martedì 2 settembre 2025

Quando la Russia fallirà


Ci è stato raccontato che la Russia era prossima al default nel 2023, poi nel 2024 e ancora nel 2025. Sicuramente lo sarà nel 2026, o al più tardi nel 2027. Del resto anche Putin è moribondo a causa delle più svariate e gravi patologie. Con questo non voglio dire che Mosca se la passi bene.

Qualcuno che crede di essere spiritoso e di sapere come funziona il capitalismo, sostiene che per mettere in ginocchio la Russia è sufficiente tagliargli le esportazioni di idrocarburi. Anche dei carboidrati, soggiungo.

A chi vende Mosca il proprio gas e petrolio? Praticamente a tutti, anche all’Italia, ma specialmente Francia, Spagna e Belgio. Che magari poi riesportano in Germania. Non è da escludere che a Bruxelles si scaldino in parte col gas russo.

Abbiamo presente quell’oca starnazzante di Macron, che vuole inviare truppe europee a morire per Zelenskyj? Almeno fino all’inizio di quest’anno la Francia era il maggior importatore europeo di gas naturale liquefatto (GNL) russo, per un valore di 2,68 miliardi di dollari.

Secondo i dati del Centro per la ricerca sull’energia e l’aria pulita (CREA), al 29 maggio 2025 la Russia aveva generato oltre 883 miliardi di euro in esportazioni di combustibili fossili dall’inizio della guerra, di cui 209 miliardi di euro provenienti dagli Stati membri dell’UE.

Da quando l’Ucraina ha sospeso all’inizio di quest’anno il gasdotto Bratstvo, che riforniva l’Europa dalla Russia attraverso il territorio ucraino, l’Europa si è rivolta alla Turchia, con TurkStream, che attraversa il Mar Nero ed è operativo dal 2020. Nel periodo gennaio-febbraio 2025, le importazioni di gas russo in Europa, instradate attraverso la Turchia, sono aumentate del 26,77% rispetto al volume dell’anno scorso.

Oltre alle vendite dirette, la Russia può contare sui ricavi derivanti dalla raffinazione del petrolio: in Turchia e in India, le raffinerie lavorano il petrolio greggio russo sanzionato, a volte miscelato con petrolio proveniente da un’altra fonte, per rivenderlo ai paesi dell’UE. Una scappatoia che consente il riciclaggio di questo petrolio sanzionato da parte di un paese terzo.

La Francia è anche un importante consumatore di fertilizzanti russi. Dall’inizio del conflitto, le importazioni di questi fertilizzanti sono aumentate dell’86%, passando da 402.000 tonnellate nel 2021 a 750.000 nel 2023. L’agricoltura francese dipende dai fertilizzanti russi. Ma allora ci prendono in giro? Certo.

Una prova? Dal sito ufficiale dell’Unione Europea: «L’UE eliminerà gradualmente le importazioni di petrolio e gas dalla Russia entro la fine del 2027, in base a una proposta legislativa presentata oggi [giugno 2025] dalla Commissione europea». Quando i cosiddetti leader europei s’incontrano tra loro, si danno di gomito e ridono a crepapelle.

Mosca è il terzo produttore e il secondo esportatore di petrolio greggio al mondo. Vende soprattutto a Cina ed India, due potenze con una popolazione che assomma al 36% di quella mondiale. Un dato sul quale si riflette assai poco.

Un discorso a parte merita l’uranio, che vede protagoniste la Nigeria e la Georgia (ma guarda un po’). La Nigeria ha deciso di nazionalizzare l’estrazione dell’uranio del gruppo nucleare francese Orano, con evidente scorno della Francia e soddisfazione di Russia e Cina. La Georgia, che detiene alcune delle maggiori riserve di uranio della regione, ha annunciato ufficialmente la vendita delle sue riserve, in particolare alla Russia. C’è bisogno che a Tbilisi la gente scenda in piazza con le bandiere della UE.

E il debito pubblico russo? Il rapporto debito/PIL si aggirava intorno al 16-17% prima del 2022 e ha registrato una diminuzione fino al 16,4% nel 2024.

Quando si parla di debito pubblico, mi viene in mente quello italiano, ovviamente, ma anche quello statunitense non scherza. Nel mese di agosto, il debito pubblico degli Stati Uniti, in rapporto al PIL, ha superato il livello più alto raggiunto dall’inizio del XX secolo, considerando che nel 1945 era al 106% (Congressional Budget Office - CBO).

L’ammontare del debito americano oggi ammonta a più di 37.000 miliardi di dollari, ovvero il 130% del PIL. Solo dieci anni fa era circa la metà 18.176 miliardi di dollari, con un rapporto del 101,4%. Il governo degli Stati Uniti sta ora spendendo più per il pagamento degli interessi che per la difesa (la “difesa” più cospicua del mondo).

Queste cifre sono così enormi da essere vertiginose. Per darvi un’idea della situazione: ogni cinque mesi, gli Stati Uniti aumentano il loro debito di altri 1.000 miliardi di dollari; ogni anno, aggiungono due terzi del debito pubblico italiano, accumulato in cinquant’anni!

Scrive sempre il CBO, un ente indipendente: «Il debito pubblico, alimentato da ampi deficit, raggiungerà il livello più alto di sempre nel 2029 (misurato in percentuale del prodotto interno lordo) e continuerà a crescere, raggiungendo il 156% del PIL nel 2055. È destinato ad aumentare anche in seguito». Senza dire del debito privato ...

Quanto al deficit: «rimarrà elevato rispetto agli standard storici nei prossimi 30 anni, raggiungendo il 7,3% del PIL nel 2055».

È normale che un paese s’indebiti, soprattutto dopo una crisi economica o dopo una guerra. Ad esempio, dopo le guerre napoleoniche, il debito della Gran Bretagna era pari al 300% del suo PIL. Ma per un paese dove si prevede una crescita economica nei prossimi tre decenni più lenta rispetto a quella degli ultimi tre decenni, e con una crescita demografica che sarà più lenta nei prossimi 30 anni rispetto agli ultimi 30, più che della Russia mi occuperei della crisi americana.

Nei prossimi 25 anni, il principale fattore trainante dell’aumento della spesa federale a lungo termine sarà l’invecchiamento della popolazione americana, poiché il numero di persone di 65 anni o più aumenterà molto più rapidamente della popolazione in età lavorativa, determinando un aumento della spesa per i programmi per i pensionati. Mal comune mezzo gaudio dicono a Roma.

«Su base pro capite, il sistema sanitario statunitense è il più costoso tra gli altri paesi ricchi. Eppure, i risultati sanitari americani non sono generalmente migliori di quelli dei nostri pari e, in alcuni casi, sono peggiori, anche in ambiti come l’aspettativa di vita, la mortalità infantile, l’asma e il diabete.»

Notare che la spesa sanitaria italiana pro capite è inferiore alla media e appena superiore a quella coreana. 

domenica 31 agosto 2025

La Dichiarazione Balfour

 

Presumo naturalmente lettori che vogliano imparare qualcosa di nuovo e che quindi vogliano anche pensare da sé. K. Marx

Sull’origine della famigerata dichiarazione Balfour si sono dette e scritte un’infinità di cose. Anch’io, nel 2019, ho trovato divertente raccontare in questo blog una vicenda che in qualche modo è attinente al caso ed è, indubbiamente, connotata di una sua verità storica; ma essa va presa con il beneficio d’inventario, così come tutta la storia che ci viene raccontata dai media a riguardo dell’ebraismo e del sionismo.

Ora, sulla vicenda della Dichiarazione Balfour di storia ne racconto qui un’altra. Ma prima penso siano necessarie una serie di premesse. La prima riguarda quella dell’idea di fondare uno Stato ebraico in Palestina. Un progetto che non si concretizzò, che sbocciò all’interno dei circoli coloniali europei molto tempo prima della nascita del movimento sionista alla fine del XIX secolo. Addirittura c’è chi anticipa tale idea al secolo XVIII, attribuendola a Napoleone Bonaparte (1).

Secondo documenti britannici risalenti al periodo in cui Lord Palmerston ricoprì la carica di segretario di Stato per gli Affari Esteri, questi aveva cominciato ad adottare esplicitamente l’idea di cui sto parlando, dopo che la pressione britannica ed europea era riuscita a costringere al ritiro dalla Grande Siria gli eserciti egiziani (1840). Ma non è mia intenzione di spingermi indietro in un tempo così remoto.

