Poco fa stavo leggendo dei commenti in un blog e ho esclamato: oddio, siamo ancora alla diatriba tra pensiero e linguaggio. All’assioma banale che “il pensiero non è possibile se non in forma di linguaggio”. Bestie! La coscienza, tratto specificatamente umano, dove cazzo l’avete dimenticata?
Né i pensieri né il linguaggio formano di per sé un proprio regno, essi sono soltanto la manifestazione della vita reale. Ma senza coscienza, il linguaggio e il pensiero restano a livello del branco.
Dov’è finita la coscienza reale, quella praticata da ciascuno di noi? Il bisogno di stabilire rapporti con individui della collettività, i soli che spingono all’appropriazione ed al perfezionamento di questo strumento, il linguaggio; ed il suo grado di appropriazione e di perfezionamento definisce, insieme alle possibilità reali, anche gli orizzonti e le forme possibili della coscienza reale, pratica, di ciascuno e di tutti.
Al grado zero c’è la coscienza del gregge, niente più che un istinto cosciente, una coscienza puramente animale della natura.
Gli individui appropriandosi del linguaggio si mettono in grado di agire e moltiplicare i loro rapporti entro la formazione sociale e con la natura circostante, e per questa via si allontanano sempre più dalla loro animalità originaria. Oppure vogliamo rimanere alla disputa trita e ritrita se viene prima la maionese e poi la gallina, e viceversa?
Rapporti sociali, dicevo, che denotano un processo che non si dà nel regno animale, un processo essenzialmente umano. La specificità del linguaggio umano consiste nell’essere una forma fondamentale dell’attività umana: attività verbale di pensiero che produce informazione extra-genetica in forma materiale di segno per soddisfare un bisogno essenziale del collettivo: la produzione di quei soliti stramaledetti rapporti sociali.