sabato 9 agosto 2025

Da Alexa a Gaza (in risposta a un amico)

 

Le macchine non esistono fuori dalla storia.
E se esistono nella storia, esistono in un’epoca,
e in quell’epoca si decide la relazione tra te e la macchina.

Non è vero che lo sviluppo tecnologico avviene sulla base delle idee che i ricercatori e gli imprenditori elaborano; avviene sulla base dei sistemi politici che lo consentono o che lo negano. La storia di Adriano Olivetti e di Mario Tchou n’è una conferma (l’ho già accennata 12 anni fa). Tirano fuori il primo computer a transistor della storia. Un passo di una fantasia e di una capacità creativa straordinarie. Hanno creato un computer che dava i punti all’IBM.

Questa operazione entra però in conflitto con ... sempre loro. Quelli che nell’agosto di ottant’anni fa fecero centinaia di migliaia di morti con due atomiche che non servivano a nulla salvo per dire ai russi: non ci provate a fare un altro passo verso l’Oriente e l’Europa.

Nel 1960 Olivetti viene trovato morto sul treno che da Milano va in Svizzera, in un vagone vuoto, e nessuno fa un’autopsia. Lo stesso anno Mario Tchou muore in un rocambolesco incidente di cui nessuno ha mai saputo dare una spiegazione. Cosa succede alla Olivetti? Un comitato di garanti dice che si è spinta troppo avanti con questa storia dell’elettronica, e che è meglio dare il settore alla General Electric.

Ora siamo arrivati alla cosiddetta intelligenza artificiale (IA), parliamo di ChatGPT, parliamo di qualcosa che può organizzare meglio una cosa o un’altra, ma parliamo anche di Gaza, di cosa sta avvenendo in terra di Palestina; parliamo delle macchine più distruttive sulla faccia della Terra, utilizzate per massacrare la gente. Questa è l’intelligenza artificiale. È Habsora (ne ho già accennato), una tecnologia organizzata intorno a un archivio di fonti documentarie che Israele costruisce da anni, a partire semplicemente dagli smartphone e da WhatsApp.

Non ti uccido perché sei mio nemico, ma perché ho per bersaglio una persona, e poiché tu gli stai vicino ammazzo anche te, i tuoi figli e tua nonna. Danni collaterali. Quei morti provocati dallo Stato israeliano, sono anche a carico di tutti quelli che hanno detto e continuano a dire che l’occupazione israeliana della Palestina va bene così com’è. Anche a carico di coloro che minimizzano o tacciono, facendo in sostanza da supporto al lavoro di un soldato israeliano a Gaza.

Questo spiega per cui 143 Paesi all’ONU votano per lo Stato di Palestina e nove, tra cui ovviamente Israele e Stati Uniti, si oppongono. Stanno semplicemente dicendo che sono in grado tecnologicamente e geopoliticamente di decidere loro i danni collaterali, il possibile e il non-possibile nella nostra vita, quella di un Paese la cui sovranità esiste solo sulla carta, cari signori dei palazzi romani e delle dimore ombra, che sapete bene degli accordi segreti firmati nel 1954.

Perciò parlare di macchine “intelligenti”, che ci vengono raccontate dal lato soprattutto generativo e non dal lato distruttivo, che si vorrebbero dotate, in prospettiva, di loro una “coscienza”, mi provoca un certo malessere, ma qualcuno deve pure parlarne in termini adeguati, non contro la tecnologia ma con un approccio di consapevolezza, dicendo che le macchine in un simile sistema anzitutto funzionano per realizzare rapporti di dominio e sfruttamento. Per alleggerire il discorso, parto dalla storia di un pappagallo.

Avvicinandomi a un pappagallo, questi potrebbe chiedermi in tono amichevole: “Ciao, come stai?”, dandomi la fugace illusione di essere impegnato in una conversazione ponderata con me. Naturalmente, sappiamo che sta solo ripetendo un suono appreso, senza alcuna comprensione. L’intelligenza artificiale è esattamente un “pappagallo stocastico”, è più o meno ciò che è un modello linguistico di grandi dimensioni. La differenza sta nel fatto che ha memorizzato non poche frasi, ma miliardi, e non le ripete parola per parola, ma le combina in modo plausibile. È ovvio che nel tempo darà risposte sempre più soddisfacenti, perché, come tutte le macchine, si perfezionerà ulteriormente.

Ma il punto non è questo. Il punto è che per far sì che ti dia quella risposta, occorre dire a quelle macchine cosa non va detto, muovendosi dentro margini etici e politici. Per esempio, se quella macchina è stata costruita in un certo contesto geopolitico, che cosa risponderà alla parola “Gaza”? Ci sono mille risposte per non rispondere e mille vincoli politici, religiosi, etici, morali e di altro genere per manipolare la realtà.

In ogni modo si tratta di contesti obbliganti, strutturati, dentro i quali tu transiti e con cui devi fare i conti perché se li riproduci, come ti viene chiesto, come le esigenze quotidiane ti impongono, non fai altro che riprodurre esattamente la logica di potere e la logica del contesto geopolitico. E lo fai felicemente.

Mi richiamo all’esempio del post di un paio di giorni fa: chi si dota di Alexa, per esempio, si dota di un sistema che funziona in relazione alla sua vita. Tu fornisci le tue vibrazioni sonore, individuali, ed entro un minuto Alexa è in grado di duplicare interamente il tuo sistema vocale, e nessuno potrebbe mai contestare che non sei tu ad aver detto quelle cose, perché la duplicazione tecnologica è perfetta. Siamo in un mondo tecnico che non ci appartiene più; è altro, appartiene a chi è padrone di quel sistema.

Quindi la nostra macchina interrogata sembra molto più intelligente di un pappagallo. Adatta la risposta a un pubblico prestabilito così come può adattarla a livello individuale. Tuttavia, in entrambi i casi, quello del pappagallo e della macchina, non c’è alcun pensiero cosciente dietro le parole, nessuna intenzione di comunicare un messaggio originale o alcuna profonda convinzione. Solo dei programmi che gli fanno dire ciò che è più “appropriato” e scartare ciò che viene considerato sconveniente o etichettato come falso.

Siamo arrivati al punto che le cose non hanno più un nome: la guerra la chiamano operazione speciale e l’uso del termine genocidio viene inibito come avesse un copyright.

Ciò non significa che queste IA siano inutili o completamente stupide. Tutt’altro. La loro capacità di mescolare così tanta conoscenza umana permette loro di essere estremamente utili e talvolta persino di arrivare a risultati che non avevamo previsto. Possono elaborare soluzioni o testi originali nella loro forma (attraverso ricombinazioni senza precedenti), che possono dare l’impressione di vera creatività. Ma è essenziale capire che la macchina non pensa come faremmo noi. Non ha un modello interno del mondo, né un ragionamento cosciente o una comprensione del contesto al di fuori delle parole.

L’intelligenza artificiale ha compiuto un balzo in avanti spettacolare nel linguaggio. Modelli giganti, chiamati LLM (Large Language Models), assimilano trilioni di parole da internet, libri, articoli e conversazioni e imparano a predire statisticamente la parola successiva in una frase. Armati di questa colossale conoscenza probabilistica, possono generare testi che sembrano scritti da un essere umano colto, se non addirittura da uno specialista di una determinata materia. È così che l’IA può spiegare l’effetto entanglement, scrivere poesie o dare l’impressione di ragionare su un problema complesso. A prima vista, è sorprendente: nell’era del deep learning chi se non un’intelligenza artificiale potrebbe produrre un saggio coerente su qualsiasi argomento su richiesta?

I modelli odierni prevedono solo la parola successiva in un testo, e sono così bravi che ci ingannano. E a causa della loro immensa memoria, danno l’impressione di ragionare, quando in realtà stanno solo rigurgitando informazioni su cui sono stati addestrati. In altre parole, queste IA sono eccellenti imitatori piuttosto che pensatori veramente originali. Tendiamo a credere che chiunque si esprima con eloquenza e sicurezza debba necessariamente essere intelligente e anche più intelligente di altri (*).

Negli esseri umani, questo è spesso vero (linguaggio articolato e pensiero complesso vanno di pari passo). Una macchina può manipolare il linguaggio senza comprendere. Si può manipolare il linguaggio senza essere intelligenti, che è esattamente ciò che dimostrano gli LLM e in genere i politici. Si tratta solo dell’eco dell’intelligenza.

Quando ci troviamo di fronte a IA generative, si pensa che un’IA stia fornendo una risposta con grande intuizione, quando in realtà ciò che si sente è solo un’eco di cose già dette in precedenza dagli esseri umani. In altre parole, si pensa che sia intelligente, ma la si scambia per gli sforzi intellettuali di menti umane del presente e del passato e si interpreta quell’eco come la voce orgogliosa dell’IA.

