martedì 8 ottobre 2019

Ne pagherà il prezzo



Ancora qualche riga sulla polemichetta innescata dalla reductio ad unum tra nazismo e comunismo, incentrata sul concetto storicamente fuorviante di “totalitarismo”. Tanto più fuorviante in un’epoca che è la meno adatta ad offrire un giudizio onesto su sé stessa: i suoi retori umanisti sono troppo impegnati nella conservazione dell’ordine vigente e a presentare se stessi come incarnazione della razionalità e del bene.

Se l’epoca stessa si rivela spiritualmente povera e disillusa, disperata e disorientata, è allora inevitabile e comprensibile che ci si sforzi di far apparire pericolosa ogni prospettiva di radicale cambiamento. Parafrasando la celebre locuzione extra ecclesiam nulla salus, i diaconi del “libero mercato” minacciano l’inferno del “totalitarismo” perché è su un tappeto di cadaveri che si procede spediti verso il sole dell’avvenire (viceversa il capitalismo s’è affermato su scala globale mettendo in atto i detti evangelici).

Eh sì, perché il comunismo è diabolico inganno: la profezia di un mondo perfetto porta dritti al totalitarismo, ai grandi cimiteri sotto la luna. È ciò che è accaduto indubitabilmente nel corso del secolo scorso. Il male è in radice, affatto nell’idea stessa del comunismo. Così ci raccontano.


Ma quando mai, se non nei discorsi di qualche balordo in osteria e molto più di frequente nei salotti borghesi, l’ideale del comunismo è stato inteso come un mondo perfetto e intonso dal male, e non invece come un lungo processo storico, irto di difficoltà e contraddizioni, che porta a un mondo fatto di sostenibilità, equilibrio e giustizia sociale? 

Quanto alle esperienze del Novecento, esse si sono misurate necessariamente con una condizione storica che non lasciava sostanziali alternative a ciò che effettivamente è avvenuto. Lenin stesso, a un certo punto, si augurava per i decenni a seguire un capitalismo di stato (per le citazioni vol. XXXIII delle Opere complete).

E poco importa a questa gente anche l’essenziale del metodo d’indagine scientifica di Marx, che non descrive il movimento relativamente caotico della realtà fenomenica, bensì elabora un modello logico dinamico capace di simulare concettualmente il possibile movimento di una tendenza storica necessaria nelle sue contraddizioni e nelle sue cause antagoniste. Lo fa dapprima dialetticamente, e poi anche matematicamente per i refrattari alla dialettica!

Il concetto di tendenza non è pura proiezione in avanti della realtà fenomenica, ma è riflesso anticipante della realtà empirica. In altri termini, spingendo la simulazione concettuale del modo di produzione capitalistico al punto limite in cui le contraddizioni giungono alla loro piena maturità, Marx si mette nella condizione migliore per fissare una previsione di una situazione futura.

Senza tuttavia che il “crollo” della “produzione basata sul valore di scambio” si lasci trasferire facilmente, spontaneamente, automaticamente, pacificamente, dal modello logico alla storia reale, anche se è proprio l’indagine scientifica del movimento storico reale del modo di produzione capitalistico ad aver consentito la costruzione teorica del modello che lo prevede.

Ed è proprio dal movimento storico reale che Marx estrae una lezione troppo trascurata dal soggettivismo spontaneista, il cui errore fondamentale è stato proprio quello di credere che il comunismo sia uno stato di cose che debba essere instaurato (e una volta per sempre) non appena si presenta una situazione di empasse del sistema, non tenendo conto che solo a un dato grado di sviluppo delle forze produttive s’innesca quel movimento reale che sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura:

«Una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza».

In buona sostanza Marx ci dice che la storia non fa salti, ossia che non si possono forzare i rapporti di produzione in essere finché essi corrispondono adeguatamente a un determinato grado di sviluppo delle forze produttive materiali.

Spartacus non perse la sua battaglia emancipatrice solo a causa della superiorità delle forze che gli si contrapponevano sul terreno dello scontro armato. Se le armi della rivolta schiavista avessero prevalso contro quelle di Roma, l’ordine sociale che si sarebbe stabilito avrebbe necessariamente riprodotto, prima o poi, gli stessi rapporti sociali corrispondenti alla struttura economica di quella formazione sociale, salvo un più o meno esteso ricambio di figure nei ruoli di potere e ricchezza.

Che avrebbe dovuto fare Spartaco, starsene con le mani in mano, accettare la propria condizione, rassegnarsi? Qui sarebbe necessario dire qualcosa sulla “teoria dei tempi”, ma mi pare di averlo già fatto in altre occasioni e non voglio allungare troppo il brodo. Di Spartaco dobbiamo ammirare il coraggio e la determinazione, ricordarne l’impresa e celebrarne la memoria.

