Recentemente ho visto la mostra che si sta tenendo a Palazzo Strozzi: Denaro e Bellezza. I banchieri, Botticelli e il rogo delle vanità. Un itinerario d’arte e anche di storia economica con l'esposizione di oggetti e opere d'arte appartenuti alla sfera del traffico commerciale.
È senz’altro vero – come sostengono anche i curatori della mostra – che l’arte religiosa (e dintorni) deve molto ai mecenati medievali e rinascimentali perché dovevano farsi perdonare i traffici usurai. Soggiungo che questo tipo di mecenatismo aveva anche altri scopi, quali la promozione e la celebrazione dei "padrini" di Firenze (i Medici, gli Strozzi, per esempio).
Per contrappunto possiamo apprezzare come i personaggi magnatizi contemporanei debbano invece accontentarsi di raccattare “capolavori” fatti di buchi e sbreghi plurimi in versione “spaziale”, orinatoi, gocciolamenti di colore e altre simili reliquie dei più improbabili “artisti” contemporanei.
“La superficie stessa della tela, interrompendosi in rilievi e rientranze, entrò in rapporto diretto con lo spazio e la luce reale”. Poetica degli astuti patrocinatori che riescono a piazzare a 9.018.789 euro un taglio sulla tela a dei ricchissimi idioti.
Trent’anni fa, al Beaubourg, potei ammirare la lisca di una sogliola attaccata a una tela bianca. Le spoglie della dicologlossa hexophthalma erano a portata di mano, tanto che se un gatto randagio, penetrato nel museo da chissà quale pertugio, avesse sottratto la lisca del pesce, l’indomani i media avrebbe gridato al furto sacrilego. Dopo qualche giorno alcune lischette di pesce rinvenute nei pressi del Centre avrebbero potuto provocare un acceso dibattito sull’autenticità e l'attribuzione al celebrato artista. È ciò che avvenne esattamente con le presunte sculture di Modigliani rinvenuto nel canale di Livorno.
Scriveva Ernst Gombrich in La storia dell’arte: «Marcel Duchamp acquistò fama e notorietà per aver preso un qualsiasi oggetto, che lui chiamò “preconfezionato”, firmandolo con il suo nome. In Germania, Joseph Beuys seguì le sue orme dichiarando di aver allargato o esteso la nozione di “arte”. Spero sinceramente di non aver contribuito a questa moda» (*).
Nella mostra di Firenze si fa menzione al ruolo che ebbe nelle fortune medicee l’allume. La cosa mi ha incuriosito e perciò in questi giorni sto leggendo dell’industria mineraria e della politica pontificia nei secoli XV-XVI a riguardo dell'allume, il quale per molti secoli ebbe un’importanza strategica per il suo largo impiego in molti settori merceologici.
Sono diversi i lavori che trattano l’argomento, ma un testo basilare è quello di Gino Barbieri, edito nel 1940, che si può recuperare senza troppa difficoltà e a modico prezzo presso librerie antiquarie (**).
Avevo già accennato in un post, per esempio, alla pratica di dumping praticata da Venezia per tutta l’epoca medievale per quanto riguarda il sale, così come della tratta degli schiavi (***), due tipologie mercantili che fecero la vera fortuna di Venezia (la rovina degli aquileiesi, degli scaligeri e di altri, va rintracciata proprio nel monopolio esercitato dai veneziani sul sale).
Un testo fondamentale di storia veneziana è quello del conte Giacomo Filiasi (1748-1830), in più volumi. Bisogna fare attenzione, ne esistono due edizioni, nella seconda, 1811, certi riferimenti scabrosi alle serenissime pratiche mercantili sono “evaporati”. Il Filiasi, inoltre, descrive nei suoi libri cose curiosissime e molto istruttive, per esempio dà lezione agli Enciclopedisti francesi sostenendo che un certo tipo di mulino (a mare) non fu introdotto per la prima volta a Dunkerque, così come pretendono loro, ma a Venezia erano impiegati già nelle epoche della “più crassa barbarie”.
Veniamo all’allume e al monopolio pontificio cui Lorenzo il Magnifico ebbe parte. Il minerale a quel tempo aveva un’importanza fondamentale come materia prima nel ciclo dell’industria tessile: serviva a sgrassare le fibre della lana che, resa soffice, poteva essere meglio lavorata; veniva impiegato soprattutto per fissare le tinte, quindi quale mordente nella stampa della tela. Serviva per la fabbricazione del blu di Prussia nelle sue gradazioni meno vivaci e per la produzione dei colori per le carte dipinte, le lacche, specie la robbia, alla chiarificazione e correzione delle acque potabili. Il suo impiego trovava posto anche nella lavorazione del cuoio e delle pelli (estrazione della gelatina). Eccetera.
L’importanza industriale e commerciale che l’allume ebbe allora può quasi paragonarsi a quella del petrolio al giorno d'oggi. Le miniere di allume, scarse in Europa, erano invece più numerose nell'Impero d'Oriente e ricche di un minerale di ottima qualità. La manifattura italiana ed europea dipendeva per la maggior parte dall'allume orientale. Il sito più importante si trovava in Turchia, a Focea (Foça), posta all’ingresso settentrionale del golfo di Smirne (oggi Izmir, non molto distante, seguendo l’autostrada tra i frutteti di pesche, dalle rovine di Efeso).