Consideriamo un semplice esempio: se chiedete a un modello linguistico di grandi dimensioni: “Cosa succede se ruoto la lettera D di 90° e la posiziono sopra la lettera J”, potrebbe rispondere: “Forma un ombrello”. Incredibile, sta visualizzando mentalmente delle lettere e deducendone una forma concreta! In effetti, questo enigma è un classico, riproposto più volte nella letteratura enigmistica.

È probabile che l’IA abbia visto esattamente questa domanda e risposta durante il suo addestramento, o almeno un numero sufficiente di varianti per ricavarne lo schema. La nostra meraviglia deriva dalla nostra ignoranza di questa storia precedente: pensiamo che l’IA sia creativa, quando in realtà è solo erudita. Questa è la differenza tra scoprire una soluzione e semplicemente memorizzarla senza conoscerla. Ciò che percepiamo come un lampo di intelligenza da parte della macchina è semplicemente un’eco dell’intelligenza umana passata.

Lo stesso vale quando vediamo ChatGPT superare con successo compiti complessi come test di matematica o di giurisprudenza. Data l’enorme quantità di testi che ha “letto”, molto probabilmente ha già visto risolvere problemi simili dagli esseri umani. E anche se non fosse esattamente così, ha individuato così tanti schemi da poter generalizzare delle varianti. In effetti, questi modelli sono eccellenti statistici del linguaggio: tracciano correlazioni tra frasi e idee, senza avere la minima idea di cosa significhino nel mondo reale.

La macchina non ha bisogno di capire che un ombrello protegge dalla pioggia; deve solo aver imparato che le parole “D sopra J” compaiono spesso vicino alla parola “ombrello” in un corpus. È un gigantesco gioco di associazioni automatiche.

Inoltre, non appena spingiamo queste IA un po’ oltre i loro limiti, l’illusione si incrina: a volte generano errori assurdi, possono contraddirsi, fare affermazioni incoerenti se usciamo dai sentieri battuti dei loro dati di addestramento. Questo ci ricorda che non sanno quello che dicono, nel senso che noi umani lo capiamo e loro no.

Sono incredibilmente brave queste AI a produrre risposte che sembrano plausibili, ma non sono necessariamente vere o significative. Tutte queste prestazioni impressionanti sono in realtà solo un’ottimizzazione statistica, senza comprendere perché le cose siano come sono: non hanno ancora raggiunto il traguardo di una vera intelligenza generale. Quanto a una coscienza, fosse quella del mio cane, non la raggiungeranno mai.

E questo l’ho già spiegato in precedenza: l’essenza umana, che non è un’astrazione inerente al singolo individuo, è nella sua realtà l’insieme dei rapporti sociali (vedi VI Tesi su Feurebach). La coscienza umana non è una qualità immediata dell’individuo, perciò il processo di appropriazione si ottiene nel corso dello sviluppo dei rapporti reali del soggetto col mondo. Questi rapporti dipendono non dal soggetto, non dalla sua coscienza, ma sono determinati dalle concrete condizioni storiche e sociali nelle quali egli vive.

Viceversa, le macchine, per quanto dotate di istruzioni e informazioni, per quanto comunichino tra loro, per quanto siano il mezzo più sviluppato del controllo sociale, non hanno rapporti sociali, né alcun rapporto reale col mondo perché ontologicamente incapaci di sviluppare un’autentica empatia con l’essere umano o con qualsiasi altro essere animale.

Vedere una macchina padroneggiare il linguaggio con tanta abilità, dopo che il linguaggio articolato è stato a lungo appannaggio della mente umana e dell’esistenza naturale delle nostre comunità, offusca i nostri punti di riferimento. Ma per capire perché questa padronanza rimanga superficiale, dobbiamo scavare in ciò che a queste IA manca e mancherà per sempre per pensare come noi, e che solo per un aspetto riguarda quella modalità di pensiero lenta, deliberata, logica e cosciente che caratterizza la parte più riflessiva dell’intelligenza umana.

Una macchina, per quanto sofisticata, incorpora nelle sue probabilità verbali il modo in cui gli umani usano il linguaggio quando pensano. Il risultato è che può riproporre una catena coerente di argomentazioni, dando l’impressione di farlo. Ma in realtà non capisce cosa sta “pensando”. Eseguire un programma (per quanto sofisticato) non è sinonimo di comprensione. Anche la più perfetta simulazione del pensiero non è il pensiero stesso. In altre parole, imitare un comportamento intelligente non implica che ci sia intelligenza all’opera.

Ora, si vuole dotare l’IA di capacità di elaborazione più vicine al pensiero umano, ad esempio, integrando moduli di logica formale, consentendo all’IA di “porsi domande” prima di rispondere (una tecnica di ragionamento a catena che costringe il modello a spiegare un ragionamento passo dopo passo), fino a combinare la capacità di memorizzazione del deep learning con il rigore logico dell’apprendimento simbolico.

Le macchine cosiddette intelligenti non possiedono funzioni psichiche e forme complesse culturali del comportamento, con tutte le caratteristiche funzionali e strutturali ad esse proprie. Per spiegare lo sviluppo storico del comportamento e del pensiero non si può ignorare la natura storico-sociale di questo processo, nei mutamenti profondi delle funzioni psichiche superiori, che di fatto costituiscono il contenuto dello sviluppo culturale del comportamento umano.

«Nel processo di sviluppo storico non sono tanto cambiate le funzioni psicofisiologiche elementari, quanto profondamente e totalmente sono invece mutate le funzioni superiori (pensiero verbale, memoria logica, formazione dei concetti, attenzione volontaria, volontà e via di seguito).» (Lev Vigotskij, St. dello sviluppo delle funz. psichiche superiori, Giunti-Barbera, p. 66).

Oggi vediamo quadri “dipinti” da algoritmi, musica “composta” dall’IA, articoli o testi “scritti” da macchine. Dovremmo vedere questo come l’alba di una creatività artificiale che supera quella umana? O è ancora solo una forma elaborata di riciclo? Dopotutto, la creatività umana stessa consiste spesso nel ricombinare influenze passate. Perché l’IA non potrebbe essere definita creativa se fa la stessa cosa su larga scala?

Le nostre opere sono fatte di esperienze accumulate. La differenza, sta nel fatto che il creatore umano vive e comprende ciò che sta trasformando, e può volontariamente discostarsi dalle proprie influenze, avere un’intenzione dietro il proprio lavoro. L’intenzione, lo scopo, è molto importante, ma l’IA non ha alcuna intenzione propria. Non cerca di significare nulla con il suo lavoro. È questo, mi rendo conto, un discorso che andrebbe sviluppato.

L’IA è confinata nello spazio delle possibilità già esplorate dall’umanità e registrate nei suoi dati. Può navigare in questo spazio prodigiosamente, cercando ai margini associazioni improbabili (ed è anche per questo che a volte sorprende, combinando idee che pochi umani avrebbero pensato di collegare). Ma non ha accesso al vero ignoto.

Detto questo, non possiamo escludere del tutto la possibilità che un giorno si verifichi l’emergere di comportamenti creativi più profondi. Dopotutto, se costruissero IA capaci di avere una qualche forma di motivazione (simulata), forse assisteremo all’emergere di una creatività aliena che non assomiglia alla nostra ma produce vere e proprie novità. Questo sarebbe allora il segno che abbiamo compiuto un passo verso una intelligenza artificiale più evoluta tecnologicamente. Ma non potrà mai avere il senso del mondo reale.

Ad ogni modo, siamo sull’orlo di un abisso, ma non per colpa dell’AI e di altre tecnologie. Anche per colpa nostra. Spetta a noi decidere come andare avanti, ma intanto non dobbiamo rimanere in silenzio e quantomeno chiederci urgentemente dove siamo posizionati su quel bordo e in quale direzione muovere per non finirci dentro.

(*) Questo il vantaggio dell’uomo istruito su un uomo non istruito, parlando sulle generali. Questo il vantaggio, la supremazia di secoli, dell’uomo bianco su tutti gli altri. Di una classe sociale sulle altre. Da ciò la pretesa e convinzione di superiorità.

venerdì 8 agosto 2025

In modo piuttosto approssimativo ma realistico

 

Prosegue l’atto conclusivo della cacciata dei palestinesi dalla Palestina da parte dei sionisti. Ne resteranno solo una piccola aliquota, quelli destinati a certe attività produttive e ai servizi. Ovviamente non avranno gli stessi diritti riconosciuti dalla Stato sionista ai cittadini della propria razza. Il riconoscimento dello stato di Palestina annunciato da alcune nazioni europee potrà attendere con orgoglio l’ultimarsi dello sgombro.

