sabato 24 giugno 2017

Il comunitarismo di Zizek



Mancano i fondamentali. Questo è il motivo per il quale si continua a dare credito a frasette come questa:

«i robot lavoreranno al posto vostro e lo Stato dovrà pagarvi il salario».

Questa previsione ha uno scopo ben preciso, quello di affermare che in futuro il capitalismo, per mezzo della tecnologia, avrà risolto le sue contraddizioni, la crisi e il conflitto sociale.

Scrive Slavoj Zizek, in questo articolo:

oggi l’unica vera domanda è questa: sosteniamo la predominante accettazione del capitalismo come fatto di natura (umana), o l’odierno capitalismo globale contiene antagonismi abbastanza forti da impedirne l’indefinita riproduzione? 

Zizek enumera “quattro antagonismi”: 1) I beni comuni della cultura; 2) I beni comuni della natura esterna, minacciata dall’inquinamento umano; 3) I beni comuni della natura interna (l’eredità biogenetica dell’umanità); 4) I beni comuni dell’umanità stessa, dello spazio condiviso sociale e politico: più globale diventa il capitalismo, più sorgono muri e apartheid.

Ebbene nessuno dei “quattro antagonismi” elencati da Zizek ha minimamente a che fare con gli antagonismi reali rilevati da Marx nell’analisi del modo di produzione capitalistico. Vale a dire che Zizek si pone come critico laterale del capitalismo, in buona sostanza come sodale della borghesia.

La critica laterale del capitalismo costituisce il difetto principale di tutti coloro che si ripromettono con magiche ricette di riformare questo sistema economico e sociale, oppure addirittura di reinventare il comunismo come fa Zizek, indicando i motivi della crisi del sistema in questa o quella causa, oppure in un insieme di cause che in realtà hanno solo una relazione parziale o addirittura apparente con il fallimento di questo sistema. Essi denunciano un circolo vizioso di  inefficienza e irrazionalità, di abusi e soprusi, che sono ben evidenti ma che sono solo gli effetti di una situazione nella quale agiscono ben altre leggi e contraddizioni. Ed è per tali ragioni che le loro proposte di cambiamento radicale, di stimolare l’economia e di dotare il sistema di nuove regole non producono alcun frutto o solo dei risultati limitati e in definitiva insufficienti. 

*


Domanda: avete mai visto una macchina, un qualunque oggetto, a qualunque livello di sofisticazione informatica e robotica, cambiare di per sé il proprio valore, ossia produrre di per sé del nuovo valore, del valore – come direbbero gli economisti borghesi – aggiunto? Può cambiare il suo prezzo, ma non il suo valore. Nel processo produttivo, il valore del capitale costante (infrastrutture, macchinari, materie prime ed ausiliarie, ecc.) si conserva trasmettendosi al prodotto e cioè per riapparire soltanto nel valore dei prodotti senza aggiungervi alcunché.

Qualunque tipo di macchinario, fosse pure il più “intelligente” dei robot, agisce per intero come mezzo di lavoro, ma aggiunge valore al prodotto solo nella misura in cui il processo lavorativo lo svalorizza, una svalorizzazione che è determinata dal grado di logoramento del suo valore d’uso durante il processo lavorativo.

Oggi per produrre una qualsiasi merce è necessaria una quantità di lavoro vivo (cioè di lavoro immediato) molto inferiore rispetto al passato. Ciò è evidente a tutti qualora si consideri la massa di lavoro oggettivato che il lavoro vivo può mettere in moto. In altri termini, la quantità di prodotti disponibili non è determinata dalla quantità del lavoro erogato, ma dalla sua stessa forza produttiva. E tuttavia la premessa della produzione basata sul valore è e rimane la quantità di tempo di lavoro immediato, la quantità di lavoro impiegato, come fattore decisivo della produzione della ricchezza.

Solo il lavoro umano, in certe condizioni, può creare, nel corso del processo lavorativo, nuovo valore. Le macchine, invece, oltre a cedere progressivamente il proprio valore intrinseco ai prodotti, ossia svalorizzandosi esse stesse, non creano una stilla di nuovo valore.

