Mancano i fondamentali. Questo è il motivo per il
quale si continua a dare credito a frasette come questa:
«i robot lavoreranno al posto vostro e lo Stato dovrà
pagarvi il salario».
Questa previsione ha uno scopo ben preciso, quello di
affermare che in futuro il capitalismo, per mezzo della tecnologia, avrà
risolto le sue contraddizioni, la crisi e il conflitto sociale.
oggi l’unica vera domanda è questa: sosteniamo la
predominante accettazione del capitalismo come fatto di natura (umana), o
l’odierno capitalismo globale contiene antagonismi abbastanza forti da
impedirne l’indefinita riproduzione?
Zizek enumera “quattro antagonismi”: 1) I beni comuni
della cultura; 2) I beni comuni della natura esterna, minacciata
dall’inquinamento umano; 3) I beni comuni della natura interna (l’eredità
biogenetica dell’umanità); 4) I beni comuni dell’umanità stessa, dello spazio
condiviso sociale e politico: più globale diventa il capitalismo, più sorgono
muri e apartheid.
Ebbene nessuno dei “quattro antagonismi” elencati da
Zizek ha minimamente a che fare con gli antagonismi reali rilevati da Marx
nell’analisi del modo di produzione capitalistico. Vale a dire che Zizek si
pone come critico laterale del capitalismo, in buona sostanza come sodale della
borghesia.
La critica laterale del capitalismo costituisce il difetto principale di tutti coloro che si
ripromettono con magiche ricette di riformare questo sistema economico e
sociale, oppure addirittura di reinventare il comunismo come fa Zizek, indicando i motivi della crisi del sistema in questa o
quella causa, oppure in un insieme di cause che in realtà hanno solo una
relazione parziale o addirittura apparente con il fallimento di questo sistema. Essi denunciano un circolo vizioso di
inefficienza e irrazionalità, di abusi e soprusi, che sono ben evidenti
ma che sono solo gli effetti di una situazione nella quale agiscono ben altre leggi
e contraddizioni. Ed è per tali ragioni che le loro proposte di cambiamento radicale, di stimolare l’economia e di dotare il sistema di nuove regole non producono alcun
frutto o solo dei risultati limitati e in definitiva insufficienti.
*
Domanda: avete mai visto una macchina, un qualunque oggetto,
a qualunque livello di sofisticazione informatica e robotica, cambiare di per
sé il proprio valore, ossia produrre di per sé del nuovo valore, del valore – come direbbero gli economisti liberali –
aggiunto? Può cambiare il suo
prezzo, ma non il suo valore. Nel processo produttivo, il valore del capitale
costante (infrastrutture, macchinari, materie prime ed ausiliarie, ecc.) si
conserva trasmettendosi al prodotto e cioè per riapparire soltanto nel valore dei
prodotti senza aggiungervi alcunché.
Qualunque tipo di macchinario, fosse pure il più
“intelligente” dei robot, agisce per intero come mezzo di lavoro, ma aggiunge valore al prodotto solo nella misura
in cui il processo lavorativo lo svalorizza, una svalorizzazione che è
determinata dal grado di logoramento del suo valore d’uso durante il processo
lavorativo.
Oggi per produrre una qualsiasi merce è necessaria
una quantità di lavoro vivo (cioè di lavoro immediato) molto inferiore rispetto
al passato. Ciò è evidente a tutti qualora si consideri la massa di lavoro
oggettivato che il lavoro vivo può mettere in moto. In altri termini, la
quantità di prodotti disponibili non è determinata dalla quantità del lavoro
erogato, ma dalla sua stessa forza produttiva. E tuttavia la premessa della produzione basata sul valore è e rimane la quantità
di tempo di lavoro immediato, la quantità di lavoro impiegato, come fattore
decisivo della produzione della ricchezza.
Solo il
lavoro umano, in certe condizioni, può
creare, nel corso del processo lavorativo, nuovo valore. Le macchine, invece, oltre
a cedere progressivamente il proprio valore intrinseco ai prodotti, ossia
svalorizzandosi esse stesse, non creano una stilla di nuovo valore.
Nella realtà concreta lo sviluppo della tecnologia permette,
da un lato, un maggior grado di sfruttamento del lavoro e l’appropriazione del
pluslavoro e del plusvalore, e dunque funziona come antagonista della caduta
del saggio del profitto; tuttavia, dall’altro lato, l’impiegare, in proporzione
al capitale anticipato, il minor lavoro possibile, fa in modo che le medesime
cause che permettono di aumentare il grado di sfruttamento del lavoro impediscono che — impiegando lo stesso
capitale complessivo — venga sfruttata
la stessa quantità di lavoro di prima.