Tutto ciò sta avvenendo nei giorni nei quali si commemora (assai in sordina) il più grande crimine bellico del Novecento: l’annientamento di due città giapponesi con l’arma atomica da parte degli Stati Uniti.

Si narra che la distruzione delle due città evitò un ancor più grande spargimento di sangue se si fosse proceduto a un’invasione terrestre del Giappone. In realtà il Giappone e le sue forze armate erano allo stremo. Le città bombardate e rase al suolo, come Tokio, senza più rifornimenti, specie di petrolio dall’Indonesia.

Il Primo ministro, l’ammiraglio Kantarō Suzuki, propose di avviare trattative di pace con la mediazione dell’Unione Sovietica, sfruttando la posizione di neutralità che il Giappone aveva mantenuto con il paese per tutta la durata della guerra. I primi contatti avvennero tra Hirota e l’ambasciatore sovietico a Tokyo Jakov Malik, ma non approdarono a nulla, stante l’accordo della Russia con gli altri alleati e la prevista dichiarazione di guerra al Giappone.

Dopo aver decifrato il Codice Viola giapponese, i funzionari statunitensi sapevano che l’ambasciatore giapponese in URSS, Sato Naotake, stava discutendo le condizioni di resa a Mosca. Il 30 giugno 1945, Sato aveva ricevuto l’ordine di comunicare al Cremlino che l’imperatore giapponese Hirohito desiderava che la guerra fosse “terminata rapidamente”, ma che ciò era impossibile “finché Inghilterra e Stati Uniti avessero insistito sulla resa incondizionata”. Tokyo voleva garanzie che gli Alleati vittoriosi avrebbero lasciato la famiglia imperiale al potere dopo la guerra.

Per Washington il punto in questione non si poneva: gli Usa erano disposti a mantenere al potere l’imperatore giapponese (come infatti avvenne), nonostante i crimini di guerra commessi dal Giappone, tra cui una guerra di occupazione genocida in Cina che costò 20 milioni di vite. In ballo vi erano altre due ben più decisive questioni: la concordata entrata in guerra dell’Urss contro il Giappone e la sperimentazione, non più solo in vitro, degli effetti in corpore vili delle nuove armi.

L’8 di agosto, truppe sovietiche erano penetrate nel Manciukuò, mettendo fine allo Stato fantoccio creato dai Giapponesi (vedi il film di Bertolucci, L’ultimo imperatore). Tra i pochi a riconosce il Manciukuò negli anni Trenta vi fu l’immancabile Vaticano e la Spagna franchista.

L’offensiva sovietica, sferrata con grandi forze meccanizzate e motorizzate, raggiunse in pochi giorni notevoli successi e si concluse con la disfatta completa dell’armata giapponese del Kwantung e con l’occupazione della Manciuria, di parte della Corea e di alcune isole nipponiche.

A quel punto, la resa giapponese era questione di giorni, al massimo di settimane. Tutto ciò avveniva nello stesso periodo nel quale i capi di stato maggiore alleati approvarono le direttive per l’operazione Olympic, il piano di invasione del territorio metropolitano giapponese che avrebbe dovuto prendere il via il 1o novembre.

Pertanto, c’era tutto il tempo per attendere la resa giapponese prima dell’invasione, e dunque per il lancio delle atomiche. Sennonché, a quel punto della seconda guerra mondiale, l’offensiva russa in Cina, rappresentava un serio ostacolo agli interessi statunitensi in Asia e nel Pacifico.

Era tempo di “occuparsi dei russi”, scrisse il Segretario alla Guerra Henry Stimson in uno dei suoi promemoria al Generale George Marshall, allora Capo di Stato Maggiore di Truman. Questo poteva essere fatto “in modo piuttosto approssimativo e realistico”, aggiunse Stimson, poiché “abbiamo un’arma che sarà unica nel suo genere”.


giovedì 7 agosto 2025

Grazie, Alexa

 

La scorsa settimana e ieri pomeriggio mi sono capitati due fatti che mi hanno fatto riflettere: in un negozio la proprietaria parlava con Alexa (un dispositivo) come si trattasse di una persona. Ieri è successo a me con una assistente vocale. A un certo punto, m’è sfuggito un “grazie”. Com’è possibile accadano queste cose? (*)

Possiamo essere facilmente ingannati da una macchina quando imita abbastanza bene un comportamento intelligente. Ma cosa c’è in noi che ci fa vedere una coscienza dove c’è solo un meccanismo? Per capirlo, diamo un’occhiata alla nostra tendenza ad antropomorfizzare le macchine.

Nel 1997, la super intelligenza scacchistica di IBM, Deep Blue, affrontò il campione Garry Kasparov. Durante la partita, il computer fece una mossa così inaspettata e strategica che disorientò Kasparov. Era convinto di aver individuato una qualche forma di ragionamento superiore o di intervento umano dietro questa mossa “eccessivamente” intelligente. La realtà era molto più banale: la mossa brillante era il risultato di un problema di software. Incapace di decidere una mossa, Deep Blue aveva giocato una mossa casuale, che Kasparov interpretò come un gesto di intelligenza machiavellica.

Nel 1966, al MIT, l’informatico Joseph Weizenbaum creò ELIZA, uno dei primi chatbot della storia. ELIZA si atteggiava a psicoterapeuta rogersiano: riformulando le frasi dell’utente come domande “Ti sento, parlami di tua madre ...”, il programma dava l’illusione di ascoltare e capire. Weizenbaum aveva progettato ELIZA come una parodia volta a mostrare la superficialità degli scambi uomo-macchina.

Con sua grande sorpresa, molti utenti presero ELIZA sul serio. La sua stessa segretaria, dopo alcuni minuti di conversazione con il programma, chiese a Weizenbaum di lasciare la stanza per il suo colloquio privato con ELIZA! Il ricercatore rimase stupito dalla facilità con cui un software così limitato potesse avere umanizzato l’illusione di comprensione. Questa reazione inaspettata ha dato il nome all’”effetto ELIZA”, che descrive la nostra tendenza a equiparare inconsciamente il comportamento del computer al comportamento umano quando il computer adotta l’aspetto dell’interazione umana.

Tendiamo ad attribuire caratteristiche umane – emozioni, intenzioni, personalità – alle macchine non appena assumono in qualche modo un comportamento sociale. Ad esempio, i media e il pubblico in generale parlano del chatbot ChatGPT come se pensasse e volesse qualcosa, perché risponde in modo molto fluente nel linguaggio umano.

In realtà, ChatGPT predice solo la probabile parola successiva in una frase utilizzando enormi database di testo. Ma più le sue risposte imitano il linguaggio umano, più è allettante attribuirgli qualità umane come emozioni o una volontà propria. Le nostre stesse parole tradiscono questa inclinazione, fino a farci dire o pensare “ha deciso di rifiutare la mia richiesta” o “questo robot capisce cosa sto dicendo”, quando in realtà dietro ci sono solo calcoli privi di coscienza.

Di fronte a una tecnologia nuova e complessa, immaginarla funzionare come un essere umano ci rassicura, perché la rende più prevedibile ai nostri occhi. Attribuire una personalità o delle intenzioni ad Alexa o altri dispositivi simili è un modo per addomesticare la tecnologia, conferendole caratteristiche familiari. Inoltre, spesso riflette anche la limitata comprensione del pubblico sul funzionamento effettivo di questi sistemi. In breve, diamo un volto umano alla scatola nera per accettarla meglio nella nostra vita quotidiana.

Questa tendenza profondamente umana è radicata nella nostra psicologia. Il nostro cervello è costantemente alla ricerca di significato, schemi e coerenza, a volte anche dove non ce ne sono. È intuitivo e sopprime l’ambiguità, sceglie la versione più significativa della realtà. Questo è un vantaggio per dare un senso al mondo, ma ci gioca brutti scherzi.

Proprio come vediamo forme familiari nelle nuvole (un volto, un animale) puramente percettive, vediamo uno “spirito” familiare in un chatbot scherzoso o in un robot sorridente. Il nostro cervello impone una storia coerente a un comportamento, anche se ciò significa colmare le lacune con l’immaginazione. L’antropomorfismo ne è un esempio: di fronte a pochi segnali (una voce sintetica che dice “ciao”, un testo che usa la parola “io”), attiviamo spontaneamente i nostri schemi sociali e rispondiamo alla macchina come se fosse dotata di intenzioni o coscienza.

