Nella generalizzazione teorica che segue, va tenuto
conto che essa si esprime necessariamente con concetti attraverso i quali si cerca
di dare conto della sostanza generale di una quantità di fenomeni storici che
altrimenti analizzati in profondità e ampiezza non troverebbero posto in un
post.
*
Partiamo da degli esempi concreti.
Cuba, dopo la rivoluzione castrista, si trovò ad
affrontare problemi economici di difficile soluzione, e non solo a causa del
blocco economico e commerciale decretato dagli Usa, che ebbe comunque effetti
assai negativi e persistenti. Due problemi assillavano in particolare la
dirigenza del paese: le scarse risorse disponibili per gli investimenti da un
lato e la scarsa produttività del lavoro dall’altro. Va tenuto presente che all’interno
del gruppo dirigente, per dirla sbrigativamente, vinse la linea che puntava prevalentemente
sullo sviluppo dell’agricoltura (Castro), mentre uscì sconfitta quella che
puntava sull’industrializzazione (Che Guevara).
Per ottenere capitali e dunque anzitutto valuta da
destinare agli investimenti si puntò sulla vendita dei tradizionali prodotti
dell’agricoltura (canna da zucchero, tabacco) e della zootecnia (un cospicuo
patrimonio bovino), nonché sugli aiuti economici e tecnici dei paesi del blocco
sovietico e della Cina. Prima dall’allora lo zucchero veniva acquistato dagli
Stati Uniti d’America a un prezzo di favore; in seguito venne venduto ai paesi “fratelli”
a un prezzo notevolmente inferiore a quello di favore.
Sull’isola il razionamento dei beni di prima
necessità durò molto a lungo: si esportava la carne bovina fresca (in cambio di
valuta pregiata) e s’importava quella congelata, e anche pesce surgelato (Cuba
non disponeva ancora di una flotta da pesca adeguata), entrambi sottoposti a
razionamento. La nazionalizzazione delle terre e delle attività industriali e
commerciali non favoriva di certo la produttività, in assenza di un reale
interesse dei singoli produttori. Per incrementare la produttività del lavoro
si faceva ricorso alla propaganda politica (incentrata sulla cosiddetta
“emulazione”) e soprattutto sul cottimo (pratica che dava qualche buon risultato).
In buona sostanza anche a Cuba fu riproposto lo
schema economico che caratterizzava i cosiddetti paesi comunisti del blocco
sovietico e la Cina maoista. La Germania dell’Est, la DDR, per esempio, era tra
i paesi del blocco sovietico più virtuosi in tema di produttività. E tuttavia la
produttività non era per nulla soddisfacente e paragonabile con quella della
Germania dell’Ovest. Anche nella DDR si ricorreva al cottimo, ma solo entro
certi limiti ai quadri e agli operai conveniva lavorare e produrre di più per
ottenere salari più elevati della media. Era precluso, per esempio, l’acquisto
di alloggi più confortevoli di quelli assegnati, posto che ve ne fossero di
disponibili, la libera scelta d’acquisto di un’auto era preclusa, così come
quella dei beni durevoli prodotti in occidente.
In questi paesi non esisteva una vera e propria
economia di mercato, abbandonata del tutto negli Anni Venti con la fine della
NEP (Lenin aveva previsto che la Nuova
politica economica potesse durare “decenni”). L’economia era pianificata a
livello centrale e gli investimenti erano destinati prioritariamente all’industria
pesante e degli armamenti. Un posto di lavoro era assicurato a tutti, ma i
salari erano generalmente bassi e soprattutto la penuria dei beni di consumo fu
costantemente il più serio problema per la popolazione, mentre l’alta
burocrazia statale e i dirigenti di partito potevano rifornirsi di merci in
negozi a loro riservati. Gli alloggi e perfino le auto, come detto, erano
assegnati d’ufficio, mentre l’acquisto di un elettrodomestico, quando
disponibile, poteva diventare una questione non semplice. Il generale benessere
economico occidentale, che si veniva affermando nel dopoguerra nelle economie
di libero mercato, per i paesi a capitalismo di Stato restava un miraggio.
Dal punto di vista economico il capitalismo di Stato,
spacciato come comunismo, fu un fallimento totale e senza rimedio. Tutto ciò
ebbe origine da una manifesta deviazione dai fondamenti del marxismo, anche se
negata da quei regimi.
Il comunismo – scriveva Marx – non è un ideale al quale la
realtà dovrà conformarsi, non è uno
stato di cose che debba essere instaurato. Il comunismo è il movimento
reale che abolisce lo stato di cose presenti. E ciò presuppone lo sviluppo universale della forza
produttiva e le relazioni mondiali che il comunismo implica.
Marx, per quanto riguarda lo sviluppo della struttura
sociale economicamente determinata, si è limitato ad affermare l’influenza
decisiva, nel lungo periodo, della base economica sulla sovrastruttura sociale.
Si è concentrato sulle trasformazioni qualitative, rivoluzionarie del sistema
sociale, sui contrasti d’interesse fra le classi sociali, ma non ha affrontato –
e non ha voluto esplicitamente affrontare (vds. in part. la critica al
programma di Gotha) – la problematica concreta e nel lungo periodo
dell’evoluzione storica. Tantomeno ha posto esagerata importanza sui “salti
rivoluzionari” nella storia (i sofferti tentativi di risposta alla lettera di
Vera Zasulič in tema dell’obščina, ne
sono una testimonianza incontestabile). Non era e non si sentiva un profeta.