Questa dinamica, oggi alla luce del sole, mentre
spinge verso un aumento del saggio del plusvalore, influisce al tempo stesso
nel senso della diminuzione della massa del plusvalore prodotto da un capitale
determinato e quindi nel senso della diminuzione del saggio del profitto. Pertanto,
lo sviluppo tecnologico è tra le cause che in un primo tempo ostacolano ma in
ultima analisi accelerano sempre la caduta
del saggio del profitto. E ciò non è senza conseguenze decisive, specie
nella fase attuale del capitalismo (*).
E dunque, cari feticisti del capitale, se non si
vuole fin dapprincipio menar il can per l’aia, oggetto dell’indagine da cui
bisogna necessariamente partire non è in sé e semplicemente lo sviluppo
tecnologico, la sostituzione del lavoro umano con quello delle macchine, ma l’indagare il rapporto tra sviluppo
delle forze produttive e i rapporti sociali di produzione nel quadro dei reali antagonismi della dinamica capitalistica.
Qui non si tratta nemmeno di discutere come
potrebbero le macchine lavorare al posto nostro e lo
Stato pagarci il salario, ma di spiegare come risolvere una questione che sta a
monte.
Per appropriarsi di quote maggiori di plusvalore i capitalisti devono
costantemente aumentare la produttività del lavoro e dunque migliorare
incessantemente il livello tecnico degli impianti e del macchinario. Ciò comporta
la riduzione del numero di operai e addetti richiesti per la stessa quantità di
produzione, e dunque un mutamento della composizione di valore del capitale, vale
a dire un aumento progressivo del capitale costante (impianti, macchine,
materie prime, ecc.) in rapporto a quello variabile (salari).
Per farla breve e tralasciando altre
determinazioni pur essenziali: poiché l’unica fonte di valore, e quindi di
plusvalore, è la forza-lavoro, la diminuzione relativa del capitale variabile in rapporto a quello
costante implica che si giunga ad un punto del processo di accumulazione in cui
il plusvalore prodotto è divenuto così piccolo, relativamente al capitale
complessivo accumulato, che non è più sufficiente a valorizzare l’intero
capitale, facendogli compiere il necessario salto di composizione organica.
In altri termini, è dimostrabile che non
ogni quantità di profitto (plusvalore) può trasformarsi in un aumento
dell’apparato tecnico di produzione: per l’espansione – qualitativa e
quantitativa – della scala della produzione è necessaria infatti una quantità
minima di capitale addizionale, quantità che nel processo di accumulazione
diventa, a causa della crescita accelerata del capitale costante, sempre
maggiore.
L’aumento della composizione organica del
capitale è una tendenza necessaria allo sviluppo capitalistico e rappresenta la
causa delle crisi che si manifesta palesemente nel fenomeno della sovrapproduzione
(e folle finanziarizzazione) che investe la società capitalistica. Ciò vuol
dire che l’accumulazione capitalistica è un processo gravido di crisi, anche se
questo non significa che il crollo del sistema capitalistico debba sopravvenire
“automaticamente”.
Questa è una reale contraddizione che
agisce come legge immanente nel processo di accumulazione capitalistico, e non dunque
le problematiche “antagonistiche” tirate in ballo da Zizek.
Pertanto, quando la produzione sarà largamente
dominata dalle macchine, quando cioè la forza-lavoro, quale lavoro vivo, sarà ridotta a una parte trascurabile del
capitale complessivo impiegato nella produzione, significherà che il modo di
produzione capitalistico si sta estinguendo oppure sopravvive marginalmente e tende a scomparire.
Una strada, a guardar bene, che abbiamo già imboccata!
Nella formazione sociale che andrà sviluppandosi e si
sostituirà al capitalismo, la forma-valore cesserà di esistere, poiché essa
assumerà un contenuto diverso da quello che le è proprio nel modo di produzione
capitalistico. Con ciò si dimostra, ancora una volta, come le categorie economiche siano l’espressione di rapporti sociali di
produzione storicamente determinati, tanto è vero che laddove la
forma-valore sopravvive, ciò accade perché i rapporti di produzione effettivi, reali, che ne giustificano l’esistenza sono ancora di tipo capitalistico. Ed è ciò che è successo
precisamente nei paesi cosiddetti comunisti: non per l’incapacità e la
cattiveria di una qualche burocrazia di partito in particolare, ma perché erano ancora assenti le condizioni storiche
oggettive indispensabili per tale trasformazione.
(*) In
termini strettamente scientifici: la
massa del plusvalore prodotta da un capitale determinato è il risultato della
moltiplicazione del saggio del plusvalore per il numero degli operai occupati a
quel determinato saggio. Essa dipende dunque, per un determinato saggio del
plusvalore, dal numero degli operai e, per un determinato numero di operai, dal
saggio del plusvalore, e, quindi, in genere, dal rapporto composto fra la
grandezza assoluta del capitale variabile ed il saggio del plusvalore.