Nella realtà concreta lo sviluppo della tecnologia permette, da un lato, un maggior grado di sfruttamento del lavoro e l’appropriazione del pluslavoro e del plusvalore, e dunque funziona come antagonista della caduta del saggio del profitto; tuttavia, dall’altro lato, l’impiegare, in proporzione al capitale anticipato, il minor lavoro possibile, fa in modo che le medesime cause che permettono di aumentare il grado di sfruttamento del lavoro impediscono che — impiegando lo stesso capitale complessivo — venga sfruttata la stessa quantità di lavoro di prima.

Questa dinamica, oggi alla luce del sole, mentre spinge verso un aumento del saggio del plusvalore, influisce al tempo stesso nel senso della diminuzione della massa del plusvalore prodotto da un capitale determinato e quindi nel senso della diminuzione del saggio del profitto. Pertanto, lo sviluppo tecnologico è tra le cause che in un primo tempo ostacolano ma in ultima analisi accelerano sempre la caduta del saggio del profitto. E ciò non è senza conseguenze decisive, specie nella fase attuale del capitalismo (*).

E dunque, cari feticisti del capitale, se non si vuole fin dapprincipio menar il can per l’aia, oggetto dell’indagine da cui bisogna necessariamente partire non è in sé e semplicemente lo sviluppo tecnologico, la sostituzione del lavoro umano con quello delle macchine, ma l’indagare il rapporto tra sviluppo delle forze produttive e i rapporti sociali di produzione nel quadro dei reali antagonismi della dinamica capitalistica.

Qui non si tratta nemmeno di discutere come potrebbero le macchine lavorare al posto nostro e lo Stato pagarci il salario, ma di spiegare come risolvere una questione che sta a monte.

Per appropriarsi di quote maggiori di plusvalore i capitalisti devono costantemente aumentare la produttività del lavoro e dunque migliorare incessantemente il livello tecnico degli impianti e del macchinario. Ciò comporta la riduzione del numero di operai e addetti richiesti per la stessa quantità di produzione, e dunque un mutamento della composizione di valore del capitale, vale a dire un aumento progressivo del capitale costante (impianti, macchine, materie prime, ecc.) in rapporto a quello variabile (salari).

Per farla breve e tralasciando altre determinazioni pur essenziali: poiché l’unica fonte di valore, e quindi di plusvalore, è la forza-lavoro, la diminuzione relativa del capitale variabile in rapporto a quello costante implica che si giunga ad un punto del processo di accumulazione in cui il plusvalore prodotto è divenuto così piccolo, relativamente al capitale complessivo accumulato, che non è più sufficiente a valorizzare l’intero capitale, facendogli compiere il necessario salto di composizione organica.

In altri termini, è dimostrabile che non ogni quantità di profitto (plusvalore) può trasformarsi in un aumento dell’apparato tecnico di produzione: per l’espansione – qualitativa e quantitativa – della scala della produzione è necessaria infatti una quantità minima di capitale addizionale, quantità che nel processo di accumulazione diventa, a causa della crescita accelerata del capitale costante, sempre maggiore.

L’aumento della composizione organica del capitale è una tendenza necessaria allo sviluppo capitalistico e rappresenta la causa delle crisi che si manifesta palesemente nel fenomeno della sovrapproduzione (e folle finanziarizzazione) che investe la società capitalistica. Ciò vuol dire che l’accumulazione capitalistica è un processo gravido di crisi, anche se questo non significa che il crollo del sistema capitalistico debba sopravvenire “automaticamente”.

Questa è una reale contraddizione che agisce come legge immanente nel processo di accumulazione capitalistico, e non dunque le problematiche “antagonistiche” tirate in ballo da Zizek.

Pertanto, quando la produzione sarà largamente dominata dalle macchine, quando cioè la forza-lavoro, quale lavoro vivo, sarà ridotta a una parte trascurabile del capitale complessivo impiegato nella produzione, significherà che il modo di produzione capitalistico si sta estinguendo oppure sopravvive marginalmente e tende a scomparire. Una strada, a guardar bene, che abbiamo già imboccata!

