta storia d'amore virile e platonica tra il capo dell'Fbi e il suo braccio destro, costringendo il pubblico a stare sempre dalla parte di un innamorato frustrato nelle sue più represse passioni e pulsioni (da una educazione puritana che ne ha deformato personalità e sessualità). Ma perché il punto di vista mai liberal del repubblicano lincolniano in stato di allarme Clint (non a caso piuttosto vago quando tratta la lunga fase dei rapporti tra Fbi seconda guerra mondiale e F.D.Roosevelt) è assai più convincente quando sentenzia che Hoover sembra come lui ma è all'opposto, è il sintomo di un morbo fanatico e fondamentalista, di una malattia pericolosa e profonda che ha avvelenato lo stesso individualismo, drastico e democratico americano, e che forse è all'origine della profonda crisi di civiltà che sta distruggendo il baricentro spirituale del suo paese.
Ritorniamo così alla scena madre dell'ispettore Callaghan, adorato dai giustizieri estremi della polizia di San Francisco, cui dovrà spiegare con le buone e poi con le cattive che furono male informati. Callaghan non è affatto attratto dal fascismo, anzi agisce in base allo stesso principio morale (la responsabilità individuale di ogni azione) grazie al quale i nazisti furono processati e condannati a Norimberga. Non ci si può mai nascondere dietro gli ordini dei superiori per deresponsabilizzarsi. Anche se questi superiori sono i sacri principi dei padri fondatori che tutelano l'America dal nemico, dal diverso, dall'alieno. Tutto il male di Hoover, ci dice Eastwood, iniziò proprio dickensianamente alla vigilia di Natale nel 1919 con la deportazione di 249 persone imbarcate sul mercantile Buford. Tra queste Emma Goldman e molti militanti americani dell'Union of Russian Workers. Vennero smembrate intere famiglie, lasciando privi di sostentamento madri e figli. Dopo questa impresa brutale, inumana e fuori legge, il procuratore generale Palmer e il suo assistente Hoover, atterriti dal contagio bolscevico, dettero il via alle grandi retate «Palmer». Il 2 gennaio 1920 in 70 città vennero eseguite retate che portarono all'arresto di 10 mila attivisti sindacali, che si tradussero in altre 500 deportazioni di stranieri nonostante la ferma opposizione di Louis F.Post, vice segretario al Dipartimento del Lavoro, che annullò 1547 mandati di deportazione e accusò di dubbia moralità l'operato illegale di Palmer.
Molti magistrati nordamericani si dimisero. In un documento del Dipartimento Giustizia si provò che quelle retate si facevano beffe della Costituzione e di ogni procedura legale. Nel 1924 quando l'Fbi nacque il procuratore generale Harlan F. Stone stabilì che non dovesse occuparsi delle opinioni politiche dei cittadini americani. Scrive E.Gurley Flynn, militante wobbly dell'epoca, che Hoover, per salvare la faccia e mantenere il suo posto, dichiarò: «Le attività dei comunisti e dei radicali estremisti non hanno costituito fino ad oggi violazione delle leggi federali e di conseguenza il Dipartimento della Giustizia non ha, teoricamente, alcun diritto di indagare su tali attività, poiché nessuna legge è stata violata». E ammise così che le retate Palmer erano state illegali sotto ogni aspetto. Ma passò, dopo quella «provvidenziale» bomba piazzata nella casa di Palmer che aveva scatenato i raid, e a pericolo rivoluzionario ormai debellato, al controllo capillare, questa volta segreto, delle attività sovversive che avrebbe coordinato fino alla sua patriottica morte. In una democrazia, come in uno stato totalitario, se nessuno controlla Beria, prima o poi crolla tutto.
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