Nello stadio raggiunto dalle forze produttive, nella materialità del nostro presente, sono già venuti a maturazione nuovi potenziali rapporti di produzione. Tuttavia, la piccola borghesia, ossia la classe sociale più numerosa nelle aree di più antica industrializzazione, è polverizzata, atomizzata, parcellizzata, oggettivamente proletarizzata e senza prospettive, estremamente vacillante nelle sue opinioni, non in condizione di mutare autonomamente le proprie convinzioni ideologiche, e perciò resterà ancora per molto tempo sotto il dominio e l’influenza dell’ideologia dominante. E ne pagherà il prezzo.

12 commenti:

  1. "Nello stadio raggiunto dalle forze produttive, nella materialità del nostro presente, sono già venuti a maturazione nuovi potenziali rapporti di produzione".

    Potrei sapere, cioè, potrebbe farmi un esempio di questi nuovi potenziali rapporti di produzione?
    Grazie!

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    1. pensi solo alle potenzialità offerte dalle nuove tecnologie, alla concentrazione e centralizzazione dei capitali ecc

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  2. Perché nel finale punta l'attenzione sulla piccola borghesia, classe di per sé conservatrice e non sul proletariato, la classe oggettivamente rivoluzionaria?

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    1. "ossia la classe sociale più numerosa nelle aree di più antica industrializzazione"
      vogliamo chiamarla aristocrazia salariata?
      non facciamoci lusingare da schemi e categorie ottocentesche, del resto il proletariato nelle aree metropolitane non produce più figli, è residuale

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    2. Fra pochi anni, molto pochi, il suo schema salterà tutto ... la proletarizzazione della piccola borghesia procede ad un ritmo serrato. La produzione di figli è condizione necessaria per l'appartenenza alla classe proletaria?

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    3. la proletarizzazione della piccola borghesia procede ad un ritmo serrato? e io cos'ho scritto?
      il riferimento ai figli era più che altro un rif. all'etimologia del termine proletariato

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  3. Ancora un "pezzo" chiarificatore,con una valutazione seria di cosa sia oggi l'aristocrazia della classe operaia "residuale" e della questione dei tempi.
    Impossibile eludere quanto scritto,per chi sia intellettualmente onesto, o almeno comprenda di cosa si sta parlando.

    caino

    ps. All'epoca nessuno ,nemmeno Marx ed Engels potevano immaginare le conseguenze dello sviluppo tecnologico attuale (non erano pizie, ma scienziati sociali).
    Invece nella sostanza il loro metodo rimane per il momento decisamente ancora attuale , per chi vuole intendere e non travisare con metodi da talk show

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  4. Troppo comodo cancellare il passato e far partire tutto dal XX secolo. La vera realtà della società in cui viviamo è data, secondo Marx, dai conflitti socio-economici, che vedono sempre contrapposte una classe dominante (quella che controlla i mezzi di produzione) e una classe oppressa: ed è questa struttura economica a determinare tutte le altre manifestazioni umane, incluse le idee, che nel loro complesso costituiscono la sovrastruttura ideologica. Per Marx l'ideologia è una rappresentazione capovolta della realtà sociale, il cui scopo è elaborare le illusioni della classe dominante su sé stessa e nascondere i suoi interessi particolari dietro la maschera di ideali universali. Giudicare un'epoca o una classe sociale dalle sue idee ‒ ossia dai sistemi filosofici, morali, politici e giuridici che elabora ‒ equivale a giudicare un individuo da ciò che dice o pensa di essere e non da ciò che è realmente.
    Mentire, inoltre, – come ha sostenuto Kant – comporta, trattare gli altri come strumenti, e quindi mancare di rispetto nei confronti degli esseri umani, violando così i requisiti minimi della convivenza sociale. La bugia mina il vincolo basato sulla fiducia reciproca tra i governati, e tra questi ultimi e i governanti. È proprio questo vincolo morale – non giuridico- formale – ad essere in crisi oggi, laddove la menzogna sembra aver compromesso quella dimensione culturale, ossia etica, propria degli esseri umani, e la loro politicità, ovvero la capacità di vivere con i propri simili. La Bugia come instrumentum regni.

    http://sbilanciamoci.info/il-diritto-al-futuro-contro-il-capitalismo-della-sorveglianza/

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    1. Nel caso ti interessasse, su Spotify puoi trovare il podcast Exponential View, di per sé interessante a prescindere. Nella della puntata del 19 giugno intervista l'autrice del libro.

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    2. ah, sei tra noi!
      grazie della segnalazione. il tema trattato è interessante, tutto molto coinvolgente e apparentemente convincente. solo che in premessa c'è un errore, un errore del quale quasi nessuno s'interessa.
      ciao

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    3. Sempre presente! silente quasi sempre per mancanza di tempo. Non ho letto bene l'articolo postato qui sopra, ora leggo bene

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