Un tempo gli uomini erano costretti a lavorare perché
schiavi di altri, oggi perché sono schiavi dei loro bisogni, se reali o fittizi
non fa alcuna differenza. Il bisogno è il mezzo violento per costringere il
libero lavoratore ad essere laborioso. Sempre più laborioso, mano a mano che i
suoi consumi si diversificano e aumentano nella misura nella quale si sviluppa la
produzione, ossia il mercato delle merci.
Il lavoro del salariato, paragonato a quello dello
schiavo, diviene più produttivo. Lo schiavo lavora solo sotto il pungolo della
paura esterna, non per la propria esistenza che egli sa garantita. Il
lavoratore libero è spinto e pungolato dai suoi bisogni, non di meno che dalla
sua coscienza (cioè dall’idea) di essere liberamente autodeterminato, e questa
coscienza di responsabilità ne fa un lavoratore molto migliore dello schiavo,
anche perché deve battere la concorrenza degli altri venditori della stessa
merce, ossia della forza-lavoro.
La realtà storica, abbellita con incipit suadenti come
“libertà” e “democrazia”, non muta la sostanza reale della condizione del
moderno salariato in rapporto all’antico schiavo. Il rapporto di dominazione e
sottomissione si è modificato nella forma, diventata più libera perché di
natura puramente materiale, volontaria, meramente economica. Il proletario, che
crede effettivamente di essere un uomo libero e di agire in un contesto
democratico, incarna il modello ottimale dello schiavo moderno.
L’idea di essere realmente libero, porta il proletario
salariato a credere di poter mutare la propria condizione laddove vede un
effettivo miglioramento delle sue condizioni di lavoro e di vita, ma in realtà
si tratta di una diminuzione degli estremi della povertà in riferimento
“all’inebriante aumento di ricchezza e potenza” dal lato della classe dei
proprietari. Proporzionalmente la classe operaia rimane povera come e più di
prima.