Nonostante tutti i nostri progressi informatici (ma proprio per questo!), siamo ancora inclini a queste proiezioni. Molte persone hanno provato una fitta al cuore quando hanno sentito per la prima volta la voce dolce di un assistente vocale, o si sono rivolte ad Alexa educatamente (“per favore “, “grazie”) come se si trattasse di una persona. Ci sentiamo persino tristi quando adottano un tono triste o si rifiutano di rispondere, a dimostrazione del fatto che l’illusione emotiva funziona.

Ancora più preoccupante, alcune persone oggi stanno sviluppando veri e propri legami emotivi con gli agenti conversazionali. Abbiamo visto di questi dispositivi fungere da confidenti virtuali, al punto che l’attaccamento dell’utente è molto reale, anche se l’”amicizia” da parte del dispositivo è ovviamente una finzione. I nostri sentimenti possono essere intrappolati dall’illusione tanto quanto le nostre menti.

Non significa essere ingenui o stupidi. È una conseguenza del funzionamento della nostra cognizione sociale. Siamo programmati per rilevare agenti, intenzioni, ovunque intorno a noi. Quando un’entità non umana si comporta anche solo vagamente come un essere umano, il nostro primo istinto è percepirla come tale.

Il problema è che più l’IA diventa sofisticata, più convincente diventa l’illusione. I primi chatbot come ELIZA erano relativamente facili da individuare dopo alcune conversazioni ripetitive. Ma i modelli attuali, possono sostenere una conversazione complessa per lungo tempo senza commettere errori linguistici evidenti. Diventa quindi naturale, nella foga del momento, dimenticare la natura meccanica dell’altra “persona”.

Il nostro cervello sociale è in modalità pilota automatico. Questo è affascinante perché rivela fino a che punto linguaggio e comportamento siano sufficienti a suggerire “intelligenza”. Il Test di Turing, ideato nel 1950: se una macchina riesce a sostenere una conversazione indistinguibile da quella di un essere umano, allora è considerata “pensante”. È solo un’imitazione priva di coscienza, ma l’effetto su di noi è praticamente lo stesso.

Ritornerò sull’argomento.

(*) Con l’esigenza dell’esercito di avere a disposizione una notevole potenza di calcolo, gli esperimenti per costruire un calcolatore digitale accelerarono durante la Seconda Guerra Mondiale, ma rimasero insoddisfacenti. Alla fine del conflitto, un certo John Neumann (1903-1957), avrebbe fatto compiere un grande balzo in avanti. Nato a Budapest col nome di János Lajos, si rivelò presto un bambino molto dotato: all’età di 6 anni, imparava a memoria i libri, ripetendo all’istante intere pagine di elenco telefonico che gli erano state mostrate solo per pochi istanti o eseguendo rapidamente a mente divisioni con due numeri da otto cifre.

Da Wikipedia: «John von Neumann è stato una delle menti più brillanti e straordinarie del secolo scorso. Insieme con Leó Szilárd, Edward Teller ed Eugene Wigner faceva parte del “clan degli ungheresi” ai tempi di Los Alamos e del Progetto Manhattan. Oltre a essere ungheresi, tutti e quattro erano ebrei».

I creatori dell’informatica erano matematici o fisici, tutti più o meno autistici e con evidenti fisse ideologiche: anche Janos maturò la convinzione che gli aspetti economici e sociali e le relazioni tra individui potessero essere trattati in termini matematici.

Leggo da Wikipedia che fu Neumann a suggerire come lanciare la bomba atomica a Nagasaki per creare il maggior numero di danni e di morti. Si spinse oltre, proponendo alle autorità militari di bombardare preventivamente con armi nucleari l’Unione Sovietica per scongiurare il pericolo rosso. La sua teoria dei giochi fu utilizzata in questo contesto per studiare e ipotizzare tutti i possibili scenari bellici che si possono sviluppare in seguito a certe decisioni.

Ognuno segue il proprio destino, come ebbe a dire la mamma di Forrest Gump: probabilmente furono le radiazioni dei numerosi test atomici ai quali Neumann assistette a condannarlo a morte.

Nel 1948, Alan Turing lavorava all’Università di Manchester su uno dei primi computer commerciali, il Manchester Mark I. Turing consigliava ai giovani ingegneri di programmare la macchina come un bambino che impara, non come un adulto che sa già molto.

Nel 1950, Turing scrisse un articolo fondamentale: Computing Machinery and Intelligence, che gettò le basi per quella che non era ancora chiamata intelligenza artificiale. Egli credeva che entro il 2000 avremmo avuto macchine dotate di un comportamento intelligente indistinguibile dal ragionamento umano.

Arriviamo al 1956. Quell’estate si tiene al Dartmouth College nel New Hampshire una conferenza fondativa: il Dartmouth Summer Research Project sull’Intelligenza Artificiale. Si affermò che la conferenza avrebbe dovuto “procedere sulla base della congettura che ogni aspetto dell’apprendimento o qualsiasi altra caratteristica dell’intelligenza possa, in linea di principio, essere descritto con tale precisione che si possa realizzare una macchina in grado di simularlo”.

mercoledì 6 agosto 2025

Seminerio

 

Seminerio sa tante cose, e sa perché l’Urss è implosa. È uno dei tanti che pensa sia stato principalmente per un fatto connesso all’economia. Roba di aratri e calze di nailon. Le storture di un’economia pianificata (male). Le statistiche su di lui agiscono come carta moschicida: impigliato nella colla dei numeri. Se gli si dà corda è pronto a sciorinarne mezza tonnellata di ineccepibili, anche con sottotitoli in italiano.

Seminerio, così come sapeva del bisogno di democrazia nei paesi del blocco sovietico (s’è visto!), presume di sapere che cos’è la Russia di oggi (una feroce dittatura, senz’altro). Come già Hegel, anche lui ha la sua preghiera quotidiana. Sono più di tre anni che, al mattino prima del caffellatte, sbircia al microscopio le statistiche sull’imminente crollo dell’economia russa. È noto che la verità storica va cercata nei numeri.

Seminerio non è il solo a puntare sul crollo della Russia (poi a dire: avevo ragione!). Neanche lo sfiora il fatto che con le difficoltà economiche e militari della Russia di Putin si accrescerebbe la nostra dose di brividi nucleari, stante il fatto che dai due lati della barricata vi sono dei folli col cerino in mano.

Seminerio, se non fosse per la capigliatura e l’assenza di rotacismo, potrebbe aspirare ad essere un Federico Fubini dell’area blogger.

martedì 5 agosto 2025

Il cammino ascendente del militarismo tedesco

 

A giustificazione del massiccio riarmo europeo, si citano ragioni di sicurezza in riferimento alla Russia. Dapprima va rilevato che tutti gli Stati, e quindi anche la Russia, possono trovare soluzione ai loro problemi di sicurezza soltanto nel contemperamento delle sicurezze rispettive di ognuno. La Russia non minaccia le frontiere né della Francia, né della Germania, né dell’Italia, e tantomeno della Gran Bretagna. La Nato è presente a ridosso delle frontiere russe.

Il vero casus belli per il quale si fronteggiano Russia e Ucraina, com’è noto, non riguarda principalmente il contrasto tra i due Stati sui territori di confine. Il principale motivo che ha spinto il Cremlino a invadere l’Ucraina nel 2022 riguarda proprio il tema della sicurezza. Pertanto nessuna trattativa di pace andrà a buon fine tra l’Ucraina e la Russia per il semplice motivo che i principali partener della NATO non sono disposti ad accettare le richieste principali della Russia se non sarà consentito di dislocare le proprie forze NATO in Ucraina.

Il progetto è quello di mettere mani e piedi, prima o poi, in quella ampia fetta di mondo che si chiama Siberia (subito di là degli Urali) e avere campo libero per l’Artico. Questo come motivo principale. Poi, s’aggiunge il fatto che qualunque cessione territoriale da parte ucraina viene intesa come un insopportabile sacrificio; così come, allo stato delle cose, qualunque guadagno territoriale da parte della Russia non sarebbe inteso come sufficiente.

Che poi la Russia costituisca una reale minaccia per l’Europa, è semplicemente una fola. Troppo grande la sproporzione delle forze convenzionali che possono essere messe in campo dai Paesi dell’Alleanza atlantica a fronte di quelle russe. È pertanto necessario chiedersi a chi serva realmente il riarmo, magari a riguardo della Germania. Si guardi con preoccupazione il cammino ascendente della Germania come potenza militare.

Berlino ordinerà 3.000 veicoli blindati Boxer e 3.500 veicoli da combattimento di fanteria Patria (azienda finlandese) per un valore di 17 miliardi di euro, oltre a jet Eurofighter, eccetera. Questo fa seguito all’impegno del cancelliere tedesco Friedrich Merz, assunto a maggio, di utilizzare il programma di riarmo di Berlino da 1.000 miliardi di euro per rendere la Bundeswehr tedesca “l’esercito convenzionale più forte d'Europa”.

