giovedì 22 novembre 2018

Un unico scopo lo anima


Nessuno crede che lo sviluppo storico segua una linea retta e continua. Nondimeno i fatti storici dimostrano un accrescimento che se non altro è dato dall’aumento demografico e dunque dalla crescita della produzione e degli scambi. In altri termini, si tratta dello sviluppo delle forze produttive, cioè di quelle forze del lavoro sociale che sole possono fornire, in prospettiva, la base materiale di una libera società umana (*).

Sappiamo che l’essenziale si presenta sempre in forma specifica. E l’essenziale, per quanto riguarda questo discorso, è prima di tutto il processo d’industrializzazione che alla lunga s’impone e supera necessariamente la produzione artigianale. Proprio per questo le idee di un ritorno a una decrescita felice (Marx le definiva robinsonate) sono utopistiche (**).

Se la produzione non avesse creato la base materiale per soddisfare non solo i bisogni sociali ma per assicurare, con il suo plusprodotto, tutti gli strumenti necessari alle attività non strettamente produttive, non vi sarebbe stato sviluppo umano. Nel creare il fondamento materiale di tutte le attività non direttamente produttive e la soddisfazione di tutti i bisogni non materiali, la produzione ha avuto e continuerà ad avere un ruolo fondamentale.

Per i “marxisti” d’antan è appena il caso di ricordare che in tutto il passato storico, e cioè fino agli albori del XX secolo, le trasformazioni dei rapporti economici si sono realizzate spontaneamente. Ciò non significa, a priori, che tali rapporti non possano essere trasformati con la lotta di classe, anzi. A ben vedere è proprio questo uno degli aspetti essenziali e decisivi delle trasformazioni storiche; tuttavia ciò non è mai avvenuto e mai accadrà sulla base della semplice azione consapevole e variamente motivata degli individui. Non con esiti stabili e positivi. Infatti, tale aspetto della dinamica storica, la trasformazione dei rapporti di produzione, deve sempre scaturire dallo sviluppo delle forze produttive. Il movimento storico non è quello del salto della quaglia.

Se le forze produttive diventano forza motrice dello sviluppo sociale nella misura in cui soddisfano i bisogni della società stessa, tuttavia lo sviluppo delle forze produttive da solo non basta, anche se costituisce la condizione imprescindibile di ogni radicale trasformazione. Pertanto, concepire come necessità riconosciuta lo sviluppo delle forze produttive è fondamentale, ma inferire che le trasformazioni storiche dipendono solo da tale sviluppo porta al fatalismo storico. La fondamentale cognizione marxista stabilisce che nello sviluppo sociale esiste un complesso di leggi che si realizza all’interno e attraverso un insieme di attività umane liberamente motivate e dettate dai loro interessi.

Nella rivoluzione industriale, ad esempio, è facilmente misurabile tutta la complessità di un processo che non si limita a un mutamento nella produzione e nella distribuzione della proprietà, ma coinvolge e trasforma radicalmente tutta la struttura sociale tradizionale e influisce profondamente anche sugli orientamenti ideologici, come del resto non mancava di sottolineare il giovane Marx nel Manifesto. In altri termini, l’alienazione del lavoro capitalistico si estende a tutte le sfere della vita sociale e dunque anche a tutte le zone della coscienza.


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A ben vedere, quanto mai prima d’ora, la sola attività umana che può avere un significato sociale è quella che corrisponde allo sviluppo di tutti i bisogni sociali o può risvegliare tali bisogni. Ad un grado elevato dello sviluppo delle forze produttive quale è stato raggiunto oggi, l’attività non produttiva e la soddisfazione dei bisogni non materiali ad essa collegati raggiunge un’ampiezza maggiore della produzione stessa. Lo sviluppo delle forze produttive ha raggiunto incontestabilmente un tale livello, e infatti nelle società di più antica industrializzazione ben oltre due terzi della popolazione attiva si occupa di attività non direttamente produttive o non produttive affatto. L’estensione di queste attività cresce in assoluto e in percentuale, e continuerà a crescere anche in quei paesi oggi considerati come le fabbriche del mondo.