Lo scenario ideologico degli avvenimenti che seguono, è costituito dalla vecchia tradizione antisemita occidentale, che stabilirà immediatamente un accordo tra le mire degli Amanti di Sion, i sentimenti dello zar di tutte le Russia, soddisfattissimo della prospettiva di vedersi liberato dei suoi ebrei, e l’imperialismo britannico che bramava le spoglie dell’Impero ottomano.

C’era un posto dove le contraddizioni erano più acute che altrove: l’impero austroungarico, che riuniva nel suo territorio regioni economicamente arretrate appartenenti all’Europa orientale e regioni industrializzate dell’Europa occidentale. L’emigrazione degli ebrei avrà luogo all’inizio e principalmente all’interno dello stesso paese, una specie di esodo rurale.

L’ebreo dello Shtetl della Galizia, della Transilvania o della Rutenia subcarpatica approderà direttamente a Vienna. Come per caso, è proprio in questa città, vero nodo delle contraddizioni, che inizierà la rinascita dell’antisemitismo occidentale. È proprio in questa città, come per caso, che visse un certo Theodor Herzl.

Nacque così il sionismo, che fu fin dalla sua origine connotato di razzismo, come del resto denunciato da diverse votazioni all’ONU e all’UNESCO, in tal caso scatenando ipocrite doglianze nelle nazioni occidentali (vi dedicherò un post più avanti, parlando anche delle molte e gravi responsabilità della collaborazione sionisti-nazisti, e dunque cercando di ristabilire una verità deformata).

Il Programma di Basilea adottato al Primo Congresso Sionista, che diede il via al sionismo politico nel 1897, non fece alcun riferimento a una popolazione nativa palestinese quando espresse l’obiettivo del movimento: “la creazione di una patria pubblicamente e legalmente garantita in Palestina per il popolo ebraico”.

I sionisti avevano propalato la favola che la Palestina fosse “una terra senza popolo per un popolo senza terra”, slogan coniato da Israel Zangwill, un importante scrittore anglo-ebreo spesso citato dalla stampa britannica come portavoce del sionismo e uno dei primi organizzatori del movimento sionista in Gran Bretagna.

Nel 1914, Chaim Weizmann, che sarebbe diventato il primo presidente di Israele e che, insieme a Theodor Herzl e David Ben-Gurion, fu uno dei tre uomini maggiormente responsabili della trasformazione del sogno sionista in realtà, affermò: «Nella sua fase iniziale, il sionismo fu concepito dai suoi pionieri come un movimento interamente dipendente da fattori meccanici: c’è un paese che si chiama Palestina, un paese senza popolo, e, d’altra parte, esiste il popolo ebraico, ma non ha paese. Cos’altro è necessario, allora, se non incastrare la gemma nell’anello, unire questo popolo a questo paese? I proprietari del paese [i turchi] devono, quindi, essere persuasi e convinti che questo matrimonio sia vantaggioso, non solo per il popolo [ebraico] e per il paese, ma anche per loro stessi.» (2)

Che la Palestina fosse un paese senza popolazione (90% arabi) risultò palesemente falso per tutti gli immigrati ebrei della prima aliyah (immigrazione) appena sbarcati in Palestina. Non solo la “terra”, anche la demografia fa parte della posta in gioco.

È interessante notare come Moshe Smilansky, scrittore sionista e poi leader laburista, in un suo racconto in ebraico, Rehovot 1891, che si riferisce proprio all’aliyah del 1881, riporta un dialogo avvenuto nel 1891 tra due pionieri di Hovevie Tzion (Amanti di Sion):

“I sionisti ci hanno mentito. Il paese è abitato dagli Arabi e poiché una stessa terra non può servire da patria a due popoli contemporaneamente, gli Amanti di Sion devono partire di qui e andare a cercarsi un’altra patria. Dovremmo andare a est, in Transgiordania. Sarebbe una prova per il nostro movimento”. “Sciocchezze ... non c’è abbastanza terra in Giudea e Galilea?”. “La terra in Giudea e Galilea è occupata dagli arabi”. Ribattuta: “Bene, gliela toglieremo”. Domanda: “Come?”. La risposta non si fece attendere: “Un rivoluzionario non fa domande ingenue”. (3)

A nulla varrà il grido del sionista francese Max Nordau rivolto ad Herzl: «Ma allora commettiamo un’ingiustizia!», quando scoprirà, con spavento, l’esistenza degli arabi nel paese che sognava vuoto.

Tuttavia, né Zangwill né Weizmann intendevano dire che non ci fosse un popolo in Palestina, ma che non c’era un popolo degno di essere considerato nel quadro delle nozioni di supremazia europea allora dominanti. A questo proposito, un commento di Weizmann ad Arthur Ruppin, capo del dipartimento di colonizzazione dell’Agenzia Ebraica, è particolarmente rivelatore. Alla domanda di Ruppin sugli arabi palestinesi, Weizmann rispose: «Gli inglesi ci hanno detto che ci sono alcune centinaia di migliaia di negri [Kushim] e per loro non c’è alcun valore.» (4)

Lo stesso Zangwill spiegò il vero significato del suo slogan con ammirevole chiarezza nel 1920: «Se Lord Shaftesbury è stato letteralmente inesatto nel descrivere la Palestina come un paese senza popolo, aveva sostanzialmente ragione, poiché non esiste un popolo arabo che viva in intima fusione con il paese, utilizzandone le risorse e imprimendogli un’impronta caratteristica: esiste al massimo un accampamento arabo.» (5)

Come si evince dai loro scritti, gli atteggiamenti prevalenti tra la maggior parte dei gruppi sionisti e dei coloni nei confronti della popolazione palestinese indigena andavano dall’indifferenza e dal disprezzo alla superiorità paternalistica. Un esempio tipico si può trovare proprie nelle opere del citato Smilansky: «Non abbiamo troppa familiarità con i fellahin arabi, affinché i nostri figli non adottino i loro costumi e imparino dalle loro brutte azioni. Che tutti coloro che sono leali alla Torah evitino la bruttezza e ciò che le assomiglia e mantengano le distanze dai fellahin e dai loro vili attributi.»

La Dichiarazione Balfour del novembre 1917, che garantiva il sostegno della Gran Bretagna alla creazione di un focolare nazionale ebraico in Palestina, migliorò drasticamente le prospettive degli ebrei in Palestina, soprattutto perché a quel punto era praticamente certo – data l’imminente conquista militare della Palestina da parte della Gran Bretagna e gli accordi già presi per la spartizione dell’Impero Ottomano tra le Grandi Potenze – che la Palestina sarebbe diventata un protettorato britannico.

Vediamo com’è formulata e chi e che cosa impegna la Dichiarazione Balfour, ricordando che all’epoca della Dichiarazione gli ebrei costituivano circa il 10% della popolazione della Palestina e possedevano circa il 2% del territorio.

Caro Lord Rothschild, ho il piacere di inviarvi, a nome del governo di Sua Maestà, la seguente dichiarazione di simpatia per le aspirazioni dell’ebraismo sionista, che è stata sottoposta e approvata dal Gabinetto.

“Il governo di Sua Maestà vede con favore l’insediamento in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico, e compirà i suoi sforzi per facilitare il raggiungimento di questo scopo, essendo chiaramente inteso che nulla sarà fatto che possa pregiudicare i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche esistenti in Palestina, né i diritti e lo status politico di cui godono gli ebrei in qualsiasi altro paese”.

Le sarò grato se vorrà portare questa dichiarazione a conoscenza della Federazione Sionista. Arthur James Balfour.

Ciò che colpisce innanzitutto alla lettura di questo testo è la sua brevità lapidaria. Tutti coloro che hanno sentito parlare di questa famosa dichiarazione sono portati a pensare che si tratti di un piano completo e coerente o quantomeno di una dichiarazione molto articolata. Grande è perciò la loro sorpresa nel constatarne la povertà.

Ma ancora più grande è la sorpresa quando si passa all’esame del testo ed all’analisi dei termini che lo costituiscono. Se si pensa che ciascuno dei termini di questa dichiarazione è stato pesato e soppesato con tanta cura, non si può fare a meno di meravigliarsi del fatto che quando i termini sono precisi sono del tutto impropri, e quando, viceversa, non lo sono, sono totalmente ambigui da prestarsi a qualsiasi interpretazione.

