mercoledì 14 novembre 2018

Uno dei problemi più antichi del mondo


«Il giorno che cambiò tutto gli faceva così male un molare che credeva di impazzire. Era rimasto a letto tutta la notte e aveva ascoltato la sua affittacamere russare nella stanza accanto. Verso le sei e mezzo, quando diede un’occhiata stanca alla luce dell’alba, trovò la soluzione a uno dei problemi più antichi del mondo.

Barcollava per la stanza come un ubriaco. Doveva scriversela subito, non poteva dimenticarla. I cassetti non volevano aprirsi, di colpo la carta si era nascosta, il pennino si era spezzato e faceva delle macchie, e per giunta era inciampato nel vaso da notte colmo. Ma, dopo mezz’ora di scarabocchi, tutto fu scritto su fogli spiegazzati, sui margini di un libro di greco e del tavolo. Posò il pennino. Respirò a fatica. Si rese conto di essere nudo, si stupì della sporcizia sul pavimento e della puzza. Si sentì raggelare. Il mal di denti era insopportabile.


Lesse. Rifletté su ogni riga, seguì la dimostrazione, cercò degli errori e non ne trovò. Accarezzò l’ultima pagina e guardò il suo storto, abbozzato poligono a diciassette lati. Per oltre duemila anni, l’uomo aveva costruito triangoli e pentagoni regolari con la riga e il compasso. Costruire un quadrato o raddoppiare gli angoli di un poligono era un gioco da ragazzi. E, combinando un triangolo e un pentagono, si otteneva una figura geometrica con quindici lati. Non si era mai riusciti ad andare avanti.

E adesso: diciassette. Per giunta, intuiva un metodo che gli avrebbe permesso di andare anche oltre. Ma doveva ancora trovarlo.

Si recò dal barbiere. Questi gli legò le mani, promise che non gli avrebbe fatto male e con un gesto rapido gli infilò la pinza in bocca. Già solo al primo contatto, un evidente acuirsi del dolore lo fece quasi svenire. Provò a raccogliere i pensieri, ma poi la pinza afferrò il dente, qualcosa gli scattò nella testa, e solo il sapore dolce del sangue e il martellare nelle orecchie lo riportarono nella stanza davanti all’uomo con il grembiule, che chiese se gli aveva fatto male oppure no.

Per tornare a casa dovette appoggiarsi ai muri delle case, le ginocchia cedevano, i piedi non gli ubbidivano, aveva le vertigini. Entro un paio d’anni ci sarebbero stati medici per la dentatura, che avrebbero curato il dolore e non sarebbe stato necessario estrarre ogni molare infiammato. Presto il mondo non sarebbe più stato pieno di bocche sdentate. E vaiolo o senza capelli. Era stupito del fatto che nessuno, tranne lui, pensasse queste cose. Per la gente era ovvio che il mondo fosse com’era.»

Daniel Kehlmann, La misura del mondo, Feltrinelli, pp. 69-70.


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