Ieri sera mi è stato segnalato un post di Pier Luigi Fagan, un appassionato di “complessità”. La sua critica è molto articolata e seducente, rivolta a un’Europa e ai suoi abitanti “semplicemente in fuga dal reale”. La tesi centrale e generale del post è che siamo incapaci di prendere coscienza del dramma del nostro tempo. Privi di orizzonte, viviamo un’epoca pervasa dal soggettivismo e da una negazione nevrotica che sta volgendo in psicosi. Scrive Fagan:
«Illusa nella propria sfera protettiva di esser divenuta immune al tempo ed alla storia, Europa s’è svegliata di colpo una mattina scoprendo che le magnifiche sorti del globalismo liberale all’occidentale erano state di notte sostituite dal ritorno della storia ovvero delle logiche di potenza che presuppongono Stati, strategie, armi, visione geopolitica».
Come non essere d’accordo sul fatto che la natura delle relazioni internazionali non è cambiata radicalmente in mille anni. Fagan denuncia la “finanziarizzazione”, le nuove ricchezze che determinano diseguaglianze sociali inarrivabili e l’ulteriore crisi ontologica di quella cosa che chiamano “democrazia”, che ne è ovvia conseguenza.
Denuncia vera, non senza aver premesso «che per almeno sessantacinque anni (1945-2010), la società europea ha vissuto in un ordinamento sociale sufficientemente stabile e funzionante basato su una sostanziale affidabilità e costanza degli indici di crescita economica, una tendenza continuata allo sviluppo».
Impossibile smentire gli “indici di crescita economica”. Poi “un decennio iniziato con l’11/09 e terminato con gli effetti dello scoppio di una gigantesca bolla di valore finanziario”, la cui natura nuova s’inquadra tra gli altri nel concetto di “finanzcapitalismo”.
Tuttavia, e potrà sembrare paradossale, la fotografia di Fagan mi ha convinto meno per il suo contenuto che per le sue intenzioni, che presumo senz’altro oneste. Elude un fatto: la crisi attuale è il prodotto naturale e conseguente di quello sviluppo e di quegli “indici di crescita economica”, pertanto non dovuta semplicemente allo scoppio della “bolla” finanziaria e dal volgere l’economia verso il “finanzcapitalismo”.
Non c’è stata nessuna discontinuità con l’immanenza delle leggi che reggono il capitalismo. Che procede per fasi, ma la cui natura essenziale non muta e alla cui base vi è la necessità di valorizzare il capitale. La speculazione finanziaria è solo un mezzo, quello più rapido. Le crisi una conseguenza inevitabile. Quella del primo decennio di questo secolo non è stata la prima dal dopoguerra e non sarà l’ultima.
Fagan parla di realismo, ma il suo pragmatismo allude alla ridefinizione di ruolo dell’Europa nell’ambito della competizione globale; critica il liberalismo e la finanziarizzazione, ma non mette in discussione gli attuali rapporti sociali. Invoca cambiamenti “radicali”, più di mentalità e di approccio, ma che tutto resti nella sostanza come è oggi.
Quanta passione e preoccupazione per il declino dell’Europa, che non riesce ad avere multinazionali (e relativi piani di ricerca) di “dimensione competitiva con quelle statunitensi e cinesi”. Ed è appunto assumendo il punto di vista più avanzato dell’élite padronale europea che Fagan professa di essere “realista”. Glielo concedo.
Le multinazionali creano il proprio spazio economico indipendentemente dagli Stati (o con il sostegno di essi), e la loro flessibilità permette loro di sfruttare le disparità nella legislazione sociale e ambientale. In questo contesto, le multinazionali possono sfruttare in modo massiccio le risorse naturali di una regione e localizzare lì le attività più inquinanti.
A tale riguardo, Fagan scrive: «Si assiste alla paradossale riduzione del problema di fattura epocale in un alacre fervore “verde” finalizzato a vendere nuove cose sotto improvviso ricatto valorial-morale mentre è evidente che è un intero “modo di stare al mondo” a generare il problema». Epperò il modo in cui stanno al mondo gli individui, quelli di venti secoli or sono così come quelli di oggi, non viene deciso dai soggetti interessati o semplicemente dal marketing.