Nella formazione sociale che andrà sviluppandosi e si sostituirà al capitalismo, la forma-valore cesserà di esistere, poiché essa assumerà un contenuto diverso da quello che le è proprio nel modo di produzione capitalistico. Con ciò si dimostra, ancora una volta, come le categorie economiche siano l’espressione di rapporti sociali di produzione storicamente determinati, tanto è vero che laddove la forma-valore sopravvive, ciò accade perché i rapporti di produzione effettivi, reali, che ne giustificano l’esistenza sono ancora di tipo capitalistico. Ed è ciò che è successo precisamente nei paesi cosiddetti comunisti: non per l’incapacità e la cattiveria di una qualche burocrazia di partito in particolare, ma perché erano ancora assenti le condizioni storiche oggettive indispensabili per tale trasformazione.


(*) In termini strettamente scientifici: la massa del plusvalore prodotta da un capitale determinato è il risultato della moltiplicazione del saggio del plusvalore per il numero degli operai occupati a quel determinato saggio. Essa dipende dunque, per un determinato saggio del plusvalore, dal numero degli operai e, per un determinato numero di operai, dal saggio del plusvalore, e, quindi, in genere, dal rapporto composto fra la grandezza assoluta del capitale variabile ed il saggio del plusvalore.

32 commenti:

  1. Che bella sorpresa trovare un post simile in un caldo pomeriggio di giugno. Grazie

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    1. mi ripaghi non solo della fatica di averlo scritto, lo sai. e l'ho scritto perché non ho ancora perso completamente la fiducia e la speranza, anche se sono ridotte al lumicino. grazie

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  2. Per la tua collezione di cacofonie di pareri sull'automazione ti passo un punto di vista cinese:

    https://www.pandoratv.it/?p=16906

    dal minuto 5,27

    ciao.g

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  3. Condivido le riserve nei confronti di Zizek, definibile a mio avviso come un ‘trickster’ della spettacolarizzazione filosofica e come una figura politicamnte pericolosa. Aggiungo soltanto che Marx, se aggiornasse il "Manifesto" all'attuale periodo, lo confinerebbe, senza nominarlo, in una sottospecie del "socialismo reazionario" come quella che reca la denominazione di "'vero' socialismo". Per il resto, Olympe ha spiegato in modo corretto il teorema marxiano sul nesso tra accumulazione, macchinismo e produzione di plusvalore (il che, in tempi in cui si è disappreso a studiare, non è poco se si pensa alle deformazioni, alle mistificazioni e alle vere e proprie falsificazioni del 'corpus' teorico e metodologico costituito dal socialismo scientifico. Sui paesi socialisti e sulla loro esperienza il discorso è lungo e complesso, ragione per cui ribadire la tesi menscevica di Plechanov sull'assenza delle condizioni materiali per la trasformazione socialista di quelle economie è fin troppo semplicistico, anche perché tale tesi ignora Lenin su tre punti fondamentali: a) l'esistenza della catena imperialistica mondiale; b) la legge dello sviluppo ineguale del capitalismo che determina lo sviluppo ineguale della rivoluzione, quindi la possibilità della costruzione del socialismo "in un paese singolarmente preso" (traduzione corretta e non fuorviante dell'espressione russa resa in italiano con la decettiva formula "socialismo in un solo paese"); 3) solo i partiti leninisti sono stati in grado di sconfiggere il capitalismo.

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    1. l'esperienza storica ha dimostrato, ancora una volta, che la storia non fa salti. Marx stesso, a proposito dell'obščina, tra molti dubbi e ripensamenti, che non rese pubblici, avanzò tale ipotesi con riserva e come caso limite tutto da verificare. per il resto la sua posizione al riguardo fu chiara. su Lenin ci sarebbe molto da discutere, sui suoi errori di valutazione, sui danni enormi che ha provocato il sistema che instaurò. la rivoluzione futura non può essere ridotta a un colpo di stato, si tratta di un processo di trasformazione di lungo periodo e che è già iniziato e non si sa bene dove ci condurrà.