Pertanto, Putin e la Russia non possono essere considerati i soli responsabili di questa situazione bellica e di corsa al riarmo, e anzi sono essi stessi tirati in ballo da pregresse decisioni altrui (NATO).

Infine, se Trump dovesse effettivamente imporre dazi del 100% ai paesi che commerciano con la Russia, il risultato potrebbe portare a un forte squilibrio del commercio mondiale. Tra gli acquirenti di petrolio e gas russi non ci sono solo le principali economie asiatiche come Cina, India e Turchia, ma anche, nonostante le sanzioni dell’UE contro la Russia, diversi stati membri: Ungheria, Belgio, Francia, Slovacchia, Repubblica Ceca e, un pochino (gasdotto TAP e, in misura minore, gas naturale liquefatto), anche l’Italia di Meloni- Mattarella.

lunedì 4 agosto 2025

L'annientamento di un popolo


Nelle ultime settimane, gli attivisti ebrei hanno organizzato diverse proteste chiedendo insediamenti israeliani a Gaza, mentre alla Knesset si è tenuta una riunione per chiedere “l'emigrazione volontaria” (!) dei cittadini di Gaza all’estero.

Dalla città di Sderot, hanno marciato verso Gaza fino al punto di osservazione di Asaf Siboni, dove gli israeliani si divertono (termine esatto) a contemplare le rovine della città di Beit Hanoun. Il 31 luglio, gli attivisti hanno sventolato bandiere israeliane, ma anche striscioni arancioni, il colore di Gush Katif, il blocco di insediamenti evacuati da Gaza nel 2005. I manifestanti, hanno assicurato al microfono, erano pronti a entrare a Gaza non appena fosse stato dato il via libera. Il ministro delle Comunicazioni Shlomo Karhi, membro del partito Likud di Netanyahu, ha dichiarato: “Vogliamo l’intera Striscia di Gaza. I nostri soldati sono lì, stanno conquistando il territorio e gli insediamenti ebraici sono una necessità. Questa è la realtà”.

Cosa succederà a Gaza dopo la guerra? A marzo, il video “Trump Gaza” è diventato virale. Ci ha offerto una visione onirica del presidente americano, ma è la stessa visione che hanno tutti gli ebrei a proposito della Palestina. Il progetto sionista della Grande Israele è nelle loro comuni aspettative, esplicite o no.

Vale la pena ricordare (sì, ricordare sempre) che l’80% dei palestinesi fu espulso dalla Palestina al tempo della Nakba, nel 1948, e poi con quello che seguì il 1967, il Grande Israele, la colonizzazione, eccetera. Colonizzare un popolo, voler prendere la sua terra, distruggere la sua cultura, è un crimine. Questo gli ebrei non lo vogliono ammettere.

“Non penso che nella Striscia di Gaza sia in corso un genocidio”. È la posizione della senatrice Liliana Segre e del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, che poche ore fa ha soggiunto che “cose orribili sono successe” durante l’azione di Hamas il 7 ottobre del 2023.

Pertanto, su tale presupposto viene ad essere giustificato ciò che sta accadendo nella striscia di Gaza, dove gli abitanti, rase al suolo le loro città, soffrono la fame e la sete. “Si sta diffondendo una carestia di massa”, hanno dichiarato un centinaio di organizzazioni umanitarie già nel lontano 23 luglio scorso. Le agenzie delle Nazioni Unite affermano la stessa cosa da diverse settimane.

Dichiara Segre: “[...] mi sono sempre opposta e continuo a oppormi a un uso del termine genocidio che non ha nulla di analitico, ma ha molto di vendicativo”. Si tratterebbe dunque di “vendetta” contro Israele. Da parte di chi? Segre dà la colpa di ciò che accade oggi nella Striscia e in Cisgiordania al popolo palestinese!

Si tratta sempre del solito ricatto, di ribaltare sulle vittime di oggi le colpe del nazifascismo. Si stanno commettendo a Gaza crimini contro l’umanità, crimini di guerra, la distruzione della vita quotidiana di un popolo, delle sue scuole, delle sue università, delle sue case, della sua stessa esistenza con il ricatto della fame e della sete. Che cosa occorre ancora per dire delle parole chiare su ciò che è evidentemente una strategia di annientamento di un popolo?

Israele, come sostiene David Grossman, è uno Stato genocida. Con la complicità di quello che chiamiamo Occidente. Sono continuate le vendite di armi all’esercito israeliano. Non ci sono sanzioni contro Israele e i suoi leader sono liberi di andarsene a spasso per il mondo, nonostante tutte le richieste delle corti internazionali, gli appelli delle Nazioni Unite e di tutte le agenzie.

Il presidente Joe Biden, ha ripetuto per anni, come in un loop infinito, che “non devi essere ebreo per essere sionista”. In effetti, ha mantenuto fede alla sua massima dichiarando, in numerose occasioni, “Sono un sionista”. Qualsiasi quadro morale o legale a cui Washington e i suoi alleati occidentali avrebbero dovuto attenersi è stato abbandonato. Sono dei sionisti o sotto ricatto del sionismo. Basta unire i famosi ... puntini.

Confrontando tutto ciò con la reazione dell’Occidente alla cosidetta “operazione speciale” russa in Ucraina, abbiamo a che fare con un’altra guerra: “una guerra di aggressione, una guerra di invasione, quella dell’imperialismo russo contro l’Ucraina e come minaccia nel nostro continente. Lì, unanimità, sanzioni, proteste, mobilitazioni, dichiarazioni di tutti i leader europei”.

Il solito doppio standard, la logica del potere, del dominio, della civiltà superiore. E dire che secondo il diritto internazionale i palestinesi sono considerati “persone protette” (*). Solo negli ultimi giorni alcuni leader occidentali si sono espressi per il riconoscimento di uno Stato palestinese. Non immediato, ma tra qualche tempo. Quale ipocrisia (non conosco parola più forte), Un riconoscimento che avverrà, se avverrà, con un ritardo di almeno qualche decennio, ossia quando si sa bene che in quella terra di palestinese non è rimasto quasi più nulla.

L’Occidente mai come ora s’è smascherato agli occhi del mondo. Il mondo vede che siamo ipocriti. Il mondo vede che pratichiamo discorsi ambigui e che stiamo calpestando i valori che proclamiamo. E non ci crede più. Non ci considera e non ci rispetta più (da tempo).

(*) Il diritto internazionale relativo alle regole della guerra e dell’occupazione militare fa parte di un quadro – definito in particolare dalla Quarta Convenzione di Ginevra – che mira a difendere i diritti degli occupati e non quelli dell’occupante. I governi occidentali, a partire dagli Stati Uniti, hanno violato ogni regola etica, morale e giuridica da loro stessi elaborata, redatta, promossa e persino imposta al resto del mondo nel corso di decenni. 

domenica 3 agosto 2025

Una realtà che sfugge ai più

 

Alessandro Profumo, detto “Arrogance”, è stato amministratore delegato del gruppo UniCredit, presidente del Monte dei Paschi di Siena e da ultimo a.d. di Leonardo, ex Finmeccanica.

Alessandro non è figlio di operai, e dopo il liceo non raccoglie mele in Val Tidone e non fa il cameriere, ma va a lavorare in banca. Si sposa a 19 anni, con una ragazza, Sabina, il cui padre è uomo di fiducia di un certo Cefis. Sabina, cattolica, rampante, interventista, disinvolta motociclista, è stata, fino alla sua defenestrazione (pare per il suo aspro carattere), direttore esecutivo della Fondazione Eni “Enrico Mattei” (un club di bella gente, con presidente Emma Marcegaglia).

Nel 2007 Sabina è eletta nella Costituente del Pd (con Rosy Bindi). Insomma, una signora di sinistra, come Luca Josi (lo Schopenhauer di Lilli Gruber), che non mette in tavola le bottiglie di champagne ma le scaraffa per non sembrare cafona. Non è una snob, non è una di quelle che “prendono il tè, lei lavora”. Ama i luoghi remoti, gli angoli off, non contaminati da lussi, musiche e piazzette (intollerabili romanità); nemmeno le Maldive, molto meglio il Mozambico, per poter dire: “ci sono stata solo io”.

Anche il marito, Alessandro Profumo, è di sinistra (ovviamente, direi), già veltroniano e prodiano, a volte anche bersaniano, ma dichiara di non aver mai avuto la tessera del Pd.

Pur essendo un genio precoce, Profumo si laurea a 30 anni. Quindi lascia il settore bancario e passa per McKinsey (cursus honorum obbligatorio). Successivamente è capo relazioni istituzionali alla Bain, una delle più ambiziose società di consulenza al mondo, quindi direttore centrale per il gruppo assicurativo RAS. A soli 37 anni, Alessandro è già direttore generale del Credito Italiano, non proprio una banchetta.

