La sesta sessione plenaria del XIX Comitato centrale del Partito comunista cinese si è tenuta a Pechino dall’8 all’11 novembre 2021. La riunione è stata presieduta l’Ufficio politico del Comitato centrale. Per l’occasione, Xi Jinping, segretario generale del CC del PCC, ha presentato un rapporto sull’attività svolta ed è stata esaminata e approvata la Risoluzione sui grandi risultati e sull’esperienza del comunismo cinese nei suoi primi cento anni, quindi è stato deciso che la XX Assemblea Popolare Nazionale del PCC si terrà a Pechino nella seconda metà del 2022.
Xi, in occasione del XX congresso del prossimo anno, a differenza dei due precedenti leader, punta a ricevere un terzo mandato quinquennale come segretario generale e quindi presidente del Paese. Il precedente congresso del 2018 ha rimosso la limitazione costituzionale di due mandati per presidente e vicepresidente.
Soffermiamoci sulla risoluzione relativa ai risultati e all’esperienza del sedicente comunismo cinese nei suoi primi cento anni. Il PCC ha adottato una “risoluzione storica” solo in due precedenti occasioni. Nella prima, nel 1945, Mao Zedong cercò di stabilizzare la sua posizione dominante nella leadership cinese dopo le lotte tra fazioni negli anni 1930. Nella seconda, nel 1981, Deng Xiaoping si proponeva di seppellire l’eredità della Rivoluzione Culturale del 1966, voluta da Mao, e aprire al mercato.
La risoluzione pone Xi alla pari con Mao e Deng. Il riassunto della risoluzione contenuto nel comunicato fa riferimento a Mao e Deng e fa menzione degli immediati predecessori di Xi, Jiang Zemin e Hu Jintao, ma più della metà del testo è dedicato a lodare i successi del partito sotto Xi, impegnando il partito ad attuare pienamente il pensiero di Xi sul socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era. Un’enfasi simile è presente nella nuova “breve storia” del partito pubblicata in concomitanza con il centenario ufficiale della fondazione del PCC, nel luglio 1921, ove circa un terzo delle sue pagine è dedicato ai nove anni in carica di Xi.
Va ricordato che la posizione di vertice di Xi, un burocrate che a differenza di Mao e Deng non ha vissuto gli sconvolgimenti sociali e politici che hanno portato alla rivoluzione cinese, ha origine più dalle divisioni interne al partito che da una propria forza politica. Sono presenti all’interno del PCC due posizioni divergenti: quella favorevole a concessioni e un nuovo compromesso con gli Stati Uniti, accettando le “regole” economiche americane, e quella che spinge per un rafforzamento militare accelerato e una politica economica d’impronta più nazionalista.
La leadership di Xi si trova a dover affrontare un decisivo conflitto geopolitico con gli Usa e i sui alleati nell’area, un’economia in rallentamento e livelli d’indebitamento societari molto elevati come nel caso della Evergrande e simili, nonché l’acuirsi delle tensioni sociali prodotte dal divario tra ricchi e poveri. In buona sostanza Xi e il partito cercano di promuovere una politica economica che favorisca il welfare e tenga a bada le tensioni sociali interne per prepararsi all’aggressione guidata dagli Stati Uniti.
Il PCC ha giustificato la sua adesione al capitalismo occidentale affermando che ciò avrebbe garantito il benessere sociale della popolazione. Quando il capitale straniero ha investito massicciamente nel paese per sfruttare la sua manodopera a basso costo, il tenore di vita di milioni di persone si è effettivamente innalzato dai bassissimi livelli precedenti (va ricordato agli smemorati che in Cina le carestie sono state una costante storica, e l’averle superate è un indubbio successo del regime). Allo stesso tempo, tuttavia, si è aperto un immenso abisso sociale tra la maggior parte della popolazione e un infimo strato di miliardari e multimiliardari che hanno beneficiato della nuova situazione economica (non pochi arricchiti sono membri del PCC o fanno parte di organi consultivi).
Sul piano esterno, Pechino affronta l’inesorabile ostilità degli Stati Uniti, che nell’ultimo decennio si sono impegnati in un rafforzamento militare e delle alleanze in tutta la regione, con provocazioni militari nella Cina meridionale e nel Mar Cinese Orientale. Quest’anno, sotto Biden, Washington ha deliberatamente fomentato tensioni con Pechino sulla questione esplosiva dello status di Taiwan (va ricordato che Stati Uniti, Canada, Regno Unito, India, Pakistan e Giappone hanno formalmente adottato la politica di una sola Cina, in base alla quale la Repubblica Popolare Cinese è il solo governo legittimo della Cina).
Questa settimana, anche se non è stata fissata una data, Biden e Xi si parleranno: tra i temi messi in agenda vi sono quelli che riguardano i cambiamenti climatici e la necessità di ridurre l’inquinamento, ma è ovvio che si parlerà anche di geopolitica e di economia. Dal canto suo l’UE non vuole alienarsi gli Stati Uniti sulla questione della Cina, ma neanche il contrario. Il ruolo che può giocare la UE nella contesa Usa-Cina è molto importante, e quello della Russia è forse decisivo. Perciò le provocazioni Usa in Ucraina s’intensificano. La Russia è tutt’ora una superpotenza militare e nucleare, non averla neutrale nella contesa con la Cina è un errore strategico.
Gli Usa hanno bisogno di una leadership presidenziale forte e autorevole per sferrare un attacco diretto alla Cina (ovvero per portare le loro provocazioni alle estreme conseguenze). Né Trump prima né Biden ora incarnano tale leadership. A meno che gli apparati e i loro sostenitori occulti non approfittino proprio di tale debolezza. Vai a sapere come stanno realmente le cose.
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