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  4. la globalizzazione è fenomeno di imperialismo dove per noi diventa difficile capire la proporzione di lavoro sfruttato che sta dietro al lavoro parassitario. Il lavoro parassitario è quello dato da un automatismo sempre più simile a quello delle macchine. In Italia ormai quasi tutte le posizioni impiegatizie sono meramente parassitarie. Non c'è da sorprendersi del successo di Zizek da queste parti.

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  5. ormai siamo portati a pensare (quando pensiamo) che uno stuzzicadenti sia prodotto dalle sole macchine, ma il suo valore è dato dallo sfruttamento di migliaia di persone, anche se non capiamo bene dove e quando (globalizzazione).
    I nostri conti sulla caduta tendenziale del saggio di profitto, per non sconfinare nei conti della serva, devono passare di scala, approssimarsi verso un limite che pare indefinito... vanno almeno calcolati come limiti di una funzione, limite tendenziale di una funzione, limite tendenziale del saggio di profitto ecc ecc

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    1. http://www.dailymotion.com/video/xlvo7i_1970-rai-sketch-comico-con-raimondo-vianello-e-ugo-tognazzi_fun

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    2. Grazie, Olympe! ciao

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  6. Una presa del potere - quella dei bolscevichi - che provoca due milioni e mezzo di morti (per tacere delle epidemie e della carestia) nel periodo della guerra civile (1917-1922) Le sembra l'effetto di un "colpo di Stato"? Forse è il caso di prestare maggiore attenzione alla 'explicatio terminorum'. Dedico pertanto ad Olympe la seguente precisazione terminologica e storica, che traggo dal classico (ma sempre attuale) "Dizionario dei sinonimi della lingua italiana" di Niccolò Tommaseo: "Quando Luigi XVI udì novella che il popolo di Parigi correva armato alla Bastiglia, voltatosi al duca di La Rochefoucault: Ma questa, disse, è una 'rivolta'. No, sire, Ell'è una 'rivoluzione'". L'autore del dizionario, tra il serafico e il diabolico, così chiosa: "Quel povero duca era un sinonimista tremendo" (articolo 3017). Consiglio anche la lettura degli articoli 3018 e 3019 sulle differenze tra 'rivoluzione', 'ribellione', 'sommossa', 'sollevazione', 'insurrezione', 'cospirazione' e 'congiura'.

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    1. «Poche vicende storiche sono state deformate dal mito più profondamente di quelle del 25 ottobre 1917. L’immagine popolare dell’insurrezione bolscevica come lotta condotta da migliaia di uomini, molti dei quali caduti eroicamente sul campo, appartiene più a Ottobre, lo stupendo film eisensteiniano di propaganda narrativa per commemorare il decennale dell’evento, che non alla realtà storica. La grande Rivoluzione d’Ottobre, come finì per essere conosciuta nella mitologia sovietica, fu in effetti un avvenimento di second’ordine, null’altro che un colpo di mano militare sfuggito all’atenzione della maggioranza degli abitanti di Pietrogrado: mentre i bolscevici prendevano il potere, i teatri, i ristoranti e i tram continuavano a funzionare più o meno come al solito […]. Il leggendario “assalto” al Palazzo d’Inverno, dove il ministero Kerenskj era riunito per l’ultima seduta, fu in realtà un episodio di sequestri di persona a domicilio, considerato che già prima dell’assalto quasi tutti i difensori dell’edificio se n’erano tornati a casa stanchi e affamati e che il solo danno arrecato durante tutta la vicenda alla residenza imperiale era stato un cornicione scheggiato e i vetri infranti di una finestra al terzo piano.» Eccetera. (Orlando Figes, La tragedia di un popolo. La rivoluzione russa 1891-1924, Mondadori, p. 585).

