venerdì 12 giugno 2020

Gli ipocriti sono molti di più



Razzisti e schiavisti sono in numero cospicuo a ogni lato del pianeta, ma gli ipocriti sono in numero ancora maggiore. E siccome l’ipocrisia in questi giorni è montata forte contro questo e quello, di seguito, ripropongo, senza averne mutato una virgola, un post del 13 settembre 2015.  I dati riportati sono tratti dai migliori e più asettici studi sul tema.

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Nel 1860 negli stati del sud americano vivevano più di dodici milioni di anime, ma circa quattro milioni sopravvivevano in condizioni di schiavitù. Essi costituivano un capitale prezioso perché con il loro lavoro consentivano a molti proprietari di schiavi di vivere nell’agiatezza e in non pochi casi nell’opulenza. Quei quattro milioni di schiavi valevano tre miliardi di dollari, una cifra favolosa per l’epoca e che superava di gran lunga il valore di tutte le terre coltivabili degli Stati Uniti.

Le piantagioni producevano soprattutto cotone, che costituiva oltre i due terzi di tutto il cotone commerciato nel mondo e circa l’80 per cento di quello trasformato dalla mastodontica industria tessile britannica, e anche tabacco, riso e canapa. Appannaggio esclusivo degli schiavi erano anche tutti i lavori domestici e di fatica. Ad ogni modo solo un quarto della popolazione bianca era proprietaria di schiavi, la maggior parte della quale era proprietaria da quattro a sei schiavi.

Per essere considerati dei “coltivatori”, secondo l’ufficio federale del censimento, bisognava essere proprietari di almeno venti schiavi, e dunque solo un padrone su otto apparteneva a questa categoria. Ed erano questi “coltivatori” a detenere oltre la metà degli schiavi di tutto il Sud e una porzione ancora più grande della produzione agricola.



La vera e propria aristocrazia terriera contava diecimila famiglie, le quali possedevano ciascuna cinquanta e più schiavi. Ed era questa élite di proprietari che dava forma al governo e tono alla società. Circa tremila famiglie possedevano almeno cento schiavi. E però in cima alla piramide stavano trecento famiglie di latifondisti ciascuna delle quali poteva contare non meno di 250 schiavi, e alcune di esse arrivava a oltre quattrocento schiavi, tra queste quella di Robert Barnwell Rhett (1800-1876), della Carolina del Sud, editore del quotidiano Charleston Mercury, un tipo molto bellicoso.

Il culmine veniva toccato da non più di una cinquantina di famiglie latifondiste, con oltre cinquecento schiavi, o anche più di mille come nel caso di Thomas Pollock Devereaux (1793-1869), padre della una nota diarista, Catherine Devereaux Edmondston (*). Lo sfruttamento del lavoro schiavile consentiva a queste famiglie di vivere con ogni agio in grandi ville di stile neoclassico con imponenti colonnati e scalinate, arredate con sfarzo, e di possedere dei palazzi in città. Di dar luogo ai loro piramidali doveri con cacce, regate e corse di cavalli, dove gli schiavi venivano utilizzati come rematori e fantini, e gl’immancabili ricevimenti e le feste danzanti.

A scorrere l’elenco dei presidenti degli Stati Uniti d’America di schiavisti ce ne sono parecchi: George Washington, Thomas Jefferson, James Madison, James Monroe, Andrew Jackson, John Tyler, James Knox Polk e Zachary Taylor; numerosissimi poi i membri del congresso e della corte suprema. E vi era un bellimbusto francese che in quel periodo, da una posizione di classe aristocratica, scriveva poderosi tomi sulla democrazia in America, opera che avrebbe influenzato, tra gli altri, molti esponenti del sedicente partito comunista italiano, poi diventati fieri “anticomunisti”.

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L’impiego degli schiavi neri in catene nel Sud era nulla dal punto di vista dello sfruttamento economico a confronto dell’utilizzo di un’altra forma di schiavitù diffusa nel Nord, quella dove un capitalista poteva impiegare nelle sue fabbriche migliaia di salariati di ogni colore, peraltro senza le seccature che le antiche forme procurano ai padroni nella gestione degli schiavi. E dunque si può ben dire che la guerra civile americana fu vinta da una forma superiore e più produttiva di schiavitù mascherata dalla libertà formale del lavoratore.

I veri ricchi non vivono tra il sudore e l’odore degli schiavi in catene, non coltivano cotone ma titoli, scontano le migliori cambiali e con opportuni calcoli distinguono sempre l’utile proprio dall’inutile altrui. Frequentano club esclusivi dove la discrezione e la prudenza sono la norma, viaggiano clandestini nelle barche e nei jet di proprietà o a nolo. Sono e amano essere invisibili. Il “lavoro” sporco di gestione della grande prigione lo lasciano fare ai politici e ai collezionisti di statistiche.