Dopo la caduta di Costantinopoli (1453), per un certo tempo l’Occidente dipese dalle miniere situate “in partibus infidelium”, e la fornitura annuale di questo minerale gravava sulla bilancia commerciale per circa 300.000 fiorini (3,54 grammi oro caduno), vale a dire oltre una tonnellata d’oro.
Sennonché un certo Giovanni di Castro, padovano d’origine, già a Costantinopoli tintore di panni importati dall’Occidente, scoperse, verso il 1462, nella regione della Tolfa (Civitavecchia), un sito del preziosissimo minerale (nel 1576, Giacomo Boncompagni, figlio legittimato di Gregorio XIII, acquistò la miniera dalla vedova di un discendente di G. Di Castro, tale Paolo Di Castro). Aveva notato nella zona una vegetazione e una natura del tutto simili a quelle delle colline di allumite d'Oriente. Le miniere di Tolfa ben presto si rivelarono molto ricche e il minerale da esse estratto si dimostrò di ottima qualità, nettamente superiore a quella degli altri giacimenti italiani ed europei e pari a quello orientale.
La scoperta provocò l'effetto di svincolare la produzione tessile italiana ed europea dall'importazione dell'allume turco. È a questo punto che entra in gioco il papato, la tutela del monopolio dell’allume di Tolfa, le scomuniche e le pene severissime per coloro che ardissero approvvigionarsi dai turchi. Scrive il Barbieri che si trattò del “più ardito programma di monopolio della storia economica di quei secoli”.
I Medici, segnatamente Lorenzo, avevano interesse anche nella nuova miniera d'allume scoperta a Volterra, da cui venne il noto e omonimo "massacro" ad opera delle truppe di Federico da Montefeltro, chiamato a "dirimere" la questione da Lorenzo: John M. Najemy, Storia di Firenze, pp. 437 e sgg..
(*) Leonardo editore, Milano 1995, pp. 600-01.
(**) Industria e politica mineraria nello Stato pontificio dal ‘400 al ‘600, Cremonese libraio editore, Roma 1940, br. in 8° grande, pp. 278. C’è un altro lavoro importante: Gustav Zippel, L’allume di Tolfa e il suo commercio, in Archivio della R. Società Romana di Storia patria, 1907. Su Agostino Chigi appaltatore delle miniere di Tolfa, vedi QUI.
(***) La tratta degli schiavi era molto diffusa. Scriveva il conte Filiasi nelle sue Memorie storiche de’ Veneti (ediz. 1797,vol. II, tomo 6°, p. 189):
Anastasio Bibliotecario racconta, che i loro navigli [veneziani] approdarono in quell'anno [745] alla foce del Tevere, cioè ad Ostia, per comperare degli schiavi, da vendere a' Saraceni. Per lungo tempo usavano un tale inumano commercio, e qualche antico documento ci fa sapere, che in Dalmazia, in Grecia , a Benevento , a Ostia compravano schiavi per venderli in Soria, Egitto e nell'Affrica. In somma facean eglino, come fanno Inglesi, Francesi e Olandesi in presente, comprando Negri al Senegal, e nella Guinea: per rivenderli in America.
Non sono mai scrupolose le Nazioni dedite al traffico allorché trattasi di guadagnare . Calcolando su tutto, e in tutto cercando il guadagno, l'umanità, e la giustizia devono sovente cedere il luogo all'interesse benché ingiusto. […] quantità d'uomini, donne, e putti, che comprati avean, per venderli a' Mussulmani. Nulladimeno a nostra giustificazione si osservi, che se rei eravamo di mercanteggiare sulla carne umana, ella era questa una reità comune allora con altri popoli. Erano pur rei egualmente coloro che schiavi davano a' nostri. […] come […] in Italia […] il mercato degli schiavi Cristiani, che facevano Romani, Toscani, e Genovesi vendendoli a' Greci, che rivendevali poi a' Saracini. Oltre ciò conviene osservare che non mai tutta la nazione approvò tale mercato, ma anzi più volte e Dògi, e là Dieta generale del popolo pubblicò severe Leggi per estirparlo. Nel 880 circa, il Dòge Orsa Partecipazio fece così, […] come Lottarlo Imperatore promise di vietare a' sudditi suoi il fare schiavi nel Ducato Veneziano per Venderli a' Pagani. Era dunque promiscua tale iniquità, derivante anche dall'uso allora tuttavia in vigore di tenere schiavi, e farne vendita, e compera liberamente. Vietavasi solamente il darli ai Saracini.
"La superficie stessa della tela, interrompendosi in rilievi e rientranze, entrò in rapporto diretto con lo spazio e la luce reale". Infatti come è noto ai tempi di Giotto gli affreschi erano talmente riottosi all'interazione con "la luce reale" che si doveva osservarli con i visori ad infrarossi.
RispondiEliminaGiovanni