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  7. L' ennesimo di una falange inesauribile. Daltronde l' intellettuale "puro" ( che cioè non ha altro per sopperire ai propri bisogni) ha sempre bisogno di un "principe munifico", e di "munifici" nel sistema capitalistico ci sono solo.. i capitalisti.
    ws

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  8. La caricatura dell'insurrezione d'ottobre a colpo di stato, manovra blanquista e sola "presa del palazzo d'inverno" ha una lunga tradizione, con personaggi perlopiù poco presentabili. E' imprescindibile per capire il nesso tra gli elementi di "cospirazione" e l'insurrezione e tutto il processo rivoluzionario, l'aureo capitolo, dell'aureo libro di Lev Trotsky "Storia della Riv. Russa, "L'arte dell'insurrezione. Figes, amato tra l'altro dallo scrittore ultraconsevatore Martin Amis, parla di ristoranti e tram pieni di persone ignare. Dimentica di aggiungere, come riportano Reed, Sukhanov e lo stesso Trotsky che si trattava di "junkers", ufficiali e controrivoluzionari. La Guardia rossa (che ha una lunga tradizione sin dal 1905), la guarnigione di Pietrogrado, i marina del baltico, sino ai ferrovieri e agli operai delle poste e dei telegrafi sono non solo coi bolscevichi ma, in larghi strati, pensano si sia aspettato troppo. La stragrande maggioranza del proletariato e dei Soviet non aspettavano altro.
    Mordcaj

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    1. non mi sognerei di declassare la rivoluzione russa a un colpo di mano, ma l'ottobre fu anche questo

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    2. E allora veniamo a Trotskij:

      «Alla mattina mi precipito sulla stampa borghese e conciliatrice. Non una parola dell’insurrezione. I giornali hanno scritto e urlato da ossessi dell’imminente insurrezione di soldati armati, di saccheggi, di inevitabili disastri e fiumi di sangue, tanto che semplicemente non si sono accorti dell’insurrezione avvenuta.
      […] Sotto il nuovo regime il cittadino si fregò gli occhi spaventato. È proprio vero che i bolceviki hanno conquistato il potere? Da me si presentò una deputazione della Duma cittadina, la quale mi fece delle domande inimitabili: se intendevamo fare delle dimostrazioni,
      quali e quando, poiché la Duma “doveva saperlo almeno ventiquattro ore prima”. E quali misure il Sovjet avesse preso per il mantenimento dell’ordine?
      Il Governo risiedeva, come prima, nel Palazzo d’Inverno, ma si mutava ormai nella propria ombra. Politicamente esso non esisteva più.
      I cittadini hanno dormito in pace senza sospettare che in tanto il potere si sostituiva all’altro. Abbiamo occupato le stazioni, gli uffici postali e telegrafici, l’agenzia telegrafica di Pietrogrado, la banca di Stato» (La mia vita, Mondadori, 1930, pp. 286-88).

      La cosa più comica, a proposito di Lenin e del Palazzo d’Inverno, Trotskij la racconta a p. 289. Buona lettura.

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  9. Ora confrontiamo con "L'arte dell'insurrezione" ed il quadro è completo!
    M

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  10. Olympe, che fatica la traduzione del 1930!!

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  11. Abbiamo occupato le stazioni, gli uffici postali e telegrafici, l’agenzia telegrafica di Pietrogrado, la banca di Stato» (La mia vita, Mondadori, 1930, pp. 286-88

    Ecco una differenza sostanziale con la Comune di Parigi, bisogna sempre imparare dagli errori..ma se tanto mi da tanto , a me misero, parrebbe che la "rivoluzione" bolscevica ,vinse nel battere la "controrivoluzione".
    Dopodiché se vogliamo chiamare "Pippo" la sola presa del palazzo di inverno, allora diciamo che i Bolscevichi vinsero la contropippo.
    L'ora è tarda ,i pomodori sono a posto, la rete antigrandine tirata, per cui una buona serata a tutti !

    caino

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  12. IL QUINTO ELEMENTO..

