Mentre il covid sta riscrivendo la costituzione, non solo quella e non solo la nostra, incombono anche altre minacce non meno serie e però di cui si parla molto meno.
Lunedì sera il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, e il presidente cinese, Xi Jinping, hanno tenuto il loro primo vertice bilaterale, condotto virtualmente per oltre tre ore, diviso in due parti separate da una breve pausa. Biden, nella Roosevelt Room della Casa Bianca, e Xi nella Grande Sala del Popolo a Pechino.
All’incontro, per la parte cinese, ha partecipato Ding Xuexiang (direttore dell’Ufficio generale del Comitato centrale del Pcc), Liu He (vicepremier e plenipotenziario di Xi su tutti i dossier economici, soprattutto con gli Usa), Yang Jiechi (capo della diplomazia del Partito comunista), Wang Yi (consigliere di Stato e ministro degli Esteri) e Xie Feng, viceministro degli Esteri.
Il colloquio è iniziato con frasi convenevoli e non è mai andato oltre le rigide formalità. Biden si è detto molto preoccupato per quella che gli Usa considerano una violazione dei diritti umani nello Xinjiang, nel Tibet e ad Hong Kong, evidentemente dimenticando l’apartheid di fatto che esiste da sempre negli Usa verso i neri e le altre componenti etniche.
Proprio lo scorso fine settimana, il New York Times ha rivelato che gli Stati Uniti hanno nascosto per anni un raid a Baghuzi nel quale hanno incenerito almeno 80 donne e bambini disarmati e poi seppellito i corpi sotto le macerie per nascondere il crimine.
Le tensioni tra le due potenze sono così acute, e Washington così intransigente, che il vertice s’è concluso senza annunci e nemmeno una dichiarazione congiunta, segno evidente del fallimento del vertice. Si sono pronunciate frasi di moderazione a uso dei media, ma le due potenze vanno decise verso la guerra.
L’economia è un insieme globale integrato, tuttavia gli stati-nazione sono rivali nella lotta per affermare il proprio dominio anche con mezzi militari. A fronte della crescita e dell’espansionismo economico di pechino, Washington per oltre un decennio ha sistematicamente contrastato la Cina, cercando con la minaccia militare e le sanzioni economiche di contenerne l’ascesa e di subordinarla agli interessi del capitalismo statunitense.
La Cina punta, attraverso la diplomazia, gli investimenti e il dispiegamento militare, a espandere e rafforzare i suoi interessi globali, che però si scontrano con gli interessi consolidati delle maggiori potenze, in particolare gli Stati Uniti.
È vero che laddove Xi ha parlato con Biden di “cooperazione”, l’altro ha risposto con “competizione” e ha chiesto la creazione di “guardrail di buon senso” per “assicurare che la concorrenza tra i nostri paesi non si trasformi in un conflitto, intenzionale o meno”, tuttavia va anche detto che la prospettiva nazionalista cinese è giunta a un vicolo cieco. Il governo cinese coltiva deliberatamente il nazionalismo, preparando le basi ideologiche per la mobilitazione di massa e la guerra, anche se altre fazioni all’interno dell’establishment cinese, temendo la guerra, sperano invano in un nuovo riavvicinamento con Washington.
Nel numero di novembre-dicembre di Foreign Affairs, John Mearsheimer, eminente studioso di relazioni internazionali, ha evidenziato in un artcolo dal titolo eloquente, L’inevitabile rivalità: America, Cina e la tragedia della politica delle grandi potenze, quanto sia avanzato il pericolo di una guerra globale, scrivendo: “La seconda guerra fredda è già qui, e quando si confrontano le due guerre fredde, diventa evidente che la rivalità USA-Cina ha maggiori probabilità di portare a una guerra aperta di quanto lo fosse la rivalità USA- Urss”. Ha aggiunto: “Non solo è più probabile una guerra di grandi potenze nella nuova guerra fredda, ma lo è anche l’uso del nucleare”.
Ancora una volta nella storia siamo intrappolati nella politica delle grandi potenze, nei loro interessi egemonici, con l’eccezione che nella nostra epoca il confronto militare vede in campo gli arsenali nucleari, dunque non solo armi di distruzione di massa, come usualmente sono chiamate le armi nucleari, bensì armi il cui impiego nell’escalation bellica porta all’annientamento totale della nostra specie. Oggi, peraltro, non si riscontra alcuna remora al loro possibile impiego. Vorrei, a tale proposito, richiamare l’attenzione sull’incidente del 26 settembre 1983. Se un incidente simile fosse accaduto anni prima, quando le tensioni Usa-Urss erano al culmine, non penso che il ten. col. Stanisláv Petróv avrebbe esitato a ordinare il lancio dei missili balistici in risposta a quelli che il sistema computerizzato dava per errore essere stati lanciati dagli statunitensi.
L’amministrazione Obama ha agito stringendo ancor più le alleanze strategiche nell’area asiatica e del Pacifico e l’amministrazione Trump con misure di guerra commerciale contro la Cina. Nell’ultimo anno, l’amministrazione Biden ha portato queste tensioni sull’orlo di un conflitto aperto. Washington ha deliberatamente preso di mira l’aspetto più delicato delle relazioni estere cinesi: la rivendicazione di Pechino su Taiwan. Biden dichiarò pubblicamente che gli Stati Uniti erano impegnati nella difesa di Taiwan contro la Cina continentale e il presidente taiwanese Tsai Ing-wen confermò che Washington aveva schierato truppe sull’isola per organizzare esercitazioni con le forze taiwanesi. Queste iniziative hanno minato quello che è stato un principio fondamentale della stabilità geopolitica nell’ultimo mezzo secolo: il riconoscimento formale di un’unica Cina.
Taiwan è cruciale per gli interessi economici e geostrategici della Cina, e il regime ha chiarito che si tratta di una linea rossa. Biden avrebbe affermato che gli Stati Uniti rimangono fedeli alla politica della “Cina unica” e “si oppongono fermamente” a qualsiasi tentativo unilaterale“ di cambiare lo status quo o minare la pace e la stabilità nello Stretto di Taiwan”. È quanto si legge nella dichiarazione postata sul sito della Casa Bianca al termine del summit.
Si tratta di un’affermazione sibillina ma chiarissima sulle intenzioni statunitensi.
Xi ha detto a Biden che la Cina è disposta a lottare per la prospettiva della “riunificazione pacifica” di Taiwan alla Repubblica Popolare Cinese, ma avverte che le mosse delle “autorità di Taiwan per cercare il sostegno degli Stati Uniti e l’intenzione di alcuni americani di usare Taiwan per contenere la Cina” sono “estremamente pericolose e ciò vuol dire giocare con il fuoco, e chi gioca con il fuoco”, ha avvertito minacciosamente, “si brucerà”.
C’è una sola Cina, e Taiwan fa parte del territorio cinese. Sarà dunque Taiwan il pretesto per altre provocazioni da una parte e dell’altra. Non sempre nel momento fatidico c’è uno Stanisláv Petróv.
se non c'è petrov salta fuori un princip
RispondiEliminaoppure un ragionier
Eliminaragionier non ha speranze
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