Quante cose si sono dette e scritte sul famoso summit avvenuto nel 1992 sul panfilo Britannia, evento simbolico che ha dato il via alla massiccia stagione di privatizzazioni delle aziende statali che operano in settori assolutamente centrali per la consistenza economica, come le grandi banche, l’IRI, l'Eni e Telecom Italia.
Ieri, sul Sole 24 ore (e dove sennò?) ne ha parlato Giovanni Tamburi, “imprenditore- investitore innamorato delle imprese e delle strategie”. Ma soprattutto componente “della prima commissione presieduta da Luigi Cappugi, espressione del ministero del bilancio guidato da Paolo Cirino Pomicino durante l’ultimo governo Andreotti, [il quale] conserv[ò] la posizione durante il governo di Giuliano Amato, che portò avanti con grande decisione il progetto di privatizzare tutto il possibile”. Dunque, un tizio che le cose le ha viste da vicino, tanto è vero Tamburi partecipò all’organizzazione della crociera sul Britannia: “Il Britannia attraccò a Civitavecchia, Mario Draghi direttore generale del Tesoro salì a bordo, lesse agli investitori stranieri il discorso sul programma di privatizzazione e scese subito dallo yacht”.
Che un simile evento sia avvenuto su una nave privata battente bandiera straniera è già di per sé sintomatico, perciò che Draghi sia sceso dal battello subito dopo aver descritto il piano di svendita, come s’affretta a precisare Tamburi, è un’espressione che ha il fetore di una excusatio non petita. L’epoca era quella del Trattato di Maastricht, della liquidazione di un modello economico a forte impronta pubblica che, a causa del patronage politico, era fuori dalla logica economica, tanto che era opinione generalizzata che non si poteva evitare un ampio processo di privatizzazione.
Le motivazioni alla base della vasta operazione di privatizzazione erano queste: il settore pubblico era diventato una palude d’interessi politici e di intrecci corruttivi; la privatizzazione avrebbe contribuito ad attenuare l’entità del debito pubblico che negli anni Ottanta appariva fuori controllo, un punto questo su cui insisteva particolarmente l’Unione Europea (accordo Andreatta-Van Miert); inoltre, si pensava esistesse in Italia una riserva di imprenditorialità che con le privatizzazioni avrebbe avuto occasione di dispiegarsi senza ostacoli.
Questi propositi mercatisti andranno in grandissima parte delusi. Pur essendo l’Italia quasi in testa alle classifiche per valore delle privatizzazioni operate dal 1985 al 2000, con i ricavi di esse il debito pubblico venne appena scalfito. Inoltre, la decisione di destinare i proventi delle privatizzazioni alla riduzione del debito pubblico piuttosto che agli investimenti si è rivelata contraddittoria. Quanto all’imprenditoria privata, essa si è dimostrata incapace di svolgere un ruolo strategico e aggregante. La vicenda dell’acciaieria di Taranto e dei Riva è ampiamente nota, così come quella dei Benetton, che hanno puntato senza riserve alla rendita con le autostrade. Discorso a parte meriterebbe la vicenda dei cosiddetti “capitani coraggiosi”, che conquistano la Telecom con un leverage.
Storicamente lo Stato ha compensato un capitalismo privato che, in momenti chiave dello sviluppo del Paese, ha dimostrato una mancanza di coesione e privilegiato guadagni a breve termine. Il disimpegno pubblico è stato disastroso per l’industria italiana. Le multinazionali straniere hanno acquisito aziende anche in settori strategici un tempo considerati vitali (informatica, prodotti chimici, elettronica di consumo, alta tecnologia e siderurgia). La presenza di capitali stranieri non è di per sé problematica. Tuttavia, sorgono problemi quando gli interessi strategici di un Paese sono subordinati a potenze straniere. Il trasferimento di aziende nazionali a proprietà straniera implica una perdita di controllo su decisioni cruciali: l’ubicazione dei siti produttivi (leggi occupazione), la ricerca, la distribuzione degli utili e il reinvestimento.
La fine del modello di economia mista (che andava riformato, non annientato), unita al calo della domanda interna a causa della compressione dei salari (a vantaggio delle rendite finanziarie e delle imprese esportatrici), ha portato a una riduzione ancora più drastica delle dimensioni aziendali. Ciò che è rimasto sul territorio ha subito un inesorabile declino e dimostra che il capitalismo italiano ha bisogno del sostegno statale per prosperare. Inoltre, va ricordato che l’Italia è uno dei pochi paesi europei ad aver ridotto il numero dei suoi dipendenti pubblici facendo ampio ricorso a pratiche di esternalizzazione per i servizi pubblici locali, in particolare nei settori dei trasporti, della sanità e dell’istruzione.
Che più della metà dell’elettorato non si rechi alle urne, non è un fatto incidentale.
Forse per non passare guai, hai tralasciato un fattore importante delle privatizzazioni, ossia la corruzione. La presenza della corruzione da un lato porta acqua al mulino antiprivatizzazioni, dall'altro lascia il dubbio se non sia la privatizzazione in sé a essere sbagliata, ma piuttosto lo sia la via italiana alla privatizzazione.
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