Con la nascita del gruppo UniCredit (1998) assume la guida del nuovo colosso bancario, dove ha guadagnato 97,7 milioni in dieci anni, più altri milioni di azioni gratuite. Il merito va premiato. Nel 2010 riceve dalla banca una buonuscita di 40 milioni di euro (UniCredit aveva offerto “solo” 25 milioni, ma è stata la moglie Sabina a impuntarsi per un assegno d’oro più consistente). Però attenzione, il 5% Profumo lo devolve in beneficenza. Sotto la dura scorza del banchiere, batte un gran cuore di filantropo.

Per quale motivo ne parlo oggi? Pur essendo noto per essere “abituato più ad annuire e a rispondere per monosillabi”, ha rilasciato una intervista al quotidiano di Confindustria. Intervista che apre così:

«Esiste una struttura della realtà che sfugge ai più. Ho guidato una banca come Unicredit e un gruppo industriale come Leonardo e ho presieduto Monte dei Paschi. Mi sono reso conto che in alcuni passaggi accadono cose poco comprensibili, che sembrano basate su logiche guidate nell’ombra e dall’ombra e dunque lontano dalla chiarezza e dalla nitidezza del potere e delle responsabilità, che con tutti i loro limiti caratterizzano l’economia e la politica. Quindi unisci i puntini, capisci che esiste un disegno. Il problema è che non è sempre chiaro di chi sia questo disegno. Qualcuno definisce tutto ciò massoneria. Io non so quale nome attribuirgli. Anche per questo, sto tanto bene adesso a fare quello che faccio».

Abbiamo a che fare con un paranoico complottista? C'è ne sono tante, a milioni, di persone che immaginano complotti nell’ombra. Non è certamente il caso di Alessandro Profumo. E non si tratta nemmeno, in senso stretto e in generale, di massoneria. Profumo sostiene di non sapere di che cosa si tratti esattamente. E invece sa benissimo di che cosa si tratta, per quello dice che adesso sta bene a fare quello che fa, cioè il pensionato (*).

Profumo non può dire pubblicamente quello che sa esattamente. E nemmeno io posso scrivere quello che intuisco essere una realtà aliena che nell’ombra governa tutti i processi essenziali dell’economia e del potere. Perché non possiamo dirlo pubblicamente? Perché non saremmo creduti. Ne offro un indizio: Trump può permettersi di far ingoiare qualunque aroma alla dottoressa Ursula Albrecht, ma non può sostituire JPow senza il placet di quella struttura che governa “nell’ombra e dall’ombra”.

(*) Il pensionato d’oro massiccio, nell’agosto dell’anno scorso, per esempio, a Milano, davanti al notaio Monica Zara s’è presentato per presiedere un’assemblea degli azionisti della Nicla srl, costituita nel 2011, di cui il manager ed ex banchiere è socio paritetico al 50% con la moglie Sabina Ratti, mentre in consiglio d’amministrazione siede, fra gli altri, il figlio Marco. Nicla ha un patrimonio netto di 13,7 milioni di euro e un attivo di 21,4 milioni rappresentato fra l’altro dal 2,7% di Equita Group e dal 90% di Mossi Aziende Agricole Vitivinicole (600mila bottiglie/anno).


venerdì 1 agosto 2025

Selezione finale

 

È vero! Uccidono solo sporchi palestinesi, meglio se donne e bambini.

Direi anzi di utilizzare il ponte aereo umanitario per consegnare armi ad Israele. Gli aerei trasporteranno entrambi i rifornimenti in Palestina. La cosa importante è che i carichi non vengano mischiati, in modo che le armi non finiscano accidentalmente a Gaza e il cibo in Israele. 

Pensate che scherzi? Top secret.

giovedì 31 luglio 2025

Uno sguardo al divorzio nell’ebraismo

 

Questo post fa seguito a questaltro.

In teoria, la sinagoga consente il divorzio (noto come “gerushin”) a tutti, per un numero illimitato di volte. A differenza del passato, dove il divorzio era principalmente una decisione del marito, oggi si richiede il consenso di entrambi i coniugi per la validità del divorzio.

La formula è semplice: l’uomo deve consegnare quello che viene chiamato il “ghet” (documento di ripudio) alla donna, che così riacquista la sua libertà. Certo, la procedura è umiliante per la donna, poiché la formula stabilisce che l’ex marito “la restituisca ad altri uomini”; ma almeno il divorzio esiste.

Il ghet è riconosciuto nel diritto ebraico come lo strumento legale per il divorzio. La procedura del ghet è fondamentale per garantire che il divorzio sia valido secondo la legge ebraica e che la donna non sia lasciata in una condizione di “aguna” (una donna legalmente sposata ma non divorziata).

Non è facile per un ebreo che vive al di fuori di Israele rifiutarsi di concedere il “ghet” alla moglie, ma l’uguaglianza tra i sessi è particolarmente compromessa dal fatto che l’ebraismo conserva memorie poligame, anche se questa pratica è stata abolita nell’XI secolo. D’altra parte, non c’è traccia di poliandria. Pertanto, è molto più grave per una donna risposarsi senza aver divorziato (religiosamente), che per un uomo.

Se una donna non divorziata ha figli con un altro uomo, saranno degli abominevoli mamzerim, dei “bastardi” che non avranno altra scelta di vivere ai margini della comunità. E se pensate che queste considerazioni siano obsolete da secoli, o che si applichino solo agli ebrei ultraortodossi, vi sbagliate di grosso.

Facciamo un esempio concreto, quello di una donna che non può ottenere il divorzio religioso perché il marito intende rimanere sposato. Un piccolo ma importante dettaglio: la donna si è convertita all’ebraismo.

A prima vista, la storia di questa donna è estremamente ordinaria: si sposa, ma il matrimonio va rapidamente in frantumi e presto decidono di divorziare. Per la legge civile, la questione è una formalità. Nel giro di poco tempo, i coniugi non sono più sposati. Ma per i rabbini, le cose sono ben diverse. La donna deve completare la procedura religiosa e ottenere il “ghet”, altrimenti, se non segue correttamente la procedura, i suoi (possibili futuri) figli saranno mamzerim e lei non potrà risposarsi in sinagoga.

Cosa c’è che non va? Qui è dove dovremo smettere di essere moderni e tornare all’epoca in cui l’unica legge era quella della Torah, in altre parole un’avventura teologico-medievale. Questo perché il marito da cui la donna vorrebbe divorziare, ha dovuto presentare il certificato di matrimonio rabbinico dei suoi genitori, in ebraico la “Ketouba”. Ora, su questa “Ketouba” si dice che è “figlio di un Cohen” (il nome viene scritto anche con la kappa). Per chiunque sarebbe un dettaglio, ma per gli ebrei significa molto.

Essere un “Cohen”, non significa solo avere lo stesso cognome di un Daniele o di un Elia, ma significa anche, e soprattutto, nell’ebraismo, essere discendente di sacerdoti e quindi avere diritti e doveri. Non sei più un ebreo come tutti gli altri, in particolare un Cohen non ha il diritto di sposare una donna divorziata o convertita.

Ma la donna, nel caso specifico che sto raccontando, è una convertita! Ecco perché, per sposarsi, i due piccioncini hanno dovuto chiedere ai rabbini di indagare per assicurarsi che il Cohen non fosse tale e che avesse il diritto di sposare una donna convertita. Solo che per coronare la loro storia d’amore, il marito aveva presentato un certificato di matrimonio dei propri genitori falso, ossia da dove risultava che lui non era “figlio di un Cohen”.

Quando la moglie, convertita all’ebraismo, chiede il divorzio, il marito rivela che il certificato di matrimonio era falso e che lui pretende di essere riconosciuto come il “figlio di un Cohen”. La questione diventa kafkiana davanti a un tribunale rabbinico. Come si può dimostrare che un uomo sposato, senza essere un Cohen, si ritrova tale al momento del divorzio?

E non vuole concedergli il divorzio. Va detto che in Israele non esiste il matrimonio civile e se l’uomo rifiuta alla moglie il “ghet”, finisce al gabbio. Non così altrove. Ed infatti questa è una storia vera accaduta in Europa.