Per quanto riguarda la schiavitù, uno dei più radicati fraintendimenti è di vederla come l’antitesi del capitalismo, quando invece essa ne rappresenta nelle mutate forme giuridiche la quintessenza del suo sviluppo storico. Nella sostanza del risultato non vi è differenza tra il lavoro coatto di uno schiavo costretto in catene e il dover lavorare per imprescindibili motivi di necessità (**).

Se gli schiavi delle piantagioni non avessero temuto la frusta dei sorveglianti e degli stessi padroni non avrebbero lavorato; allo stesso modo i salariati non lavorerebbero per i loro padroni se non fossero costretti da un altro tipo di frusta, invisibile ma non meno efficace, ossia il bisogno di procurarsi il necessario per la loro sopravvivenza. Si tratta in definitiva di due modi storicamente distinti di organizzazione del lavoro. In definitiva è il capitale a decidere quale forma di sfruttamento sia più “razionale”, vale a dire quale forma di sfruttamento gli permette e gli assicura una maggiore valorizzazione.

La guerra civile americana, di là delle sue motivazioni politiche e ideologiche, così come il conflitto permanente tra capitale e lavoro, ha avuto come suo oggetto essenziale la lotta per stabilire, in un dato momento storico, quale fosse la più opportuna forma economica e giuridica per sfruttare al meglio il lavoro.

(*) Particolarmente istruttive sono queste considerazioni della diarista citata a proposito della liberazione degli schiavi e del loro successivo impiego, “per bisogno”, nelle stesse piantagioni in cui avevano lavorato coattivamente.

(**) Questa eternizzazione del rapporto fra il capitale in quanto compratore e l’operaio in quanto venditore di lavoro è una forma di mediazione immanente al modo di produzione capitalistico, ma una forma che si distingue solo formalmente dalle altre e più dirette forme di asservimento e di appropriazione del lavoro da parte del detentore delle condizioni della produzione. Esso maschera come puro rapporto monetario la vera transazione e quella dipendenza che la mediazione della compra-vendita rinnova di continuo. Non è vero soltanto che le condizioni di questo traffico sono costantemente riprodotte; è anche vero che ciò con cui l’uno acquista e ciò che l’altro è costretto a vendere sono in pari grado risultati del processo. Il rinnovo continuo di questo rapporto di compra-vendita non fa che mediare la continuità dello specifico rapporto di dipendenza e conferirgli l’apparenza ingannatrice della stipulazione di un contratto fra possessori di merci dotati di eguali diritti e parimenti liberi l’uno di fronte all’altro (Il Capitale. Per la critica dell’economia politica, Capitolo VI inedito, La Nuova Italia, 1969, pp. 98-99).


6 commenti:

  1. È strano che si abbattano le statue dello schiavista ispano-genovese e si divinizzi la figura di Steve Jobs, schiavista telefonico. O no?
    Pietro

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    1. alcuni servi non brillano per furbizia...

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  2. Articolo di logica indubitabile. Grazie.

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  3. libertè-egalitè-PROPRIETÈ
    Nel 1776 l'economista inglese Adam Smith, nel suo libro Ricerca sopra la natura e sulla causa della ricchezza delle nazioni giudicò antieconomica la schiavitù e dimostrò che era più costoso mantenere uno schiavo anziché pagare il salario ad un bracciante libero. Le sue considerazioni, oltre ovviamente a quelle umanitarie, ebbero un peso significativo nella abolizione del commercio degli schiavi.

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    1. Effettivamente A.S., nel capitolo 8 del libro I (e altrove, dove fa cenno anche alla minore produttività degli schiavi)dice più o meno quello, sviluppando un concetto di salario di sussistenza che ritroveremo in Marx (Olympe mi corregga se sbaglio). Tuttavia, ci andrei piano con il verbo "dimostrare", visto che il ragionamento si basa sulla trascuratezza del padrone di schiavi nel controllare i costi. Che poi i commercianti di schiavi prendessero decisioni strategiche basandosi sul testo di A.S., mi pare dubbio. Faccio inoltre presente che la schiavitù nel mondo non si è esaurita con la tratta verso le Americhe.

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    2. concordo. oltretutto abolita la tratta legale degli schiavi, essa proseguì illegalmente verso le americhe per circa 1/2 secolo. divenne antieconomica perché gli schiavi già importati si riproducevano abbastanza rapidamente e copiosamente, un po' come i conigli di Fibonacci.
      Le ragioni morali seguono sempre quelle economiche, altrimenti non s'affacciano.

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