Mi limito qui a dare degli esempi di improprietà dei termini per spiegare cosa intendo per improprietà. Per indicare il 90% della popolazione della Palestina all’epoca della sua pubblicazione, il testo utilizza la perifrasi puramente negativa di: “comunità non ebraiche esistenti in Palestina”. Come se, al giorno d’oggi, volendo legiferare nell’ambito dei lavoratori immigrati, il governo di un paese qualsiasi si mettesse a parlare della propria popolazione nazionale o comunque autoctona come di “popolazione non immigrata”.

Non c’è nulla di ambiguo, al contrario. Il partito preso a favore degli uni (i sionisti) ed a scapito degli altri (le popolazioni locali) è flagrante. Non si presta ad alcuna ambiguità l’adozione della terminologia (e, di conseguenza, dell’ideologia) sionista, del “popolo ebraico”. Soltanto per l’ideologia sionista esiste un popolo ebraico (e vale la pena di leggere i libri dello storico israeliano Shlomo Sand). In epoca non troppo lontana, il Dipartimento di Stato americano in una lettera al Consiglio americano per il Giudaismo del 20 aprile 1964, lo disse esplicitamente: «Di conseguenza dovrebbe essere chiaro che il Dipartimento di Stato non considera il concetto di popolo ebraico come un concetto di diritto internazionale.»

Se in merito a questa espressione di “popolo ebraico” il testo è chiaro, per tutto il resto esso è di un’ambiguità tale da aprire la porta a tutte le interpretazioni. Per esempio, che dire di “un focolare nazionale”? Qual è esattamente l’impegno della Gran Bretagna, nel promettere di favorire l’insediamento in Palestina di “un focolare nazionale” per il popolo ebraico? Nessuno può dirlo con precisione perché questo termine è stato usato a bella posta in quanto era ambiguo e perché lasciava la porta aperta a tutte le interpretazioni.

Questo documento, di Balfour ha soltanto il suo nome perché costui non ha fatto altro che firmare una dichiarazione preparata da ben altre mani. Infatti, la brutta copia di questa lettera ha circolato per 18 mesi da una riva all’altra dell’Atlantico, facendo la spola tra Londra e Washington. I veri autori sono un gruppo di ebrei sionisti di Londra, facenti capo a Chaim Weizmann. Questa minuta del documento è stata sottoposta sia al gabinetto che alla casa bianca dove il famoso colonnello House serviva da intermediario con il presidente Wilson.

La Dichiarazione Balfour cominciò ad essere usata in una piega più pragmatica e meno visionaria alla Conferenza di Pace di Parigi del 1919, che doveva disporre dei territori conquistati agli Asburgo e agli Ottomani sconfitti durante la guerra. Chaim Weizmann, a capo della Commissione Sionista, chiese l’imposizione di un Mandato britannico su una Palestina che si estendesse a nord fino al fiume Litani, in quello che oggi è il Libano, e a est fino alla linea ferroviaria dell’Hijaz, ben a est del fiume Giordano. Chiese una Palestina “tanto ebraica quanto l’Inghilterra è Inglese”.

Sebbene il trasferimento o l’espulsione della popolazione nativa sia implicito in tale visione, essa rimase taciuta nelle deliberazioni ufficiali della conferenza. Ma un altro membro della Commissione Sionista, Aaron Aaronsohn (di cui ho trattato in un post precedente) ne parlò nei corridoi della conferenza. Aaronsohn, un agronomo, era membro dell’Esecutivo Sionista e direttore della Palestine Land Development Company (in ebraico, Hevrat Hachsharat Hayishuv).

Mentre lavorava per l’intelligence britannica, Aaronsohn durante la guerra aveva scritto sul settimanale di intelligence Arab Bulletin della necessità di “allontanare con la forza” i mezzadri arabi dalle terre da acquistare dai proprietari terrieri arabi assenti per la colonizzazione sionista.

L’amico di Aaronsohn, William K. Bullitt, membro della missione statunitense alla Conferenza di Pace di Parigi, ricordò in seguito: “Molte volte durante la Conferenza di Pace di Parigi mi sono unito a lui [cioè Aaronsohn] e al Dr. Weizmann mentre entrambi stavano valutando politiche e piani. La proposta di Aaronsohn era la seguente: mentre la Palestina doveva essere trasformata in uno Stato ebraico, la vasta valle dell’Iraq doveva essere restaurata attraverso l’irrigazione pianificata, per diventare il paradiso del mondo [...] e inoltre agli arabi di Palestina dovevano essere offerte delle terre [...] verso le quali il maggior numero possibile di arabi avrebbe dovuto essere convinto a emigrare.

Le manifestazioni contro l’immigrazione ebraica iniziate nei primi anni Venti, spazzarono via ogni illusione rimasta sulla facilità di risolvere il “problema arabo”. La cautela nelle dichiarazioni pubbliche era quindi essenziale, non solo per non inimicarsi gli altri Paesi arabi, ma anche per riguardo alla sensibilità dell’opinione pubblica britannica e internazionale nei confronti della gestione del “problema arabo”; dopotutto, oltre a promettere una patria nazionale agli ebrei, la Dichiarazione Balfour aveva promesso di non pregiudicare i diritti delle “comunità non ebraiche esistenti in Palestina”.

Pertanto, ciò che sta facendo oggi Benjamin Netanyahu (e i suoi predecessori) non dipende dalle pressioni dell’estrema destra israeliana, ma riguarda gli scopi fondamentali del sionismo e della presenza degli ebrei in Palestina. E ciò conferma anche quanto ho scritto da tempo a riguardo di tali scopi, ovvero la costruzione della Grande Israele. E dunque non è avventato anche ciò che ho scritto a riguardo del fatto che l’espansione israeliana non si fermerà con la Palestina. De te fabula narratur.

(1) Ipotesi contestata dagli storici, se non altro per il fatto che la comunità ebraica in Francia, all’epoca, contava poche migliaia di persone e non era in grado di garantire le necessarie risorse umane per una simile impresa e non si poteva ancora parlare della formazione di una coscienza nazionale ebraica alla fine del XVIII secolo. Inoltre, momento dell’entrata del suo esercito in Palestina, Napoleone non aveva nessun interesse particolare a guadagnare il favore degli ebrei della zona, peraltro pochissimi, che stavano dalla parte del governatore di Acri, città che Napoleone assediò invano.

(2) Theodor Herzl si era già mosso in questo senso. Nel giugno 1896 fece la prima visita ad Istanbul. Incontrando il figlio del gran visir, Cavid Bey, egli presentò il progetto sionista, ma il responsabile turco espresse la propria opposizione all’insediamento ebraico in Palestina. Herzl cercò di impegnarsi in prima persona nella questione armena per

convincere il sultano “che gli ebrei hanno un ruolo attivo nelle politiche locali e internazionali”, e che sono capaci di “convincere i leader armeni a fermare la sollevazione contro il sultano”.

Dopo il fallimento di questo tentativo, sottopose al sultano un’offerta allettante, che includeva il pagamento di “20 milioni di lire turche”, di cui “2 milioni in cambio della Palestina [...] e con i 18 milioni restanti la Turchia sarà liberata dal mandato di protezione europeo”. Nel 1898, Herzl, profittando della visita del Kaiser tedesco a Istanbul e poi a Gerusalemme, cercò di ottenere il favore del governo tedesco, in ottimi rapporti con quello ottomano, affinché appoggiasse il progetto sionista: “Del quale beneficeranno non solo gli ebrei, ma anche la Germania, che potrà allungare la mano in oriente, economicamente, politicamente e militarmente, diventando la protettrice degli ebrei”. Nuovo fallimento dell’iniziativa sionista.

Nel maggio 1901, Herzl si recò a Istanbul per la terza volta e riuscì a incontrare il sultano Abd al-Hamid, che aveva accettato di riceverlo “in qualità di importante giornalista ebreo e non nella sua veste di capo dell’Organizzazione sionista mondiale”. Herzl fece notare che gli aiuti economici offerti dagli ebrei, “un milione e mezzo di sterline”, avrebbe potuto liquidare i debiti dello Stato ottomano, e si offrì inoltre di mediare per la cessazione delle campagne dei giornali del comitato dei “Giovani turchi” in Europa contro il sultano.

Abd al-Hamid rifiutò la proposta di fondare uno Stato ebraico in Palestina, ma accettò “un’immigrazione ebraica in Asia minore e nei paesi tra i due fiumi (Iraq), in cambio del pagamento dei debiti contratti dallo Stato ottomano”.

