«Il giorno che cambiò tutto gli faceva così male un
molare che credeva di impazzire. Era rimasto a letto tutta la notte e aveva
ascoltato la sua affittacamere russare nella stanza accanto. Verso le sei e
mezzo, quando diede un’occhiata stanca alla luce dell’alba, trovò la soluzione
a uno dei problemi più antichi del mondo.
Barcollava per la stanza come un ubriaco. Doveva scriversela
subito, non poteva dimenticarla. I cassetti non volevano aprirsi, di colpo la
carta si era nascosta, il pennino si era spezzato e faceva delle macchie, e per
giunta era inciampato nel vaso da notte colmo. Ma, dopo mezz’ora di
scarabocchi, tutto fu scritto su fogli spiegazzati, sui margini di un libro di
greco e del tavolo. Posò il pennino. Respirò a fatica. Si rese conto di essere
nudo, si stupì della sporcizia sul pavimento e della puzza. Si sentì raggelare.
Il mal di denti era insopportabile.
Lesse. Rifletté su ogni riga, seguì la dimostrazione,
cercò degli errori e non ne trovò. Accarezzò l’ultima pagina e guardò il suo
storto, abbozzato poligono a diciassette lati. Per oltre duemila anni, l’uomo
aveva costruito triangoli e pentagoni regolari con la riga e il compasso. Costruire
un quadrato o raddoppiare gli angoli di un poligono era un gioco da ragazzi. E,
combinando un triangolo e un pentagono, si otteneva una figura geometrica con
quindici lati. Non si era mai riusciti ad andare avanti.
E adesso: diciassette. Per giunta, intuiva un metodo
che gli avrebbe permesso di andare anche oltre. Ma doveva ancora trovarlo.
Si recò dal barbiere. Questi gli legò le mani, promise
che non gli avrebbe fatto male e con un gesto rapido gli infilò la pinza in
bocca. Già solo al primo contatto, un evidente acuirsi del dolore lo fece quasi
svenire. Provò a raccogliere i pensieri, ma poi la pinza afferrò il dente,
qualcosa gli scattò nella testa, e solo il sapore dolce del sangue e il
martellare nelle orecchie lo riportarono nella stanza davanti all’uomo con il
grembiule, che chiese se gli aveva fatto male oppure no.
Per tornare a casa dovette appoggiarsi ai muri delle
case, le ginocchia cedevano, i piedi non gli ubbidivano, aveva le vertigini. Entro
un paio d’anni ci sarebbero stati medici per la dentatura, che avrebbero curato
il dolore e non sarebbe stato necessario estrarre ogni molare infiammato. Presto
il mondo non sarebbe più stato pieno di bocche sdentate. E vaiolo o senza
capelli. Era stupito del fatto che nessuno, tranne lui, pensasse queste cose. Per
la gente era ovvio che il mondo fosse com’era.»
Daniel Kehlmann, La
misura del mondo, Feltrinelli, pp. 69-70.
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