Quindi la storia cambia, diventa uno scontro tra tradizione ebraica e legge civile. La legge civile può anche volere che le donne siano libere e uguali agli uomini, ma la religione le tiene sotto tutela e accetta che un marito possa ricattare la moglie per impedirle di riconquistare la sua libertà. Mettiamo un giudice dietro ogni rabbino?

mercoledì 30 luglio 2025

L'antisemitismo è un deficit mentale e culturale

 

L’Europa è ridotta a minacciare sanzioni, embarghi e boicottaggi che riguardano la Russia e, in questi giorni, Francia e Gran Bretagna si offrono di riconoscere, fuori tempo massimo, uno Stato palestinese, ossia quando il territorio in cui esso potrebbe sussistere non esiste più e il processo sionista di costruire la grande Israele è ormai alle sue battute finali.

Meloni, come solito, si smarca, dice addirittura che tale riconoscimento di uno Stato palestinese è prematuro. Quelli come Meloni hanno la coda di paglia, memori delle leggi razziali del 1938. L’Europa è un gigante economico e un verme politico. Lo si è visto anche in altri piacevoli frangenti e da ultimo per quanto riguarda i dazi doganali.

Un mondo, quello di oggi e non meno di quello di ieri, in cui tutti sono convinti di difendere la sicurezza e il benessere del proprio popolo. L’Europa, in specie, con i suoi bei discorsi, sembra una vecchia zitella spaventata da una banda di teppisti che si uccidono a vicenda sotto le sue finestre.

Non c’è una reale differenza tra ciò che accadeva ieri e quello che accade oggi: l’etica è sempre stata un’ammissione di debolezza. L’unica differenza nelle contese internazionali sta nel fatto, ma si tratta di un dettaglio, che oggi gli Stati sono in possesso di armi di distruzione di massa incomparabilmente più letali rispetto al passato.

Quanto alla propaganda, basti pensare allo spazio che i media stanno dedicato a una baruffa avvenuta in un autogrill tra provocatori ebrei con passaporto francese e alcuni imbecilli con passaporto italiano. L’antisemitismo designa innanzitutto un’anomalia mentale, ma corrisponde all’altra faccia della medaglia: quella del sionismo razzista.

Perché il sionismo, benché nato in risposta al crescente antisemitismo e al nazionalismo europeo, in ogni sua declinazione è per definizione razzista, suprematista e colonialista. Non va trascurato che i primi sionisti sincretizzarono molti aspetti del fascismo europeo, della supremazia bianca, del colonialismo e dell’evangelizzazione messianica ed ebbero una lunga e sordida storia di cooperazione con antisemiti, imperialisti e fascisti per promuovere programmi esclusivisti ed espansionistici in Palestina.

Fatto rilevante, sia gli antisemiti che i sionisti considerano gli ebrei una razza biologica, che deve essere segregata come parte di un’utopia di apartheid globale. Il sionismo sfrutta opportunisticamente aspetti dell’ebraismo nel tentativo di giustificare le sue pratiche criminali di apartheid e genocidio dei palestinesi indigeni. La supremazia bianca è dominante nella società israeliana, che privilegia gli ebrei ashkenaziti di pelle bianca a scapito degli ebrei africani di pelle scura, degli ebrei sefarditi e mizrahi, nonché dei rifugiati africani.

Il regime israeliano sfrutta una dinamica di violenza e disuguaglianza, rafforzata dalla paura e dai vantaggi dell’acquisizione di risorse, per promuovere una classe dirigente privilegiata a spese del popolo palestinese colonizzato. Gli strateghi sionisti manipolano i traumi passati che gli ebrei hanno sopportato per galvanizzare il sostegno a politiche aggressive che privano i palestinesi dei loro diritti.

Per alimentare questa dinamica abusiva e suprematista bianca, i propagandisti sionisti hanno promosso la fallacia antisemita secondo cui Israele sarebbe uno stato ebraico, che rappresenterebbe l’ebraismo e quindi tutti gli ebrei. Questa mistificazione fondamentale è alla base della propaganda sionista (nota anche come Hasbara), che galvanizza il sostegno al colonialismo israeliano e attacca la resistenza anticoloniale.

Il risultato logico di questa fallacia determina che la critica al sionismo/Israele sia necessariamente antisemita (molti ne vengono convinti). I successivi governi israeliani hanno utilizzato questa figura retorica come argomento di discussione per sabotare la critica alle loro politiche criminali. La loro cinica manipolazione del senso di colpa che circonda la storia reale di intolleranza e oppressione antiebraica ha rafforzato questa tattica.

Il razzismo, suprematismo e colonialismo sionista mai può essere fatto passare per un’ideologia pacifista. Quando s’intende ridurre (leggi: eliminare) la presenza dei palestinesi dal loro territorio e di espandere il più possibile la propria, tale processo non può essere considerato “pacifico”. A tratti può assumere forme legali, ma infine si è trattato storicamente di un processo di esproprio violento a danno di un popolo che ha tutto il diritto di vivere laddove ha vissuto per molti secoli.

Solo questione di tempo

 

Il 18 luglio Donald Trump ha firmato la prima legge che regolamenta le criptovalute negli Stati Uniti, il cosiddetto Genius act (Guiding and Establishing National Innovation for U.S. Stablecoins), che nei giorni precedenti era stato approvato in via definitiva dal Congresso.

La misura prevede che gli emittenti di stablecoin – un tipo di criptovaluta il cui valore è ancorato a dollari, titoli di Stato statunitensi o a una materia prima – forniscano come garanzia asset a basso rischio con un rapporto uno a uno. Ciò dovrebbe rassicurare le grandi aziende, le banche, gli istituti finanziari e i piccoli investitori sulla loro sicurezza, garantendo così un maggiore afflusso di denaro.

La nuova legislazione apre la strada all’emissione di stablecoin da parte di banche e grandi aziende. Non avendo alcun valore intrinseco, il prezzo di stablecoin può solo aumentare, e i profitti realizzati, a condizione che nuovi investitori e il loro denaro vengano attratti sul mercato: lo stesso meccanismo di qualsiasi altro schema Ponzi.

Ci vuol poco a comprendere che qui si annidano i semi di una grave crisi finanziaria. Un sistema del genere può avere anche la durata di anni, tutto è legato alla “fiducia”. Ma viene inevitabilmente il giorno del giudizio, poiché tale sistema bancario e societario libero, per cui quasi chiunque può emettere moneta, distrugge l’unicità del denaro, il che significa che un dollaro è un dollaro indipendentemente da come viene ottenuto.

Infatti, per garantire che ogni stablecoin sia interamente garantita dollaro per dollaro, le autorità di regolamentazione dovrebbero garantire che il bilancio dell’emittente sia coperto al 100%. La qual cosa semplicemente non esiste. Già le autorità di regolamentazione hanno tante difficoltà a tenere d’occhio le banche assicurate, come ci si può aspettare che esercitino una supervisione perfetta su centinaia, se non migliaia, di stablecoin emesse non solo dalle banche, ma anche da aziende tecnologiche e startup di criptovalute?

Tra l’altro, la regolamentazione dovrebbe passare dalle mani della Securities and Exchange Commission alla Commodity Futures Trading Commission, considerata più “crypto friendly”. Quella che si sta innescando è una bomba finanziaria che a confronto i subprime erano petardi di carnevale. Anche in tal caso sarà solo questione di tempo.

martedì 29 luglio 2025

La doccia scozzese

 

«Potevano scegliere fra il disonore e la guerra. Hanno scelto il disonore e avranno la guerra.»

I rituali includevano non solo strette di mano e sorrisi forzati, ma anche elogi per il genio imprenditoriale di Trump e lo splendore del suo campo da golf, il tutto pronunciato con l’entusiasmo di ostaggi che leggono una richiesta di riscatto.

Il tutto in quaranta minuti. Dunque il diktat trumpiano non può che rappresentare una tappa intermedia nell’escalation di una guerra commerciale.

Non è casuale che, un giorno dopo il diktat commerciale fatto ingoiare all’Europa da Trump, lo stesso presidente abbia ridotto a pochi giorni il tempo concesso a Putin per una soluzione negoziata. L’appoggio statunitense alla guerra europea contro la Russia stava nel piatto della cosiddetta trattativa scozzese.

La continuazione della guerra per procura della NATO in Ucraina e il timore che Trump potesse raggiungere un accordo con Putin per concentrarsi maggiormente sul conflitto con la Cina perseguita le potenze europee da mesi. Sempre non a caso, Trump ha già costretto gli europei a pagare l’ultima tranche di armi statunitensi fornite all’Ucraina.

Ecco spiegato perché, a differenza di Pechino, un’Europa che continua ad aver bisogno della NATO non può permettersi un duro conflitto commerciale con Washington. La chiave di tutto non è la debolezza militare dell’Europa, come si tende a far credere, ma la sua divisione interna anche in materia militare (in oltre tre anni di guerra avrebbe potuto provvedere in merito con larghezza). La doccia scozzese è la dimostrazione palese che l’Europa non esiste politicamente e militarmente, ed è divisa su tutto il resto.