Nel febbraio 1902, Herzl compì la sua quarta visita a Istanbul: questa volta non incontrò il sultano, ma solo alcuni suoi consiglieri, i quali affermarono che “sarebbe stato lo Stato ottomano a stabilire le zone dove gli ebrei potevano abitare, come l’Iraq e l’Asia minore, ma non la Palestina”. Nello stesso anno fece una quinta e ultima visita a Istanbul, durante la quale incontrò il gran visir Said Pascià, senza però ottenere alcun risultato significativo.

(3) Moshe Smilansky, prozio del noto scrittore Yizhar Smilansky, in realtà si stabilì in Palestina e divenne in seguito fautore della creazione di uno stato arabo-ebraico presso la Commissione d’inchiesta anglo-americana. Il sionismo, in origine, ebbe diverse “anime”.

(4) Verbale del discorso di Ruppin alla riunione del Comitato Esecutivo dell’Agenzia Ebraica, 20 maggio 1936, in La lotta per lo Stato: la politica sionista 1936–1948, Gerusalemme, 1984, p. 140.

(5) Nonostante tali affermazioni, tuttavia, i sionisti fin dall’inizio erano ben consapevoli che non solo c’era una popolazione sul territorio, ma che era presente in gran numero. Zangwill, che aveva visitato la Palestina nel 1897 e si era scontrato con la realtà demografica, riconobbe nel 1905, in un discorso a un gruppo sionista a Manchester, che «la Palestina vera e propria ha già i suoi abitanti. Il pashalik [o pascialato] di Gerusalemme è già due volte più densamente popolato degli Stati Uniti, con cinquantadue anime per miglio quadrato, e gli ebrei non sono nemmeno il 25%». Israel Zangwill fu uno dei più convinti sostenitori del trasferimento della popolazione nativa fuori dalla Palestina. Zangwill rimase fermo su questa idea negli anni successivi, formulando le sue argomentazioni a favore del trasferimento in termini pragmatici e geopolitici. In una conversazione durante l’estate del 1916 con Vladimir Jabotinsky (che in seguito fondò il Sionismo Revisionista, precursore dell’attuale Likud), Zangwill sostenne che l’allontanamento degli arabi dalla Palestina per far posto all’insediamento delle masse ebraiche europee fosse una precondizione per la realizzazione del sionismo. Quando Jabotinsky sottolineò che gli arabi non avrebbero mai abbandonato volontariamente la loro terra natale, Zangwill replicò che l’impresa sionista avrebbe dovuto essere parte di un nuovo ordine mondiale in cui non ci sarebbe stato spazio per discussioni sentimentali.

sabato 30 agosto 2025

Le illusioni dei "pacifisti"

 

Si sta preparando uno spettacolo pirotecnico. Tra pochi giorni, circa quindici altri paesi, tra i quali Regno Unito, Francia, Malta, Canada e Australia riconosceranno lo Stato palestinese davanti all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Evviva! Non resta che stabilire in quale forma, con chi, su quale territorio, a quali condizioni e da quando è ipotizzabile che possa effettivamente vedere la luce lo Stato palestinese. Un’inezia.

Ora sono 147 su 193 i Paesi membri delle Nazioni Unite che riconoscono lo Stato di Palestina. Tra questi non c’è l’Italia, quella governata per tanti anni dalla “sinistra”. Un po’ meglio ha fatto l’Italia governata dai fascisti, che si è astenuta l’anno scorso quando l’Assemblea Onu ha votato una risoluzione affermando che la Palestina è “qualificata a diventare Stato membro”. Tuttavia Meloni ha definito “prematuro” e “controproducente” riconoscere la Palestina.

L’amministrazione statunitense ha annunciato che negherà e revocherà i visti ai membri dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP) e dell’Autorità palestinese (ANP) prima dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite (UNGA) a settembre.

L’annuncio è stato fatto in una dichiarazione rilasciata ieri dal Dipartimento di Stato americano che ha inoltre accusato l’Autorità Palestinese di “tentativi di aggirare i negoziati” facendo appello alla Corte penale internazionale e alla Corte internazionale di giustizia per le stragi israeliane commesse sia nella Cisgiordania occupata sia durante la guerra di Israele a Gaza.

Quando le Nazioni Unite furono fondate nel 1947 e la loro sede centrale fu stabilita a New York, si concordò che, di fatto, le politiche sull’immigrazione degli Stati Uniti non avrebbero avuto alcun impatto su chi desiderava recarsi all’ONU per motivi ufficiali. Per esempio, ciò spiega il motivo per il quale Fidel Castro partecipò alle riunioni dell’assemblea a New York.

Anche in passato gli Stati Uniti hanno negato i visti ad alcuni funzionari, tra cui il rifiuto all’allora presidente dell’OLP Yasser Arafat di essere presente presso la sede delle Nazioni Unite nel 1988, spingendo l’Assemblea generale delle Nazioni Unite a tenersi invece a Ginevra, in Svizzera, quell’anno. In quell’occasione, Arafat fece appello per la preparazione di una conferenza internazionale di pace in Medioriente, aprendo al riconoscimento d’Israele.

S’illudeva a proposito del progetto sionista. Grave errore quello di Arafat di riconoscere, nel 1993, lo Stato sionista, rinunciando a contrastare l’occupazione israeliana dei territori palestinesi. Fu uno dei motivi della trasformazione dell’islam tradizionalista in islam jihadista, che già aveva preso piede dopo che in Egitto aveva preso il potere Anwar al- Sadat (1971), il quale, oltre che riconoscere Israele, favorì i Fratelli musulmani per indebolire l’OLP .

Più di recente, gli Stati Uniti hanno negato il visto a Omar al-Bashir, allora capo di Stato del Sudan, per partecipare all’incontro nel 2013. Il motivo è che era ricercato dalla Corte penale internazionale.

Anche quella canaglia di Benjamin Netanyahu è ricercato dalla Corte Penale Internazionale. Tuttavia, si prevede che sarà a New York il mese prossimo.

venerdì 29 agosto 2025

Vigliacchi

Non so se ci si rende conto (e, in tal caso, fino a che punto) del fatto che Francia e Germania vogliono spingere l’Europa (o buona parte di essa) a far guerra alla Russia. Perché mi pare chiaro che l’intento, alla fine, sia proprio questo: dare inizio a un conflitto che dapprima sarà europeo, ma un secondo dopo diventerà mondiale e infine cosmico (*).

Rendiamoci conto che sottovalutare le premesse e le tendenze in atto è estremamente pericoloso. E ciò a prescindere, ma neanche tanto, che vi siano dei vigliacchi che in rete e negli altri media guaiscono per questo tipo d’intervento. Un trenino di gente che si autocandida a qualche futuro strapuntino di potere e celebrità. Degli spudorati vigliacchi perché sono gli eredi di quella genìa che un tempo invitò gli altri ad armarsi e partire mentre loro s’imboscavano.

Abbiamo a che fare con il centrismo di sinistra più stupido del mondo, il cui pregiudizio per la violenza è unilaterale, la condanna è sempre per la violenza altrui. Il loro è uno zelo ideologico perché dell’Ucraina non importa assolutamente nulla; l’obiettivo è la Russia, quella di Putin, non ancora assoggettata e spartita. Purché la guerra continui e non si possa dire che hanno perso e la crisi economica (e non solo) possa trovare una sponda nell’investimento bellico.

È anche vero che l’attivismo europeo sulle “garanzie di sicurezza” per l’Ucraina è, al momento, solo il tentativo di far fallire qualsiasi trattativa, trovando come sponda il comico di Kiev, il quale sa che se cede su qualunque punto verrà liquidato.

(*) Il fatturato delle aziende industriali tedesche si è ridotto del 2,1% nel secondo trimestre, l’ottavo trimestre consecutivo di calo del fatturato. Anche l’occupazione è diminuita significativamente: 114.000 posti di lavoro persi in un anno, con le perdite più consistenti nel settore automobilistico, che ha perso 51.000 posti di lavoro solo negli ultimi dodici mesi. E siamo solo all’inizio. “Lo stato sociale come lo conosciamo oggi non è più finanziariamente sostenibile, visti i nostri risultati economici”, ha dichiarato il cancelliere tedesco Friedrich Merz durante un evento del Partito cristiano democratico a Osnabrück il 23 agosto. Ha chiesto tagli ai fondi di disoccupazione (Bürgergeld) e all’assicurazione sanitaria. Enormi risorse per il riarmo, quelle si trovano sempre.

giovedì 28 agosto 2025

E anche basta con 'sto popolo eletto

 

Un giorno ci verrà rinfacciata Sarajevo. Che cosa abbiamo fatto per impedire ciò che vi accadde? Ci verranno rinfacciate anche le bombe e i morti dell’Ucraina. Che cosa abbiamo fatto e che cosa stiamo facendo per impedirlo concretamente? E anche la Palestina e l’orrore senza fine della striscia di Gaza ci verrà rinfacciato. L’Europa continua a mantenere normali relazioni con lo Stato terrorista d’Israele (terrorista non da oggi), al quale non è stata applicata alcuna sanzione economica, alcun embargo di armi ed equipaggiamenti.