Era ben conscio che l’antagonismo degli interessi e
l’insoddisfazione degli oppressi hanno sempre trovato espressione nelle più
diverse lotte politiche e sociali (travisate anche in lotte religiose o
diverse), in resistenze e rivolte, ma era altrettanto ben consapevole che con
queste lotte soltanto non si può ottenere la trasformazione dei rapporti
economici dati; così come sarebbe nondimeno errato assumere che le classi
sociali che lottano e si ribellano siano sempre portatrici di nuove forme di
produzione: né gli schiavi, né i plebei, né i servi della gleba e nemmeno gli
artigiani feudali erano direttamente interessati a stabilire nuovi modi di
produzione.
L’impostazione leniniana e poi staliniana e maoista
fu una interpretazione unilateralmente semplificata dello sviluppo storico, ossia quella
di un determinismo economicistico che non poteva portare che cattivi frutti
nelle condizioni date.
I rapporti di proprietà dei mezzi di produzione sono,
tra i rapporti di produzione, quelli essenziali, poiché da essi dipende la
forma di tutti gli altri. Tuttavia occorre non confondere la semplice
determinazione giuridica (che è solo la forma esterna dei rapporti di produzione) con il
movimento reale dei rapporti di proprietà nel processo produttivo. In altri
termini: non è sufficiente sapere in mano a chi nominalmente si trovano i mezzi
di produzione, ma è indispensabile sapere anche come vengono impiegati nel
processo della produzione.
L’esempio sovietico e cinese, così come altri
equipollenti, mostra come il
trasferimento della proprietà giuridica dei mezzi di produzione allo Stato, non
comporta necessariamente anche la metamorfosi rivoluzionaria
dell’organizzazione della produzione e della società. Tanto più che il socialismo non è un modo di produzione particolare.
*
Negli ultimi decenni è cambiato il quadro
geopolitico, economico e sociale a livello globale. La rivoluzione tecnologica,
segnatamente quella elettronica, non ha mutato solo i segni e gli alfabeti,
ossia gli strumenti e i modi della comunicazione, fatto di per sé denso di
conseguenze, ma ogni aspetto delle nostre vite, il nostro modo di pensare, le nostre aspettative e i desideri. Ed
è altrettanto chiaro che l'aumentata produttività del lavoro fa in modo che ogni singola merce contenga sempre meno lavoro immediato, fatto questo che diventa sempre più devastante per la tenuta degli
equilibri sociali.
Perfino la famosa cuoca di Lenin troverà sempre meno
impiego nel proprio lavoro. Infatti, s’è vero che sarà sempre necessario che
qualcuno prepari il pranzo, è altrettanto vero che produzione, confezione e
consumo del cibo sempre meno hanno luogo in ambito domestico.
Il trasferimento di ogni potere, così come il monopolio
di ogni sapere, al capitale, la crescente polarizzazione tra ricchezza e
povertà, la precarizzazione generale delle condizioni di vita, il montare della
protesta e rabbia sociale, sono tutti aspetti che costituiscono un nodo
esplosivo dei rapporti di produzione capitalistici operanti su scala globale. Un
nodo che mette in crisi la “democrazia”, ma non cambia di per sé di segno i
rapporti di produzione.
E d’altra parte gli specialisti dell’ideologia
borghese hanno lavorato bene: non si vedono in campo forze politiche che
assumano nel proprio programma la transizione verso un nuovo sistema di
produzione e distribuzione della ricchezza sociale, non solo con forza uguale
alla trasformazione dei rapporti di proprietà, ma nemmeno come generico e
nominale obiettivo di lungo periodo. La trasformazione dei rapporti di
proprietà, senza la traccia di un programma di superamento delle condizioni
borghesi, lascia insoluta la sostanza del problema.
In ciò sta anzitutto la crisi del riformismo, in ciò
il successo delle illusioni che deviano dalla realtà e promettono meraviglie
lungo la scorciatoia delle semplificazioni.
Di là delle celebrazioni di rito, si sono dimenticate
troppo presto le cause vere e profonde che hanno dato origine alle tragedie del
Novecento. Per quanto ci riguarda da vicino, si è dimenticato che il fascismo
fu in origine programmaticamente rivendicativo sul piano sociale e repubblicano
su quello istituzionale, salvo poi sapersi bene adattare al potere e agli
interessi dei padroni d’allora e di sempre.
grazie del post
RispondiEliminacapitalismo di stato, l' impostazione castrista piuttosto che leniniana, il tradimento dei principi ecc non bastano più
e' che quelle relazioni mondiali che il comunismo implica non sono uno stadio successivo al singolo stato socialista ma ne sono una premessa vincolante (e alla lunga mortale per il leviatano), a tutti i livelli, tutti estranei alle vecchie comunità contadine e rovesciati rispetto al rapporto imperialista tra stati imposto dal valore di scambio (vedi la necessità ieri dell' urss e oggi della cina a proiettarsi fuori dai confini a caccia di plusvalore)
nel continuum del dominio, quel che esce dalla porta rientra dall finestra
infatti senza quella premessa e lo sviluppo pieno delle forze produttive non vi sono le condizioni, si resta nella penuria e nelle contese tra imperialismi
Eliminagrazie per il commento, dopo tre giorni ci voleva. ed è meglio un solo commento come il tuo che dieci sciocchezze
Il problema, giustamente, non è solo la proprietà, ma la gestione dei mezzi di produzione. Cambiare sia la struttura che la sovrastruttura: come? Attraverso l'emancipazione e la cultura, cancellando i cavalli di troia del capitalismo: il consumismo e l'apparire. Essere o Avere?
RispondiEliminamio caro Fromm, lei ha ragione. Per una risposta legga il mio prossimo post.
Elimina