“È necessario sognare” (Lenin)
Scrive un attento lettore in un commento:
Siamo al punto cruciale: "il capitale l'unica razionalità riconosciuta è il profitto". Ma non concordo sull'affermazione che gli impomatati di Davos nulla sanno della crisi del capitalismo perché se ne intuissero la portata si interrogherebbero sui motivi di tale fallimento. Questo sarebbe fare loro l'unico torto che non hanno. E' stato raggiunto, nella crisi, il rischioso punto del non ritorno e ne sono freddamente consapevoli. È l'ora dei duri senza esitazioni. Li tradisce la negazione intransigente verso qualsiasi inutile provvedimento che abbia parvenza di equità e di giustizia; il ripetere e far ripetere, ai loro reggicoda, formulazioni tanto tetragone quanto fastidiosamente stolide. E' crisi, mi sembra, tutta interna al sistema del capitale ove le storiche forze oppositive ed alternative del lavoro, sono spettatrici tragicamente passive o colpevolmente distratte. Non c'è spazio per il riformismo socialdemocratico e ce n'è ancora meno per i giovanili sogni di fulgide albe rivoluzionarie. E' uno scontro mortale tra il nuovo capitale della speculazione finanziaria ed il vecchio capitale della produzione delle merci. Il primo guadagna sul fallimento del secondo. Crono mangerà i suoi figli ma non salverà il trono. In attesa di Zeus.
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Vedo di precisare il mio punto di vista. Ho scritto che la produzione per sé stessa, ossia la produzione di plusvalore, è l’unica razionalità riconosciuta dal capitale. La finanza (cioè il sistema economico integrato) è diventata, non da oggi, il modo per controllare il processo di produzione del plusvalore e per spartirsi il bottino a rubamazzo. Fin qui, siamo d’accordo. Non intendevo dire, temo per mancanza di chiarezza, che gli impomatati di Davos nulla sanno della crisi del capitalismo perché se ne intuissero la portata si interrogherebbero sui motivi di tale fallimento. Tutt'altro, i proprietari del sistema e i loro maggiori funzionari sono consapevoli della faccenda. Ci mancherebbe. Tuttavia, ed entro nel merito dell’obiezione sollevata, bisogna tenere conto che anche tra le coscienze più pragmatiche di questo sistema di rapina vale il fatto che non è la coscienza a determinare l’essere ma, viceversa, è la posizione di classe a determinarne la coscienza. In altri termini, la coscienza individuale può divenire coscienza soltanto realizzandosi nelle forme ideologiche dell’ambiente che gli sono date ed è perciò che le idee sociali prevalenti sono mutuate dall’ideologia della classe dominante.
Nel concreto: la borghesia, cioè i padroni del mondo, i proprietari di schiavi, il management del sistema, non può ignorare la natura di rapporti di produzione, così come le contraddizioni che si palesano con la crisi nelle sue varie manifestazioni e i rischi che essa comporta. Tuttavia le forme ideologiche che ispirano nel complesso le risposte della borghesia non possono mettere in causa le ragioni stesse della sua esistenza come classe. E per questo che si avvale di specialisti retribuiti per escogitare risposte corrispondenti ai propri interessi sia sul piano ideologico che pratico. Non per nulla l’economia politica è diventata in misura sempre più pregnante la scienza sociale per antonomasia del capitalismo ed è tutt’altro che fortuito che essa tenda a individuare le cause della crisi soprattutto negli “squilibri” della sfera della circolazione delle merci e della bulimia finanziaria.
I padroni del mondo e i loro funzionari tendono quindi a cogliere e mistificare le manifestazioni più esterne della crisi e a centrare il dibattito su di esse. Ciò non significa che essi non si comportino, in taluni casi, secondo schemi di razionalità tendenti a difendere, sotto la spinta di necessità oggettive, i propri interessi. Ne è un caso, per esempio, un aspetto importante della cosiddetta globalizzazione, ossia la delocalizzazione dei capitali che mira, da un lato, a massimizzare i profitti e perciò, dall’altro lato e al contempo, a contrastare la loro caduta tendenziale. Ne sono un altro aspetto, per motivi in parte analoghi, le privatizzazioni del settore pubblico e le liberalizzazioni che piegano all’agire del capitale speculativo quei settori dei servizi finora esclusi e protetti.
Per non tirarla in lungo e venire alla questione dell’atteggiamento del proletariato e sulla prevalente negatività priva di speranze che colgo nelle parole del nostro amico, osservo, come del resto è noto, che non basta essere dei salariati o essere precipitati in una condizione proletaria per avere una coscienza di classe. Il mutamento ovviamente non può essere così meccanico. La formazione di una coscienza realmente antagonista e non solo genericamente protestataria, implica un processo di lotta, anche contro l’ignoranza e le false rappresentazioni elargite a piene mani dal sistema mediatico dei padroni e che corrompe tutti con la menzogna e l’ipocrisia; contro chi ci divide e ci spinge gli uni contro gli altri creando un inconciliabile antagonismo degli interessi e quindi contro gli agenti della propaganda che mentono cercando di giustificare tale conflitto tra soggetti della stessa condizione sociale; contro le credenze e la morale filistea, la religione che copre con il lenzuolo del mito crocefisso la devastazione morale e materiale causata dal lavoro salariato e dall’oppressione di classe.
Chiaro che avremmo altre cose da dirci, ma forse non è il caso di raccontarcele tutte con troppa franchezza nel blog. Perciò, nel ringraziare il lettore per la sua acuta osservazione, sperando di aver risposto in qualche modo sul punto, richiamo l'attenzione sulla citazione leniniana in esergo. Non è “euristica”, ma di questi tempi, come già in altri, aiuta pure quella.
La ringrazio del suo "tirarla in lungo". Un lampo nelle tenebre. Non sospettavo, e ne sono lieto, anche una sua simpatia per Jim Morrison che diceva: "tutti hanno un paio d'ali ma solo chi sogna impara a volare".
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