Preoccupati come siamo per il caro ombrellone non ho quasi sentito parola a riguardo di embarghi e sanzioni contro il regime sionista. Pare vi sia stata una manifestazione, in Palestina, contro il governo israeliano in carica. Dicono di 350 mila manifestanti. Troppo, troppo pochi. E poi vorrei conoscerne le intenzioni reali di quei manifestanti. Sono d’accordo, per esempio, nell’applicare le risoluzioni dell’ONU? Col cavolo, direbbero.

Personalmente non sono pacifista. In un mondo diviso in Stati-nazione, in un sistema economico come l’attuale, dichiararsi pacifisti lo considero irrealistico, inutile e ipocrita. Insomma, roba da preti. E però tacere lo considero anche peggio. Lo considero un crimine. Su un altro punto, inoltre, ritengo non si possa più tacere.

In un’epoca in cui il “rispetto” per le assurdità religiose sta diventando la bussola morale suprema, non posso accettare che in nome e per conto dell’ebraismo si possano dire assurdità anacronistiche e compiere delle stragi. Tale atteggiamento l’ho espresso più volte apertis verbis anche a riguardo dell’islamismo. Lo preciso per chi non ne fosse al corrente.

Quanto all’eventualmente accusa di antisemitismo, la cosa mi farebbe ridere. Considero l’antisemitismo un deficit culturale e mentale. Del resto, i primi razzisti, dati inconfutabili alla mano, sono proprio i sionisti (magari nei prossimi giorni racconto la storia di Herzl che si reca a Istanbul cinque volte – tra il 1896 e il 1902 – per comprarsi, cash, la Palestina ...).

mercoledì 27 agosto 2025

Faccia tosta

 

L’Europa, ma ancor prima l’Italia, è umiliata da gente come Prodi, da quelli che come lui hanno smantellato e poi svenduto i beni comuni (dunque anche i servizi pubblici primari) alla classe sociale più rapace della storia moderna. Il capitolo iniziale di un crollo progressivo del complesso di grandi imprese e il punto di avvio di una crisi profonda del sistema industriale, che da allora non si è più ripreso (*). Possibile che un intelligentone come lui e quelli come lui non capissero che il capitale straniero punta alle imprese che possono essere profittevolmente integrate nelle loro reti mondiali o, comunque, ai settori nei quali il nostro paese aveva ancora qualcosa da dire?

Nella deriva degli anni Ottanta, nell’indebitamento dell’IRI, nella trasformazione dell’Efim in un magnete nero che avrebbe prodotto perdite per 18mila miliardi di lire, è chiaro che Prodi (presidente dell’Iri dal 1982 al 1989, e poi dal 1993 al 1994) non fece tutto da solo e per conto della DC. Per esempio, Giuliano Amato fu l’ideatore dell’indebitamento a carico dello Stato e benefattore della segreteria Psi. Quanto al capitalismo italiano, quello degli Agnelli, dei Tronchetti Provera, dei capitani coraggiosi che piacevano tanto a Prodi e D’Alema, con sullo sfondo il sostegno di Enrico Cuccia e tanti altri attori in commedia, si rivelò per quello che è sempre stato: un capitalismo straccione ed evasore, sempre col cappello in mano davanti a palazzo Chigi e palazzo Piacentini.

L’obiettivo dichiarato di quelle dismissioni e svendite era diminuire il peso del debito pubblico italiano attraverso la vendita di asset statali. I famosi “conti in ordine”, secondo i parametri di Maastricht: rapporto debito/PIL al 60% e deficit al 3%. Su quale base economico/scientifica non si è mai saputo. Obiettivo della diminuzione del debito pienamente raggiunto, come sappiamo tutti. Ci hanno fatto il gran piacere di farci sedere al tavolo al club dell’euro, nonostante il nostro rapporto debito pubblico PIL fosse superiore al 100%.

Prodi è stato premiato con una poltronissima a Bruxelles. Le conseguenze del suo europeismo (e di quelli come lui) le stiamo pagando ancora oggi e chissà per quante generazioni ancora. E tutto ciò avveniva mentre la sedicente sinistra ricamava se Berlusconi doveva o no pagare l’Imu.

(*) Nell’alimentare, tanto per citare: Riso Scotti, Fiorucci Salumi, Bertolli, Carapelli, Olio Sasso, Galbani, Locatelli, Invernizzi, Orzo Bimbo. In quello della moda Loro Piana, Bulgari, Fendi, Gucci, Pucci, Bottega Veneta, Brioni, eccetera; la nautica, con cantieri Ferretti, i cantieri navali, il Nuovo Pignone, le autostrade, la telefonia, le banche, Pirelli, Ilva, eccetera, eccetera, eccetera. Poi, persino nel calcio ...


"Una narrazione di sconvolgimento e trasformazione del mondo”

 

Senza un cellulare, un indirizzo mail, uno spid, un internet banking e altri bignè del genere, semplicemente non esistiamo. Avere una propria identità, se non t’inscrivi nella cultura socio-tecnica circostante, non è più possibile. Aggiungete a ciò le quotidiane astute perturbazioni nel campo della realtà alle quali siamo sottoposti, le fantasie tecnologiche dell’ineunte millennio, l’inesausto racconto dell’autonomizzazione della tecnologia, la promessa che l’intelligenza delle macchine superi quella degli umani, le illusioni transumaniste della Silicon Valley.

Una mattina ci sveglieremo convinti del più impensabile dei complotti, quello secondo cui il nostro mondo non sarebbe reale ma una contraffazione, una vasta simulazione frutto di una volontà superiore. Scopriremo di essere degli androidi che hanno ricevuto le istruzioni per compiere una missione inscritta nella nostra programmazione. Paranoia, direte. Se solo ce l’avessero raccontato dieci anni fa, e anche meno, avremmo creduto reale quanto e successo con il Covid-19 e ciò che sta accadendo nella Striscia di Gaza?

Philip K. Dick, il genialoide mescalinico che ha creato diversi capolavori della fantascienza, tra cui Blade Runner, l’ha chiamata la “Prigione di Ferro Nero”. Le sorelle Wachowski, le due registe, l’hanno trasformata nel loro Matrix. L’idea che ciò che sperimentiamo come “realtà” sia invece un simulacro, una simulazione in cui siamo tutti imprigionati, affascina da molto tempo. Alcuni azzardano persino di farla risalire a Platone e al suo mito della caverna, rendendola una delle più antiche ossessioni umane.

Ma no, i veri artefici di questa teolessia tecnologica siamo noi stessi e non esiste determinismo tecnologico. La fragilità dei loro imperi, del loro potere, richiede un flusso continuo di menzogne perché reggano capitalizzazioni che rappresentano centinaia di volte il loro fatturato. Una narrazione folle, esagerata e profetica, sempre più elaborata. È storia vecchia come il cucco che un mito o un dio diventano veri perché ci crediamo. Ho letto su un quotidiano economico: “Raccogliamo fondi con una narrazione molto forte di sconvolgimento e trasformazione del mondo”.

Quello che conta è avere impatto sui social media. Semplicemente rivelano una strategia per mascherarne altre, alimentano una paura per nasconderne altre. L’inflazione delle promesse scientifiche è un mercato per catturare risorse, per rendere inevitabile la traiettoria tecnologica e facilitarne l’accettazione sociale, per creare uno scenario futuro che mascheri l’ignominia del presente. Come se fosse diventato impossibile costruire un futuro fuori dai meri meccanismi di mercato e diverso da quello di una crescita economica e tecnologica apocalittica.

Ma già a parlarne, ti dicono che sei fuori dal mondo. Il loro mondo, quello di Netanyahu che ti spiega perché ha bombardato un ospedale due volte e non tre.

martedì 26 agosto 2025

[...]

