Si fa sempre più sciapa la diatriba tra neokeynesiani
(qualunque cosa ciò voglia dire con questi chiari di luna) e i realisti più
realisti del re, i quali ultimi sostenendo che lo “stimolo artificiale della
domanda” produce guasti al sistema con infine l’incremento del già enorme
debito pubblico. Da entrambe le sponde è preso in considerazione solo l’aspetto
circolatorio, finanziario e distributivo dell’economia. Ciò che avviene a monte
non ha rilievo se non per l’asettica presa d’atto statistica relativa all’andamento
congiunturale e il dato sull’occupazione/disoccupazione. Sull’interpretazione
di tali dati si formano le più cervellotiche convinzioni.
Sono quasi due secoli che l’economia politica non
indaga più la realtà ma si limita a descrivere le ombre proiettate sul fondo
della caverna. Perché ciò avvenga è presto detto: almeno a livello ufficiale
dev’essere mantenuto il silenzio sul segreto (di Pulcinella) della società
borghese, ossia sul fatto che essa, sotto qualunque bandiera nazionale ed
ideologica, è una società che continua a poggiare sulla schiavitù.
Dopo che l’utopia neoclassica dell’”equilibrio
perfetto” si dimostrò per quel che era, iniziarono a farsi strada, presso gli
apologeti del capitalismo J.A. Schumpeter e W.C. Mitchell, i primi abbozzi di
una “teoria dei cicli” che non era altro che una presa d’atto della natura
ciclica del capitalismo. La crisi generale del 1929, infine, con la sua
sconvolgente drammaticità, rendeva indilazionabile mettere i piedi per terra,
ossia abbandonare l’utopia ed escogitare nuove giustificazioni a favore del regno millenario del libero scambio.
Lo stesso Keynes, che in passato era stato uno dei
più eminenti esponenti della teoria neo-classica, dovette prendere atto che la
teoria dell’“equilibrio” è un’invenzione, una fola che non ha nulla a che
vedere con il mondo reale (*). Il sistema capitalistico, lasciato alla sua
spontaneità, non tende all’equilibrio, ma allo squilibrio dei vari fattori a
causa della divaricazione tra domanda e offerta. Invece di indagare a fondo le
cause di tale “disarmonia”, Keynes s’inventa una bizzarra “legge psicologica”
che chiama della “diminuzione della propensione al consumo”.
Secondo questo lord inglese, alla base dei movimenti
economici stanno non ben definiti “elementi psicologici”, che, mentre dai
neo-classici vengono utilizzati per risolvere il “misterioso” problema della
determinazione dei prezzi, in lui giustificano la tendenza, ugualmente
“misteriosa”, del sistema allo squilibrio. Egli sostenne che per ricondurre il
sistema all’equilibrio di piena occupazione è necessario produrre della domanda
aggiuntiva, “aggregata”, tramite l’intervento dello Stato, che si esplica
essenzialmente mediante la definizione del saggio d’interesse, la politica
fiscale, forme di controllo sulla massa complessiva degli investimenti per
determinarne il volume complessivo, ecc..
Il solito vecchio trucco: la contraddizione (lo
“squilibrio”) perde il carattere capitalistico per assumerne uno “umano”: non è
il modo di produzione capitalistico che contiene in sé le cause dello
squilibrio, ma la psiche umana; non è quindi il modo di produzione che va
cambiato, ma la testa degli uomini!
La Teoria
Generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta fu pubblicata nel
1935, dunque dopo il varo del New Deal rooseveltiano. Keynes, un ciarlatano al
pari di tanti altri suoi colleghi, sistematizzò in una “teoria” ad hoc ciò che già avveniva negli Usa,
in Germania, in Italia e in altri paesi. L’intervento pubblico a sostegno
dell’economia in crisi è sempre stata una prassi fin dalle epoche più remote. Gli scrittori borghesi trovano sempre modi nuovi per dire cose note, per cui anche quando ripetono cose risapute le scoprono autonomamente.
In seguito i lavori degli economisti keynesiani
rappresenteranno per decenni una silloge imprescindibile negli atenei
occidentali e una nuova religione per i saltafossi del riformismo che con essa
beatificarono il capitalismo, fino a quando la crisi fiscale dello Stato ha
travolto anche Keynes e la sua baracca di burattini.
I neoliberisti hanno buon gioco nell’affermare che “La domanda aggregata della quale si parla
in macroeconomia è domanda effettiva, domanda che si traduce in capacità di
spesa. Se il potere d'acquisto dei lavoratori si sviluppa di pari passo alla
loro produttività, la domanda potrà essere finanziata dai redditi dei
lavoratori stessi. Ma se la produttività cresce più in fretta dei salari reali,
allora ci saranno in giro più prodotti che redditi da lavoro per acquistarli”.
Con ciò scompare d’incanto la contraddizione interna, immanente, della crisi
capitalistica.
Non si scopre nulla dicendo che se i salari crescono
meno della produttività ci saranno in giro più prodotti che i redditi da lavoro
non possono acquistare. Tuttavia, anche se la produttività del lavoro aumenta (così
come se rimane stagnate) e aumentano i salari (ma pur rimanendo fermi), in ogni caso lo squilibrio tra domanda
e offerta, ossia la crisi, si manifesta ugualmente. Com’è possibile? Per
dimostrarlo non servono grafici né complesse equazioni, tantomeno “algoritmi”.
L’arcano sta nell’eccedenza del valore del prodotto
sul valore dei fattori del prodotto consumati, cioè dei mezzi di produzione e
della forza-lavoro. Lo sanno bene ma preferiscono parlar d’altro.
(*) “Dimostrerò
che i postulati della teoria neo-classica si possono applicare soltanto ad un
caso particolare e non in senso generale, la situazione da essa supposta
essendo un caso limite delle posizioni di equilibrio possibili. Avviene inoltre
che le caratteristiche del caso particolare, supposto dalla teoria
neo-classica, non sono quelle della società economica nella quale
effettivamente viviamo; e che quindi i suoi insegnamenti sono ingannevoli e
disastrosi, se si cerca di applicarli ai fatti dell’esperienza.”
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