Ex giovane di sinistra, ha letto qualcosa di Marx, e quindi sa che il capitalismo non è solo fondamentalmente instabile, ma, per le proprie insanabili contraddizioni interne e dunque come ogni altra formazione storico-sociale che l’ha preceduto, è destinato a lasciare il passo a qualcosa di nuovo, sempre se non riusciamo ad annientarci tutti prima di allora. Oggi è un economista liberale (guai a dargli del liberista), sempre col cuore a sinistra, e però fa un lavoro che non potrebbe essere più speculativo, producendo diverse banconote al giorno per il proprio sostentamento e quello della sua non parsimoniosa famiglia.
Non deve sorprendere che abbia una fissazione per gli aspetti monetari e il funzionamento dei mercati, interessato ai grandi cambiamenti nell’economia: crescita, disoccupazione, inflazione, eccetera. Insomma, un profilo non proprio comune ma nemmeno raro. A differenza di altri, però, è in crisi di fronte a un sistema economico che è diventato mortale, incontrollabile e ingiusto fino all’osso. I redditi da lavoro non solo crescono meno rapidamente di quelli del capitale, ma anzi sono fermi quando addirittura non arretrano, e così le disuguaglianze si sono ampliate e la povertà s’è diffusa.
Lui, l’amico, questa cosa l’esprime da par suo, ovviamente: l’austerità salariale e la distorsione della ripartizione del reddito a danno dei dipendenti sono sfavorevoli alla maggioranza della popolazione. Pensa così, parla così, senza rimedio.
E tutto ciò avviene in un sistema ossessionato dal successo materiale, dove essere poveri è diventata una vergogna, o comunque cosa da non esibire se non in sede di richiesta di sostegno pubblico. Un tempo s’era quasi tutti poveri, e dunque il problema si poneva di meno ed era più facile mascherarlo.
Non so cosa l’amico pensasse ai tempi della Thatcher e di Reagan, tuttavia oggi sostiene di avere la soluzione: salari più alti e meno debito pubblico. Se i lavoratori sono meglio pagati e le famiglie hanno più mezzi, le imprese hanno più clienti, assumono e quindi la disoccupazione diminuisce. Un ciclo virtuoso che porterebbe beneficio anche al debito pubblico calmando le ansie esistenziali di alcuni, e smetterebbe di alimentare il fuoco nei mercati finanziari.
Prendendo io la parte del liberista, obietto: l’aumento dei salari sarebbe vantaggioso per i consumi, non c’è dubbio, però ci ritroveremmo nello scenario oscuro degli anni Settanta, dove i padroni si rivalevano degli aumenti salariali aumentando il prezzo delle loro merci, alimentando la terribile spirale prezzi-salari (però, detto tra noi, c’era la scala mobile, che un po’ metteva al riparo, e proprio per questo fu spazzata via).
Se l’inflazione dovesse diventare temporaneamente stabile, come tutto già oggi fa credere pur senza aumenti salariali (almeno in Italia), le banche centrali saranno costrette ad alzare i tassi d’interesse al fine di congelare il credito, il modo più efficace per frenare l’aumento dei prezzi. Tuttavia, visto il vulcano del debito pubblico, ma anche privato, su cui siamo sdraiati, qualsiasi rialzo dei tassi d’interesse provocherebbe una crisi economica globale accanto alla quale quella degli anni Trenta rischierebbe di sembrare una pioggia di mezza estate.
Da noi la cosa sarebbe ancora più complicata, poiché c’è di mezzo la faccenda della scarsa produttività del lavoro, almeno in certi settori, che viene per l’appunto compensata con bassi salari. Sappiamo altresì che la cosa è vera solo in parte, poiché in generale mentre i salari sono rimasti bassi, i profitti sono saliti alle stelle, anche se poi (e qui mi scappa una botta di marxismo) vi sono aziende che delocalizzano perché il tratto caratteristico, che contraddistingue specificamente il modo di produzione capitalistico, è la produzione del plusvalore come scopo diretto e motivo determinante della produzione. Perciò non si guarda in faccia a nessuno.
C’è anche chi propone di abbassare le tasse sul lavoro e sulle imprese, vexata quæstio. Per far questo servirebbero prima delle riforme, per far pagare tasse a chi le evade o non ne paga quanto sarebbe giusto. Che è un po’ come la lotta alla grandine bruciando il ramoscello d’olivo benedetto dal prete.
Ad ogni modo, per il gusto della discussione, vediamo quali benefici diretti e indiretti porterebbe l’aumento dei salari a lavoratori e aziende. È sbagliato pensare che qualsiasi aumento dei salari porti alla disoccupazione perché le aziende si separeranno dai dipendenti che sono diventati troppo costosi per loro. Le spiegazioni sono semplici: meglio pagati, i dipendenti sono più motivati, meno spesso assenti, e quindi più produttivi. Magari non nelle aziende pubbliche o partecipate, ma in tal caso il problema è un altro. Un altro vantaggio di un salario più elevato è quello di spingere le aziende a una maggiore razionalizzazione dei processi produttivi e all’innovazione. La qualità e quantità del lavoro viene così a migliorare.
Inoltre, meglio pagati, i lavoratori possono rinunciare ai secondi e terzi “lavoretti”, liberano occasioni occupazionali per altri, hanno più tempo per se stessi, e di conseguenza si prendono più cura di sé e godono di una salute migliore con beneficio per la spesa sanitaria. Pare che negli Stati Uniti si sia scoperto che gli aumenti del salario in alcuni Stati, come la California, abbiano ridotto la violenza domestica, migliorato la frequenza scolastica dei figli, perfino ridotto le gravidanze adolescenziali e altro ancora. Secondo me anche in questo c’è del vero: i soldi non sono tutto ma aiutano più delle buone parole.
Intanto s’è fatto tardi, perciò dobbiamo arrivare alle decisioni. Mi pare che siamo entrambi d’accordo, perciò si farà così: aumenti contrattuali del 10 per cento per tutti, poi si vede. Bene, ciao-ciao.
Grazie per i suoi ottimi articoli. Collegandomi a quello precedente mi domando quale peso abbia avuto la stretta alle importazioni dalla RPC nella spirale inflazionistica, usualmente attribuita ai costi delle materie prime. Gli oligarchi occidentali possono davvero rinunciare ad oltre un miliardo di servi? Ricordo che furono proprio gli USA a favorire l'ingresso della RPC nel WTO, nel fatale 2001.
RispondiElimina(Peppe)
Mah, penso che il grosso delle produzioni, se conviene, continueranno in Cina, salvo quelle più strategiche. Resta che la Cina controlla gran parte delle materie prime strategiche. Argomento molto complesso che va studiato con dati. Grazie del commento, Peppe
EliminaVorrei solo chiosare in modo forse saccente sul termine "liberista".
RispondiEliminaSolo in Italia c'è questa distinzione fra "liberale" e "liberista". Se uno vuole tradurre in un'altra lingua, trova un solo vocabolo, non due.
La distinzione emerse quando la sinistra riformista italiana cominciò a autodefinirsi liberale. Sentirono allora il bisogno di marcare le distanze dai liberali più a destra. In sostanza, "liberale" è un liberale buono, "liberista" è un liberale cattivo.
Nulla a che vedere, comunque, con i "liberals" angloamericani. Quelli sono un po' come Mantellini. O, per meglio dire, Mantellini è un aspirante liberal.
basterebbe far mente a quante correnti di democristiani (per fermarci a loro) esistevano.
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