 

Nella prossima grande guerra anche il sistema solare sarà un campo di battaglia. Di questo volevo scrivere stamane, dei progetti Nivelir e Numizmat, il sistema ASAT coorbitale Burevestnik e il laser Kalina, la futura stazione orbitale russa e quella al polo sud della Luna, in cooperazione con la Cina. Ma poi ho visto la foto di quella che vorrebbe essere una tecnica di autopromozione. Questo tizio compiaciuto rappresenta solo uno scherzo, nel senso più pieno dell’espressione, della natura locale. E però più in grande l’umanità è di nuovo largamente governata dai peggiori esemplari di questa specie, una variante che non teme l’estinzione.

La nostra realtà quotidiana è diventata un luogo vuoto, da dove fuggire. Vorrei fare come il marinaio di Kipling che, inghiottito da una balena, inizia a ballare, cantare e tirare pugni fino al punto di essere vomitato sulla spiaggia dal cetaceo ferito. Oppure e meglio ancora il marinaio gioviale e resistente in 20.000 leghe sotto i mari: la potenza vitale, sofferente, libertaria e recalcitrante dell’animale umano di fronte al potere, di fronte all’idiozia. Quella della nave e del sottomarino è una mia fissa onirica ricorrente. Anche a occhi aperti. Non serve un pezzo di carta in psicologia per capirci qualcosa.

lunedì 25 agosto 2025

Siamo maghi

 

Emmanuel Macron, un quarantenne ambizioso, di quelli che partendo dal nulla, ossia da un posticino in banca dove riciclava l’evasione fiscale sotto la luce del sole (sfruttando le differenze fiscali tra Paesi), diventano poi presidenti di qualche cosa. Di una banca, di una multinazionale, di un club o di una repubblica. Siete stanchi di sentire dichiarazioni come quella di inviare truppe in Ucraina, oppure siete tra quelli che, oltre ad essere favorevoli all’invio di armi e denaro siete anche propensi a mettervi l’elmetto e andare a morire per Zelens’kyj?

Quand’era ministro dell’Economia, dell’Industria e degli Affari Digitali spronava i giovani virgulti francesi con questo invito: “Abbiamo bisogno di giovani francesi che vogliano diventare miliardari”. Non solo milionari, bensì miliardari. L’oscenità economica ha inghiottito ogni discorso politico. La stupidità è vasta.

Non si sopporta più la disinibizione di queste teste rare, e però oggi nessuno si ribella più. Mi guardo attorno e tra quelli che adornano i propri profili social di bandierine UE, ucraine e israeliane c’è gente che, partecipe a questo gioco sui social, starebbe proprio bene con l’elmetto.

“È molto pericoloso vivere”. Questa è una frase pronunciata dalla signora Dalloway, durante quella lunga passeggiata raccontata in un romanzo di Virginia Woolf. Soggiungo: pericoloso lo sta diventando sempre di più.

Mentre va a comprare dei fiori, la signora Dalloway si rende improvvisamente conto che in ogni momento sta accadendo qualcosa di terribile; accede a un’esperienza tanto semplice quanto vertiginosa, alla quale possono essere invitati una borghese ben educata quanto un fan dei Måneskin, quanto un venditore ambulante di botulino, un islamico o un cattolico, un ebreo o un non credente.

La nostra società ha esaurito il bisogno di qualunque cosa, gli manca solo l’esperienza diretta della guerra. “Troviamo sempre qualcosa, vero Didi, che ci fa sentire come se esistessimo?”. E Didi risposte a Gogo: “Sì, sì, siamo maghi”.

domenica 24 agosto 2025

Teste rare e "fede nel libero scambio"

Come sonnambuli, avanziamo senza comprendere veramente la destabilizzazione del mondo che si sta dispiegando davanti ai nostri occhi. Vi è una questione esistenziale nel confronto tra le due superpotenze. Diventando capitalista, la Cina è stata costretta a sfidare ciò che ha permesso la sua ascesa, ovvero una globalizzazione concepita, organizzata e controllata da e per gli Stati Uniti.

Ora, è il capitalismo stesso che mina la globalizzazione e porta all’attuale frammentazione. Questa contraddizione sta portando a una riorganizzazione del mercato globale, creando nuove infrastrutture tecnologiche, monetarie e fisiche che aggirano la supervisione americana. Questo approccio pone Pechino sulla strada di uno scontro diretto con gli Stati Uniti che, in un modo o nell’altro, rimodellerà il nostro mondo.

Nell’immaginario collettivo occidentale e in particolare in quello statunitense, creato ad hoc dai media, la Cina è diventata il nemico pubblico numero uno. Questa percezione ha fornito la scusa perfetta per lanciare una svolta nazionalista, incarnata da Trump, e incanalare gli sforzi nazionali verso il raggiungimento della cosiddetta autonomia strategica. Pechino ripaga con la stessa moneta, ossia con una strategia uguale e contraria.

Le multinazionali hanno potuto sfruttare la manodopera cinese, ma Pechino ha saputo imporre alle aziende straniere di trasferire tecnologia a vantaggio delle aziende cinesi, permettendo, nel tempo, alla Cina di costruire una base industriale altamente competitiva. Quindi la Cina si è assicurata il controllo di una quota dominante delle forniture globali di terre rare, componenti essenziali per molti prodotti ad alta tecnologia.

La Cina concede licenze di importazione di terre rare solo in cambio di dati dettagliati sui sistemi operativi, sui dipendenti e, in alcuni casi, persino sulle immagini dei prodotti e degli impianti di produzione. Pechino non solo ha ottenuto una riduzione dei dazi, ma anche la riapertura delle frontiere statunitensi agli studenti cinesi, che già riempiono le aule delle migliori università americane.

Infatti, il governo cinese ha sostenuto concretamente i propri studenti nelle migliori università americane ed europee, soprattutto in ambito scientifico e ingegneristico, per poi tornare a lavorare in patria. Allo stesso tempo, ha investito molto nelle proprie università più prestigiose, che da allora hanno scalato le classifiche mondiali e ora formano la metà dei laureati in ingegneria del mondo.

La Cina ha dimostrato che il capitalismo di Stato, pur non risolvendo la contraddizione fondamentale insita nel modo di produzione capitalistico, funziona meglio dell’ordo liberismo. La lezione è stata colta, ne è una conferma, solo per citare l’ultima notizia, che il governo statunitense acquista il 10% di Intel. Ma già nell’agosto di tre anni fa, Washington varava l’Inflation Reduction Act (IRA), un piano di sussidi di 380 miliardi in dieci anni, riservati a chi usa componenti americani. Il motto trumpiano (Make America Great Again) non è altro che una presa d’atto di questo duello all’O.K. Corral.

L’UE non è stata a guardare, il solo sostegno alle energie rinnovabili costa ogni anno circa 80 miliardi di euro. Inoltre, il 40 per cento dei 750 miliardi del programma di Next Generation EU, 300 miliardi di euro, viene speso nel cosiddetto settore verde nell’arco di pochi anni. Il sussidio per i veicoli elettrici non è disponibile per auto prodotte all’estero, dunque non devono stupire i dazi sul commercio “reciproco” di Trump. È una guerra commerciale con lo stesso obiettivo.

La corsa al riarmo è un altro esempio di domanda aggregata a sostegno dell’economia, ma non i demenziali impegni assunti dalla presidente della Commissione Europea per acquisti esorbitanti di sistemi energetici e di difesa statunitensi da parte della UE. Insomma, tutto ci sta dicendo che gli Stati Uniti e la UE stanno mobilitando ingenti risorse finanziarie per rimodellare il proprio sistema produttivo, finora basato sulla crescita esclusivamente delle esportazioni nette.

Ciò si tradurrà, volenti o nolenti, in ulteriori aumenti del debito pubblico, delle imposte e tagli alla spesa sociale e altri interventi pubblici.

Per finire, una breve nota sulle dichiarazioni di Draghi Mario. Recentemente, in un convegno di mistici allucinati, ha sostenuto che grazie alla «fede nel libero scambio e nell’apertura dei mercati, [... e] una consapevole riduzione del potere degli Stati [...] L’Europa ha prosperato». Ebbene, dice l’opulento pensionato, «quel mondo è finito».

Purtroppo quel mondo e i suoi presupposti ideologici non è finito. Quale Europa ha prosperato negli ultimi trent’anni? Non i salariati italiani e non i condannati al precariato a vita (le “politiche del lavoro” alla Biagi Marco). A Draghi Mario serve un po’ di contatto con la durezza del vivere. Inizierei togliendogli la scorta.

