Sulla vexata
quæstio produttività del lavoro & salari c’è una certa confusione sotto
il cielo. La cosa non deve destare meraviglia visti i chiari di luna e che quasi a nessuno importa davvero. Provo
dire due cose che abbiano senso e non siano troppo complicate, cioè partiamo da
un esempio concreto letteralmente terra-terra.
Due cantieri edili dove si scavano delle fondamenta.
Nel primo cantiere gli operai usano pala e piccone per scavare, nell’altro invece
usano allo stesso scopo un mezzo meccanico, cioè una escavatrice. L’organizzazione
del lavoro tra i due cantieri è diversa, poiché differenti sono i mezzi di
lavoro e la quantità di manodopera necessaria. Nel secondo cantiere ciò si
traduce in un netto risparmio di forza-lavoro dato dalla maggiore produttività
del lavoro stesso grazie l’impiego di un mezzo tecnico incomparabilmente più
evoluto di pala e piccone.
Infatti, a trarre vantaggio è l’impresa che effettua
i lavori con tale macchina, poiché, pur investendo un maggiore capitale in
mezzi di produzione, essa risparmia notevolmente sui costi della forza-lavoro,
e in tal modo diventa più competitiva rispetto all’impresa che nello scavo impiega
solo la forza delle braccia umane.
L’impresa meno competitiva non può far altro, per
reggere in qualche modo la concorrenza “meccanizzata”, che ridurre i costi, anzitutto
quelli salariali. Un tempo gli operai entravano in lotta a difesa dei salari,
mentre oggi, di là di altre considerazioni, essi si trovano in una situazione
di concorrenza sia con la manodopera immigrata e sia con imprese estere che a
prezzi stracciati vincono gli appalti pubblici e privati.
Bisogna tener conto che il lavoro è parificato alle
merci, e perciò è soggetto alle leggi che regolano il movimento generale dei
prezzi, e che dunque il prezzo di mercato del lavoro, come quello di tutte le
altre merci, si adatterà a lungo andare al suo valore.
In ultima analisi l’operaio non riceverà in media che
il valore del suo lavoro, il quale si risolve nel valore della sua
forza-lavoro, determinato a sua volta dal valore degli oggetti d'uso necessari
per la sua conservazione e la sua riproduzione, valore che, infine, è regolato
dalla quantità di lavoro necessaria per la loro produzione (*).
Se la quantità di lavoro necessaria per la produzione
degli oggetti d'uso necessari per la conservazione e la riproduzione
dell’operaio è data dal valore del suo lavoro con la pala e il piccone, va da
sé che l’operaio dovrà lavorare per più tempo e con un salario più basso
rispetto all’operaio che lavora con mezzi più moderni.
Per questo e altri motivi, parlare di salario minimo,
tanto più a livello europeo, è alquanto stravagante. Il salario non è una
variabile indipendente, piaccia o no, esso è correlato alla produttività del
lavoro.
(*) Qui si astrae dal fatto che il valore della
forza-lavoro è costituito da due elementi, di cui l'uno è unicamente fisico,
l'altro storico/sociale, cioè secondo il tenore di vita tradizionale in ogni
paese, ma anche questo, come vediamo anche ultimamente, è soggetto a
scostamenti di congiuntura. Finora, nel tentativo di conservare fisicamente la
“razza”, si stanno inventando un po’ di tutto in Italia e in Europa, compreso
il reddito di cittadinanza e quello di sostegno alla povertà (non una novità
storica), in ciò dimostrando: 1) cinismo; 2) illusorietà e stolidezza.
Quindi si cade in un bel vicolo cieco in cui il povero salariato italiano, (per restare entro i drammatici confini nazionali che ancora comunque sulla carta esistono, drammatici perchè oltretutto si continua a morire sui posti di lavoro come mosche o quasi) si vede fronteggiare dal nemico tecnologico (la macchina robot) dal nemico che lo sfrutta (imprenditore o tale) dal nemico straniero (lavoratori extracomunitari pagati una pagnotta) e dal nemico tesserato (il sindacato).
RispondiEliminaNon è una lotta impari?
Grazie per i continui spunti di riflessione
Roberto
fotografi bene la situazione. a chi importa? senti gridare: il lavoro non è una merce. poveri illusi.
Eliminagrazie a te, ciao