Certe realtà sono difficili da fare accettare, tuttavia bisogna prendere atto che il presupposto di ogni sana politica poggia sul riconoscimento che l’essenziale di una nazione che voglia giocare un proprio ruolo nel contesto internazionale sta, oggi come ieri e in primo luogo, nella sua potenza economico-finanziaria, militare, politica, demografica.
Nei rapporti internazionali è tanto più in quelli con gli altri paesi europei, rinunciare a una politica di potenza significa, nel migliore dei casi, accontentarsi di un ruolo di gregari degli interessi e delle decisioni altrui.
Non è da oggi che Italia ha perso peso economico e quanto alla sua credibilità politica per trovarne traccia è necessario risalire a epoche quasi remote. Sempre ricattabile a causa del suo enorme debito e politicamente instabile, nonostante la sua posizione geografica strategica, essa è considerata dalle altre potenze una entité négligeable.
Al suo interno il paese è sottoposto alle variabili dei suoi molteplici centri di potere, non ultimi quelli occulti e a sfondo criminale. Sul piano dei rapporti con i partner europei, l’Italia conta quanto l’Austria e i Paesi Bassi, probabilmente anche di meno, ma i suoi maggiorenti politici e il loro codazzo mediatico sanno costruire a tal riguardo molte illusioni popolari.
Nello scacchiere mediterraneo, l’Italia ha un peso notevolmente inferiore, per esempio, a quello della Turchia, che è più autonoma dalla Nato e ben più attenta ai suoi interessi strategici nell’area. Militarmente l’Italia è adibita a compiti di peacekeeping e d’infermeria per quanto riguarda l’esercito e, per la marina militare, di protezione del naviglio mercantile nazionale oltre che di “lotta all’immigrazione clandestina”.
La Francia, per contro, pur essendo stata sconfitta nel 1940 e l’aver il suo governo legittimo collaborato con la Germania nazista, recita da decenni il ruolo di una reale potenza: affrancata dalla presenza nel proprio territorio da basi Nato, è dotata di un complesso militare-industriale di primo livello (dove lo Stato è spesso azionista unico), è una potenza spaziale e aeronautica, dispone di un arsenale nucleare autonomo (3a potenza mondiale).
L’Italia non dispone nemmeno per approssimazione della capacità dell’Armée française, e, dopo decenni dalla fine del Patto di Varsavia, è ancora feudo delle forze armate americane che nel suo territorio possono fare impunemente ciò che vogliono. Dopo 75 anni dalla fine del secondo conflitto mondiale, l’Italia non può dotarsi di una propria deterrenza strategica. Come se, per analogia, ancora nel 1890 fosse stata preclusa alla Francia dai suoi vincitori la costruzione di un’adeguata forza militare perché definitivamente sconfitta a Waterloo nel 1815.
Né, per altro verso, l’Italia può mettere nel piatto della bilancia una propria potenza industriale e tecnologica avvicinabile a quella della Germania, dalla quale fortemente dipende (*). Tirate le somme, non è casuale, in tal senso, che i veri vertici europei decisivi siano quelli bilaterali tra Germania e Francia. Gli altri paesi e con essi l’Italia, di fatto partecipano a poco più di uno Zollverein, sempre pronti ad azzuffarsi su questioni marginali.
(*) Il nostro paese, sempre caratterizzato prevalentemente da processi di sviluppo individualistici basati sulla creatività e l’intraprendenza personale, aveva tuttavia a suo tempo saputo costituire un sistema d’imprese pubbliche e di enti di gestione, riuniti poi nel 1956 sotto il controllo dei ministeri delle Partecipazioni Statali e dell’Industria. Nel decennio 1971-1981, L’IRI, l’ENI e l’EFIM erano, in termini di occupazione, ai primi posti nell’elenco dei dieci più importanti gruppi industriali italiani. Non solo e non tutti carrozzoni della politica come s’è voluto far credere, in realtà si contavano industrie e attività di prim’ordine, anche in termini di redditività. Fincantieri è una delle poche grandi aziende pubbliche ad essere sopravvissuta, nel settore della cantieristica navale è attualmente il più importante gruppo navale d’Europa.
L’IRI controllava le partecipazioni industriali, bancarie e altri servizi; l’EFIM controllava le partecipazioni nei settori metallurgico e meccanico; l’ENI quelle petrolifere, tessili e petrolchimiche, l’EAGG le imprese del settore cinematografico, l’EAGAT nel settore termale e l’EGAM nel settore minerario, eccetera.
Già prima, ma soprattutto a seguito delle pressioni derivanti dal processo di unificazione europea e dei conseguenti parametri di Maastricht, si era proceduto a una vera e propria svendita del patrimonio pubblico (legge Amato dell’8 agosto 1992, n° 359), senza che fosse svolto alcun tipo di dibattito politico e pubblico sul processo di privatizzazione, verificando le compatibilità di politica economica, definendo gli obiettivi ultimi dell’operazione e la selezione dei beni oggetto di privatizzazione. Anche l’allora tanto decantato obiettivo conosciuto sotto il nome di “azionariato popolare” o “diffuso”, ha significato la cessione dei gioielli di famiglia al grande capitale internazionale.
A tal fine, sarebbe molto interessante, ad esempio, paragonare il processo di cessione del patrimonio pubblico italiano tra gli anni Ottanta e Novanta con l’opera dell’apposita commissione tedesca che ha, in poco tempo, partecipato, venduto o riconvertito tutto il patrimonio statale della ex Germania dell’Est.
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