Ha prosperato l’Europa di quelli che hanno fatto festa con la svendita del patrimonio pubblico, che sono contrari alla scala mobile, che lucrano sulle tariffe, i prezzi dei beni essenziali e sulle concessioni demaniali, che beneficiano a manica larga di incentivi fiscali, che sfruttano il più sfacciato offshoring, che “manca la manodopera”, che privatizzano la sanità, che spingono l’ossessione per la digitalizzazione (a pagamento), quelli che pianificano il consumo di stupidaggini e il ritardo mentale, eccetera. Una genìa cinica e cattiva ma devota a Draghi, che ci chiede di cambiare il nostro “stile di vita”, di metterci a 90° se vogliamo il riscaldamento e il climatizzatore. 

venerdì 22 agosto 2025

Genocidio palestinese: la responsabilità degli Stati arabi


La forma di colonizzazione della Palestina da parte dei sionisti muta con il mutare della collocazione politica della Palestina nell’ambito del Medioriente. La prima di queste forme di colonizzazione è stata quella classica, caratterizzata dal trasferimento di terre di proprietà araba a proprietari ebrei. È la forma prevalente nel periodo che precede la prima guerra mondiale, quando in Palestina era già presente una modesta comunità (yishuv) ebraica prima delle due aliyah del 1881 e del 1903-05.

Questa comunità aveva un carattere coloniale tradizionale, in quanto, per lavorare le loro terre, i coloni facevano ampiamente ricorso allo sfruttamento del lavoro di braccianti arabi. Venuti per lavorare la terra con le loro mani, questi primi coloni si erano trasformati, grazie allo sfruttamento della manodopera araba e alle sovvenzioni provenienti dall’estero, in piccoli proprietari agricoli, molto prosperi rispetto ai livelli di vita in Palestina a quell’epoca.

Non si ponevano problemi di tipo nazionalistico. Il vecchio yishuv accolse perciò con ostilità e sospetto l’arrivo degli immigrati della prima aliyah (gli Amanti di Sion), vedendo in essi elementi capaci di sovvertire il loro tradizionale modo di vita, e concorrenti pericolosi nella distribuzione delle sovvenzioni inviate dagli ebrei europei e americani. Essi manifestarono apertamente la loro ostilità ai nuovi venuti e giunsero al punto di informare le autorità ottomane sul loro conto per ottenerne l’espulsione.

Con la seconda aliyah giunsero strati sociali diversi, già toccati dal sionismo (dalle diverse facce del sionismo), che reagiranno, in funzione delle proprie aspirazioni e dei propri interessi, in modo diverso all’ideologia sionista e ai problemi imprevisti posti dalla concreta “arabità” della Palestina. Si aggiunga che sulla Palestina, come su tutto l’oriente ottomano, si appuntavano gli sforzi di penetrazione delle potenze occidentali. Come ho già evidenziato in un post precedente (*), per queste ultime si trattava di esportare, qui con la guerra e la conquista, là con la diplomazia e il commercio, assai spesso combinando le due cose, i rapporti economici capitalistici.

Per un tale progetto si dovevano usare tutti i mezzi locali a disposizione: classi privilegiate pronte a riciclarsi nel ruolo di compradores, minoranze religiose o tribali inclini ad appoggiarsi allo straniero per raggiungere a proprio favore l’equilibrio intercomunitario (vedi la vicenda Thomas Edward Lawrence). Anche in questo caso lo sfruttamento capitalistico della manodopera indigena e lo sfruttamento delle materie prime costituiva il centro di gravità pratico dell’impresa coloniale.

In questo contesto, il movimento sionista interviene come soggetto e non come docile strumento di interessi economici e strategici occidentali. La sua alleanza con questi interessi è spesso conflittuale; deriva ovviamente da oggettive convergenze, ma anche da espedienti nel quadro dell’assalto del mondo occidentale al mondo arabo.

È chiaro perché i sionisti dall’inizio del secolo hanno continuamente fatto balenare davanti agli occhi dei loro interlocutori europei questa possibilità di utilizzazione della comunità ebraica. Questa funzione, essenziale per ottenere il sostegno delle potenze occidentali al progetto sionista, è solo uno strumento, non la finalità. Per i sionisti si trattava, e la storia lo ha confermato fino i nostri giorni, non di trasformare la società palestinese, ma di appropriarsi del suo spazio, del suo territorio e delle sue risorse, rimandando la popolazione palestinese nel deserto.

La volontà di possesso esclusivo dello spazio, costituisce la specificità del colonialismo sionista, che fa pensare alla colonizzazione europea dell’America del Nord. Alla radice di questa rivendicazione sullo spazio, c’è il nazionalismo ebraico: un nazionalismo suprematista e razzista, informato a creare una società completamente ebraica, dove gli ebrei avrebbero occupato tutti i livelli dell’organizzazione economica e amministrativa. Di qui la necessità di negare il popolo palestinese; di qui la necessità di quello slogan: “una terra senza popolo per un popolo senza terra”, che era e resta una favola per gli occidentali, ad uso e consumo della loro cattiva coscienza.

Subito dopo l’indipendenza, i Paesi arabi si sono impantanati in litigi interni e di vicinato, mentre Israele iniziava a costruire uno stato potente militarmente ed economicamente, coltivando la sua protezione strategica non solo a Washington, ma anche in Europa e in Asia, tramite Mosca.

Con la disfatta araba nel 1967 e l’occupazione da parte di Israele di territori arabi, posti sotto amministrazione giordana e egiziana (come la Cisgiordania e la striscia di Gaza, o parte integrante dei territori nazionali egiziani e siriani, come il Sinai e il Golan, e la riunificazione della Palestina mandataria, si è operata un’altra mutazione storica, sempre nel solco del progetto sionista della grande Israele.

La risoluzione 242 del Consiglio di sicurezza dell’ONU (e molte altre risoluzioni), tracciava a grandi linee, nel novembre 1967, lo scenario di una soluzione politica della questione arabo-israeliana: a garanzia dell’inviolabilità territoriale e dell’indipendenza per tutti gli Stati della regione e restituzione da parte di Israele dei territori occupati nel corso della guerra.

La sorte del popolo palestinese (popolo, non in quanto nozione astratta, ma in quanto comunità vivente che si confronta da decenni quotidianamente con l’occupazione militare israeliana, con l’apartheid e con l’esilio) è mutata con il mutare della sua collocazione politica nell’ambito del Vicino Oriente.

Il fanatismo islamico, abilmente manovrato da molti burattinai, non ultimi gli israeliani, ha fatto buon gioco proprio a Israele. Ed infatti l’abbandono della causa palestinese da parte dei Paesi arabi è iniziato all’indomani dell’11 settembre 2001. Gli Stati arabi che avevano consacrato questa causa l’hanno brutalmente sacrificata per difendere i propri regimi, accusati da Washington di collusione o debolezza nei confronti del terrorismo islamico. Scacco matto e partita (**).

Oggi, il Medioriente è interamente dominato da tre potenze regionali non arabe: Israele, Iran e la Turchia neo-ottomana. Ed è in questo contesto di collasso del vecchio ordine che i cosiddetti Accordi di Abramo sono stati annunciati da Donald Trump, alla ricerca di un primo successo diplomatico per coronare il suo mandato alla Casa Bianca. La svolta geopolitica arabo-israeliana ha portato a una nuova situazione in Medio Oriente e a un diffuso riconoscimento di Israele.

Senza questa svolta, Benjamin Netanyahu e i suoi complici negli Usa e in Europa non avrebbero potuto compiere ciò che hanno messo in atto.

Infine un accenno sulla questione ebraica: è stata ideologizzato dal sionismo, che sulle colpe dell’antisemitismo europeo ha fatto accettare come “diritto” dell’ebraismo l’occupazione della Palestina. E così il sogno della grande Israele ha raggiunto, con il genocidio e l’espulsione dei palestinesi, una tappa fondamentale del suo processo egemonico e razzista. Temo ci sia poco da illudersi, l’espansionismo territoriale ed economico ebraico nel prossimo futuro non si arresterà alla sola Palestina.