Tutto ciò avviene mentre l’imperialismo statunitense è impegnato in una competizione globale per spartirsi il mondo e le sue risorse. Il programma di questa contesa è scritto, per il momento, nel sangue degli ucraini e dei palestinesi.

I costi della guerra e della guerra commerciale ricadranno inevitabilmente sulle solite spalle. Francia, Italia e non meno la Germania sono sull’orlo di un collasso economico, ma si fa finta di nulla. Gli esiti di tutto questo si vedranno tra mesi e anni, e saranno drammatici.

lunedì 28 luglio 2025

Da Trump al Berghof

 

Finalmente qualcosa si sblocca sul fronte stipendi, mi stavo preoccupando. Il mio droghiere (nel senso classico del termine) sono tre anni che mi ripete che è l’inflazione (non i profitti) a spingere i prezzi all’insù.

Un’altra buona notizia, forse la migliore, riguarda l’accordo (?) sulle tariffe doganali. Trump ci fa uno sconto della metà: saranno grossomodo del 15%, ma i dettagli non sono ancora noti (sappiamo invece tutto sulle cravatte di Maroš Šefčovič).

L’incontro per il cosiddetto “accordo” ha avuto luogo presso il resort golf di Trump a Turnberry in Scozia. Hitler invitava i suoi alleati al Berghof.

Nessuna delle due parti ha diffuso il testo dell’accordo, come è accaduto con il Regno Unito a maggio, quindi con Giappone, Filippine, Indonesia e Vietnam, e prima ancora con l’accordo raggiunto a Monaco.

Le imposte settoriali del 50 per cento su tutte le importazioni di alluminio e acciaio europeo rimangono in vigore. L’unica “concessione” da parte degli Stati Uniti sembra essere quella di applicare una tariffa del 15% sulle esportazioni di auto europee, anziché del 25% precedentemente annunciato. Merz ha dato il via libera (ich glaube es!).

Ursula Albrecht commenta: “Whatever decisions later – by the president of the US – that’s on a different sheet of paper”. Esattamente come a Monaco nel 1938. Non a caso Meloni (non lei, ma il suo ufficio propaganda) ha detto che le tariffe “sono sostenibili”.

Il surplus commerciale dell’UE nei confronti degli Stati Uniti è stato di circa 200 miliardi di euro lo scorso anno. Per “riequilibrare”, l’UE ha accettato di spendere in tre anni 750 miliardi di dollari in prodotti energetici statunitensi, di investire 600 miliardi di dollari negli Stati Uniti e di acquistare una “grande quantità” di equipaggiamento militare statunitense per un valore di “centinaia di miliardi di dollari”.

Sapete chi pagherà tutto ciò? Una purghetta sui profitti? Sbagliato. Chi paga fino all’ultimo centesimo di imposte? Esatto. Ma come avete fatto ad indovinare? Era così difficile ...

Si poteva fare diversamente? Ma se la UE al massimo si mette d’accordo sui tappi delle bottigliette di plastica, che cosa c’era d’aspettarsi? La Cecoslovacchia non esiste più, e non da oggi.

Intanto le borse salgono, salgono, salgono ... Godiamoci l’estate (con piscina). Potrebbe essere l’ultima prima del grande botto.

La macchina incantata

 

Ogni scoperta di fatti nuovi conduce inevitabilmente alla formulazione di una più o meno nuova teoria da adattare a tali fatti. Ciò accade anche per quanto riguarda le nuove tecnologie.

Ciò si riflette inevitabilmente nell’incongruenza tra queste formulazioni teoretiche, con i loro ipertoni idealistici e metafisici, e le basi empiriche sulle quali sono erette. Ho già citato in precedenti post, per esempio, le teorie di Federico Faggin.

Fintantoché noi non comprenderemo il reale rapporto esistente tra uomo e macchina, per esempio la differenza qualitativa tra intelligenza umana e capacità elaborativa e computazionale delle macchine, non potremmo porre esattamente nessuna delle domande più specifiche che sorgono in questo campo, né tantomeno rispondere ad esse.

Sembrerà strano, ma finora i rapporti interfunzionali tra noi e le nuove macchine non sono stati indagati in modo adeguato (oppure appartengono alla sfera dei segreti industriali o di Stato), arrivando perfino ad attribuire la possibilità, da parte delle macchine, di avere una loro propria struttura della coscienza.

Sia chiaro che non intendo sottovalutare l’importanza straordinaria delle macchine quale fattore decisivo di ogni attività umana: non è questo il punto qui in discussione. Né qui m’interessa porre in luce che gran parte dei frutti (anche negli elementi immateriali) dello straordinario sviluppo tecnologico degli ultimi decenni va ad appannaggio di smodate gratificazioni private.

Mi illudo sia implicito nella coscienza di ognuno di noi che la tendenza all’accumulazione fine a sé stessa, favorita potentemente dalle nuove tecnologie e dalla forzata espansione di consumi superflui quando non demenziali, è indice di un modo di produzione dove sono assenti o scarseggiano criteri sociali, peraltro in presenza di una crisi di governance politica che sta assumendo aspetti inediti.

Ciò che invece intendo sottolineare a riguardo dell’avvento delle cosiddette macchine “intelligenti”, è il fatto che senza un effettivo controllo sociale, si tende ad una pericolosa tensione nella struttura della società e nelle relazioni umane. Del resto, la natura del tecnicismo (non solo perché legato agli interessi del capitale) è tale che non può fornirci risposte adeguate in tal senso.

Ciò premesso, e alla luce del mito che circonda le macchine dotate della cosiddetta intelligenza artificiale, reputo che tali macchine mai potranno sviluppare una coscienza già solo a livello di quella di un cane. Al massimo, potranno essere dotate di singole funzioni simil-psichiche, ma mai sviluppare una coscienza unitaria quale quella umana.

Pongo la questione su un piano a mio avviso decisivo: per l’essere umano il lavoro è il soddisfacimento di un bisogno; l’attività umana ha degli scopi ultimi e unici. Viceversa, il lavoro di una macchina non è mai lavoro volontario, e il suo prodotto le sarà sempre estraneo, qualunque possa essere il suo grado di interazione con la propria attività.

La macchina, per quanto sofisticata e “intelligente”, è immediatamente una cosa sola con la sua attività. Non si distingue da essa. L’uomo fa della sua attività l’oggetto (e il luogo di realizzazione) stesso della sua volontà e della sua coscienza. La sua propria vita è un suo oggetto, proprio soltanto perché egli è un essere appartenente a una specie (la coscienza di appartenere alla sua specie!). Soltanto per questo motivo la sua attività è un’attività libera.

Una macchina è in grado di scrivere un libro come Storia e coscienza di classe, anzi di aggiornarne i contenuti e di migliorarlo. Tuttavia essa non sarà mai in grado di sviluppare una propria coscienza, tantomeno una coscienza di classe. Le macchine sono anch’esse delle schiave, con la differenza che lo schiavo, antico o moderno, come essere umano vive la propria condizione nella realtà di determinati rapporti storico-sociali.

Dati gli attuali rapporti di produzione, anche il lavoro salariato vive una condizione di estraneazione in rapporto al proprio prodotto. Ma se in tal caso il prodotto del lavoro dell’operaio è la sua alienazione, per una macchina la questione nemmeno si pone. Questo rappresenta un altro dei motivi per i quali il padronato accarezza l’idea di sostituire completamente la forza-lavoro con macchine (e con esse dominare il processo storico).

Infatti, come scriveva Marx, “Il lavoro estraniato rovescia il rapporto in quanto l’uomo, proprio perché è un essere cosciente, fa della sua attività vitale, della sua essenza soltanto un mezzo per la sua esistenza”. E ancora: “Una conseguenza immediata dell’uomo reso estraneo al prodotto del suo lavoro, è l’estraneazione dell’uomo dall’uomo”. Esattamente come avviene per una macchina, estranea al prodotto del proprio lavoro e al godimento di esso.

Le macchine, in forza del loro autonomo funzionamento, fanno pensare ad una loro realtà indipendente dagli uomini. Inoltre, proiettando delle facoltà umane sulle concrete forme di attività delle macchine, si è creata l’illusione che esse siano di livello superiore all’uomo, fino a farci credere che esse siano il simbolo finale del progresso e della civiltà.

Sembra quasi che le macchine, cui abbiamo attribuito un super-ego, si differenzino da noi umani solo in ciò che è accidentale. E siamo arrivati al punto che esse servono soprattutto per produrre più vasti schemi di sottomissione, di rapina e di ricatto. Siamo come i personaggi di Thomas Mann ne La montagna incantata: infermi e parte di un mondo decadente e malato.