Questa maggiore importanza del ruolo delle attività non direttamente produttive non può essere vista come negazione del ruolo fondamentale della produzione: al contrario, solo in base all’alta produttività del lavoro e al suo incremento la quantità dei bisogni sociali materiali e non materiali può aumentare, quindi il tempo libero allungarsi, per esempio, e portare in prospettiva a una radicale trasformazione sociale, al superamento delle tradizionali forme di alienazione peculiari del lavoro che produce merci, ecc..

In tal senso, quanto più un’attività produttiva proporzionalmente decrescente è in grado di soddisfare gli accresciuti bisogni – materiali e immateriali – tanto maggiore è l’influenza sulla configurazione dei bisogni e degli interessi umani acquisita anche nell’attività non direttamente produttiva. E tuttavia ciò richiede, per realizzarsi in pieno, il superamento degli attuali rapporti sociali, i quali sono l’espressione del dominio di classe, vale a dire della sottomissione dei non proprietari alla schiavitù del rapporto sociale capitalistico, il quale ha un unico scopo che lo anima, assoluto e ossessivo: l’autovalorizzazione del capitale (***).

(*) Per quelli che spaccano un capello in frazioni atomiche: ciò vale in senso generale; è chiaro che in piccole comunità isolate, o in situazioni geografiche, climatiche e biologiche particolari, si può assistere a una sostanziale stagnazione dello sviluppo economico e umano.

(**) Secondo le concezioni di questi poverelli, variamente declinate dagli anni Sessanta ad oggi, lo sviluppo tecnico e produttivo – e non le particolari forme d’impiego da parte del capitale – rappresenterebbe l’origine di tutte le contraddizioni. Gli uomini, la società (concetti astratti se non precisati) dovrebbero “ritornare alla natura” o, secondo l’ultima versione, a un’economia controllata e selettiva, a una riduzione volontaria della produzione economica e dei consumi, pur sempre sotto l’egida del modo di produzione capitalistico, che in tal modo resterebbe intangibile nei suoi fondamenti. Ci vuole molta pazienza con questi poverelli, troppa anche per chi la vive come vocazione.

(***) “Le funzioni che il capitalista esercita sono solo le funzioni del capitale stesso esercitate con coscienza e volontà – del valore che si valorizza succhiando lavoro vivo. Il capitalista funziona solo come capitale personificato, il capitale quale persona, allo stesso modo in cui il lavoratore funziona solo quale lavoro personificato che per lui è tormento, sforzo, che però appartiene al capitalista quale sostanza che crea e aumenta di ricchezza.” (Il Capitale, Libro I, capitolo VI, MEOC, vol. XXXI, tomo II).

4 commenti:

  1. Questi ultimi post contengono una grande tensione maieutica, perché stanno indicando delle linee guida per tentare di superare il fatalismo capitalista.

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    1. grazie. sempre generoso.
      non si tratta solo di fatalismo o di rassegnazione, ma anche del fatto che noi tutti ci troviamo comodi malgrado tutto. e però nulla è per sempre come dovrebbe insegnarci anche la storia recente, cioè quella della prima metà del XX secolo.
      (ho corretto un paio di errori di battuta dovuti a tutt'altra tensione, come sai)

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  2. Grazie, ben spiegata la differenza tra Essere o Avere.
    Stay Human. Solidarietà&Cooperazione vs Individualismo&Divisione.
    Affetti vs Passioni. Appagamento vs Godimento.

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  3. bè la socializzazione del lavoro è così spinta che potrebbe davvero a uno scatto più che un salto, il vedere che la combinazione di carte è già tutta sul tavolo

    l’essenziale si presenta sempre in forma specifica:
    un ottima osservazione alla faccia delle vecchie ontologie

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