(*) Tra gli scopi di Londra, con la dichiarazione Balfour, vi era quello di costituire, con la nascita di uno Stato ebraico, un baluardo orientale del canale di Suez. Né va trascurato che in seguito, l’Inghilterra era riuscita a fare del porto di Haifa il terminale che collegava il flusso del greggio dei ricchissimi giacimenti di Mosul al Mediterraneo, da dove avrebbero raggiunto i depositi della Royal Navy. Con la costruzione dell’”Iraq-Haifa Pipeline”, i cui lavori furono completati nel 1934, il Regno Unito conquistava stabilmente la sua indipendenza energetica e limitava o escludeva le altre potenze mediterranee (Francia e Italia) dal controllo sulla produzione dei maggiori giacimenti petroliferi mondiali.

(**) Per chi non lo sapesse o avesse la memoria corta, ricordo che quando il presidente egiziano Anwar Sadat visitò Gerusalemme e firmò gli accordi di pace di Camp David, la Lega degli Stati Arabi escluse l’Egitto e trasferì la sua sede a Tunisi. Poi, la stessa Lega respinse la richiesta dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) di convocare un vertice arabo per condannare l’annunciata pace tra Israele ed Emirati Arabi Uniti (EAU). Dunque nulla di nuovo sotto il sole.

giovedì 21 agosto 2025

Partendo da una domanda

 

So bene che gli aridi numeri dell’economia e della finanza interessano meno, molto meno, di qualsiasi altra notizia. Tuttavia, se vogliamo tentare di capire qualcosa di ciò che sta avvenendo e soprattutto di che cosa avverrà tra non molto, è necessario far riferimento a quel genere di dati. Partendo da una domanda: nel caos delle guerre, dei cosiddetti dazi reciproci, della spirale dei deficit fiscali e del debito pubblico, del rischio geopolitico pervasivo, del radicale smantellamento dell’ordine internazionale, del declino delle prospettive di crescita globale, com’è possibile che gli indici azionari siano in continua ascesa?

Dall’8 di aprile, il punto più basso della caduta di Wall Street, l’indice S&P 500 è salito del 29% in soli quattro mesi, attestandosi ora al 5% in più rispetto al precedente massimo di mercato di febbraio. L’impennata, che negli ultimi due giorni ha subito il calo dei titoli tecnologici e dell’intelligenza artificiale, è estremamente sbilanciata. È dominata dai titoli tecnologici, con gli utili dei cosiddetti “Magnifici Sette” in crescita a un tasso annuo del 26%, mentre sono rimasti pressoché invariati per gli altri 493 titoli dellindice.

Un mercato finanziario drogato, ulteriormente evidenziato dai dati sui 10 titoli azionari più cospicui per capitalizzazione di mercato nell’indice S&P 500. Sono dominati da aziende tecnologiche guidate da Nvidia, azienda produttrice di chip, la prima azienda il cui valore di mercato ha superato i 4.000 miliardi di dollari (+1.336% in 5 anni), e includono Microsoft, Alphabet, Apple, Amazon, Tesla, Meta, Broadcom, Berkshire Hathaway e JPMorgan Chase.

La risposta alla domanda iniziale può essere semplice e sintetica, alla Totò: i mercati finanziari procedono “a prescindere”. E ciò non potrà essere, nel medio periodo, senza conseguenza per l’economia reale e tutto il resto che vi ruota attorno.

Altro tipo di risposta: concentrazione di mercato e dominio assoluto da parte delle cosiddette società tecnologiche. Negli ultimi decenni vi è stato un profondo cambiamento nella struttura del capitalismo, specie quello americano. Circa 30 anni fa le aziende leader erano quelle industriali, energetiche, dei beni di consumo di base. Le prime otto società su dieci che ho elencate sono aziende tecnologiche (Nvidia non assembla e non vende direttamente il proprio prodotto!), le altre due sono società finanziarie.

Queste dieci società, secondo i dati pubblicati dal Financial Times, rappresentano il 40 per cento dell’S&P 500; il 56 percento dell’aumento dell’S&P dall’8 aprile; il 31 per cento dell’aumento dei ricavi delle società S&P negli ultimi 12 mesi; il 55 percento della crescita dell’utile netto rispetto all’indice negli ultimi 12 mesi (nonostante un calo dell’utile netto nello stesso periodo per Apple, Tesla e Berkshire); e il 69 per cento della crescita della spesa in conto capitale nell’indice negli ultimi 12 mesi.

Pertanto, vi sono alcune società che spazzolano la tavola imbandita, rastrellano valore a scapito di tutte le altre. Ciò comporta un cambiamento significativo nelle disponibilità patrimoniali e nelle modalità di accumulazione dei profitti (i maggiori azionisti di Nvidia sono: Vanguard, BlackRock, Fidelity, ecc.).

In passato, le attività delle principali aziende dell’indice S&P erano costituite da beni materiali, come fabbriche, attrezzature e magazzini. Ma oggi circa il 90% delle loro attività è immateriale, e spazia dalla proprietà intellettuale, al valore del marchio, alle reti, codici, contenuti, talento e conoscenza. Gli Stati Uniti, in specie, sono diventati un’economia trainata dalle attività immateriali. Certo, si producono ancora saponette e hamburger, ma con sempre maggiore difficoltà in termini di redditività industriale (rapporto investimenti/profitti).

Le aziende tecnologiche fanno sempre più affidamento su forme di accumulazione parassitaria. I profitti, ad esempio, dipendono dal monopolio sui propri sistemi operativi, per i quali applica un canone sostanzialmente pari a un affitto. Se il prezzo di un telefono fosse basato sul costo dei suoi componenti, al dettaglio si ridurrebbe, per i più pregiati, a un centinaio di dollari. Sfruttano una posizione dominante sul mercato, non rastrellano solo extraprofitti a scapito di altri settori economici, ma quote consistenti di reddito e salari.

Essere i primi a muoversi nel campo della tecnologia e dell’intelligenza artificiale può portare enormi vantaggi, stabilendo così, se non un monopolio, almeno una posizione dominante sul mercato. Da qui la spinta a investire nella creazione di strutture di IA, che è stata uno dei fattori trainanti del prezzo delle azioni delle relative aziende, con l’afflusso di finanza speculativa che punta nell’aver individuato la prossima grande novità.

Le azioni di una società salgono non (solo) per il valore intrinseco del loro prodotto, ma perché affluisce più denaro sui mercati per acquistare le loro azioni (e massicci riacquisti di azioni proprie da parte delle stesse società), dando al mercato l’aspetto di uno schema Ponzi.

mercoledì 20 agosto 2025

Un agente del KGB?

 

È stata l’estate (ormai possiamo parlarne al passato: mentre scrivo è in atto un temporale e temperature in picchiata) del caro ombrellone (solo quest’anno?), del botulino, delle zanzare killer, delle “catene umane per salvare bimba dalle onde”, e simili temi estivi a bordo piscina o stesi in spiaggia. Indipendentemente dalla classe sociale, il mare è la nostra identità.

S’è parlato anche di ciò che accade nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania, quindi di venti gelidi e tappeti rossi ad Anchorage, ma sotto l’ombrellone (chi se l’è potuto permettere) è prevalso altro, da ultimo la morte di un ex mito televisivo, cotonoso profeta della domenica pomeriggio, uno che a suo tempo aveva scoperto i Beatles e i Chants de Maldoror di Lautréamont. È stato un “rivoluzionario”, dice commosso un deficiente a tempo indeterminato.

Nel mio blog, perseverando nelle mie ossessioni, s’è parlato anche di IA e di robot. A tale proposito, il mio vicino sta cercando il suo robot tagliaerba che gli è scappato via approfittando del cancello aperto. Chissà quanto durerà la sua batteria, a meno che, nel frattempo, non abbia trovato un’altra famiglia e non venga ricaricato da loro. Serve un’etichetta con il numero di telefono o un localizzatore GPS, affinché una cosa del genere non accada più. Intanto il proprietario ha attaccato degli avvisi in tutto il quartiere.

I nostri beniamini hanno lasciato i loro stazzi televisivi a giugno e per metà settembre dovrebbero riprendere il loro posto nella lanterna magica. Ci sorprenderanno con un nuovo capolavoro sulla cui copertina sarà stampigliato il loro nome e un titolo che termina con un punto di domanda, tipo: “Donald Trump sarà il Neville Chamberlain del XXI secolo?”. No, non credo sarebbe questo un titolo adatto, perché il rifermento al mistero di Neville rischia di ridurre del 73,5% gli acquirenti del libro. Meglio: “Trump un agente del KGB?”.