E arriviamo al punto. Scrive Fagan: «Preferiamo criticare, usiamo “capitalismo” come diagnosi-pattumiera causa di tutte le cause, “neoliberismo” da ultimo ...». Che nella critica del passato vi sia stato un abuso del termine capitalismo, lo concedo. Che il capitalismo, come formazione economico-sociale, non sia la causa prima e fondamentale delle contraddizioni e dei disastri della nostra epoca, è un tentativo di parlare di qualcos’altro (degli atteggiamenti e non del mondo reale).
Scrive ancora Fagan: «Ci sarebbe anche del lavoro da fare sulla immagine storica di noi stessi, dei nostri valori, del nostro valore di civiltà, del nostro troppo stratificato e antico complesso culturale. Forse il nostro “Io di civiltà” ha troppi errati presupposti, troppa idealità e poco pragmatismo concreto, troppi luoghi comuni e categorie oramai sedimentate e divenute strati geologici del pensiero ritenuti irrinunciabili poiché identitari».
Anche in ciò c’è del vero, eccome. Ma siamo ancora lontani dalla radice del problema, e del resto viviamo nell’epoca delle “concezioni del mondo” e della soggettività, dell’individualismo. Fagan, pur invocando pragmatica “concretezza”, resta vincolato a una critica laterale che ha ad oggetto l’ecclettismo politico e degli atteggiamenti soggettivi, dei “troppi luoghi comuni”, eccetera.
Rivendica l’identità europea, il ruolo dell’Europa, della sua cultura e “civiltà” in opposizione all’importazione demografica e di altre culture. Su altri registri, sicuramente estranei a Fagan, è ciò che rivendicano i movimenti di destra e populisti. Fagan, paladino del realismo e critico dell’ideologismo, diventa lui stesso un sostenitore dell’ideologia dello “scontro di civiltà”.
Nella misura in cui questo approccio di stampo ideologico e soggettivistico non appare a Fagan, si tratta di un ideologismo mascherato, inconscio, che Fagan, già imprenditore del marketing e della comunicazione, porta al suo esemplare compimento.
Il post di Fagan si chiude con un appello o quantomeno un auspicio: «Forse la prima cosa che dovremmo accettare almeno per simulare un tentativo di comune speranza, è ammettere quanto grosso è il problema che abbiamo e quanto non abbiamo la più pallida idea di come affrontarlo. Radicalmente. Tutti».
La nostra cecità non dipende solo da una coscienza che rifiuta, per comodità e abitudine, di vedere e reagire alla realtà. Crediamo che mettendoci di fronte alla questione delle questioni del nostro tempo e concentrandoci, una risposta uscirà dalla nostra testa, attraverserà l’aria e andrà a materializzarsi in un nuovo e sanificato capitalismo?
"Crediamo che mettendoci di fronte alla questione delle questioni del nostro tempo e concentrandoci, una risposta uscirà dalla nostra testa, attraverserà l’aria e andrà a materializzarsi in un nuovo e sanificato capitalismo?"
RispondiEliminaPotrebbe anche essere. Se qualcuno sopravviverà alla guerra prossima ventura.
E’ una cosa che abbiamo già discusso a proposito di Sahra Wagenknecht. La critica più frequente a coloro dissentono da certe derive attuali della sinistra è che i dissidenti dicono le stesse cose della destra. Personalmente ho stabilito di badare ai contenuti e non a chi li enuncia; mi pare inoltre evidente che il nuovo capitalismo globalizzato ha scelto i partiti di sinistra come suoi alfieri. Forse lo snodo principale sta proprio nelle organizzazioni sovranazionali: quanto è più comodo gestire Ursula e Guterres piuttosto che decine di stati indipendenti e soggetti a ludi cartacei! D’altra parte, se qualcuno volesse ricostruire la posizione della sinistra DOC su quei temi, potrebbe consultare l’Unità del marzo 1957, in particolare il 24 marzo. Ohibò, niente male.
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