    Mi sembra che ci stiamo perdendo in chiacchere sul passato .
    Olympe nella sua disquisizione su Zizek e più in generale sui "critici a latere" ha ricordato con dovizia il quinto elemento ,che è quello decisivo, la contraddizione decisiva.
    Le altre (quelle di Zizek non è che non ci siano, chiamiamole anche queste a ..a latere..!!
    Unendo il tutto partendo dalla Principale, si può concludere che non ci resta che pregare...
    Stavo già per dormire, ma poi oppresso, mi sono fatto un'altra doccia, contribuendo alla crisi idrica che mi acceso un neurone, consentendomi questa ulteriore "pipozza"
    Vogliatemi scusare..

    caino

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  13. Cara Olympe, mi compiaccio di ciò, che dopo il profluvio di commenti tesi a sottolineare il significato storico epocale della rivoluzione d'ottobre ('epoché': 'terminus a quo', ossia evento dal quale ha inizio, per l'appunto, una nuova epoca, la cui spinta propulsiva, checché gridino opportunisti e rinnegati vari, non si è affatto esaurita) anche Lei abbia corretto il Suo giudizio, derubricando il "colpo di mano" compiuto dai bolscevichi, sotto la direzione di Lenin, tra il 6 e l'8 novembre 1917, ad uno degli attributi di quell'iniziativa di matematica precisione e di impareggiabile incisività che fu l'insurrezione proletaria e comunista di Pietrogrado e di Mosca. Tuttavia, se Lei è così legata a quell'aspetto della rivoluzione russa - aspetto che certo vi fu, ma che non fu né l'unico né quello prevalente (cfr. i corposi antecedenti storici di quell'evento, vale a dire la presa del potere, che fu solo un momento, sia pure qualitativamente decisivo, di un processo vasto, profondo e di lunga durata) -; dicevo, se Lei è così legata a tale aspetto e punto di vista, si legga (o rilegga) il magnifico saggio di Curzio Malaparte, intitolato "Tecnica del colpo di Stato", che vide la luce in Francia nel 1931. Per quanto riguarda invece gli effetti di lunga durata della rivoluzione russa nei seguenti periodi: 1918-1922 e 1941-1945, è sufficiente riportare, per la lungimiranza di cui dette prova, ciò che disse un soldato sconosciuto della 548esima divisione proprio prima della rivoluzione d'ottobre: "Quando la terra apparterrà ai contadini, le fabbriche agli operai e il potere ai soviet, allora avremo qualche cosa per cui combattere e combatteremo" (Ch. Hill, "Lenin e la rivoluzione russa", Torino 1967, p. 179).

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    1. caro Eros, purtroppo nella russia sovietica né la terra apparteneva ai contadini, né le fabbriche agli operai (ma già il concetto di "appartenenza declina ideologicamente). Quanto al potere dei soviet sappiamo com'è andata. Con ciò non voglio dire che tutto di quell'esperienza è da buttare, anzi. E tuttavia l'impasse attuale è in non piccola misura dovuto anche a quell'esperienza per troppi aspetti prematura e negativa. A tale riguardo le ricordo quando ebbe ad osservare Lenin a proposito della NEP, ossia della necessità di farla durare almeno due o tre decenni. E ciò dà il senso di tutta la faccenda. Ad ogni modo grazie dei commenti, come sempre stimolanti.

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  14. Scrivi:
    « Ciò vuol dire che l’accumulazione capitalistica è un processo gravido di crisi, anche se questo non significa che il crollo del sistema capitalistico debba sopravvenire “automaticamente”. […] », quindi che questo “crollo” avverrà con l’intervento specifico dell’Uomo-lavoratore in quanto cosciente dello sfruttamento che gli viene praticato durante la sua misera esistenza.
    E poi successivamente aggiungi:
    « Nella formazione sociale che andrà sviluppandosi e si sostituirà al capitalismo, la forma-valore cesserà di esistere, poiché essa assumerà un contenuto diverso da quello che le è proprio nel modo di produzione capitalistico. » Cioè non ci sarà più la proprietà privata dei mezzi di produzione!
    E poi prosegui: « Con ciò si dimostra, ancora una volta, come le categorie economiche siano l’espressione di rapporti sociali di produzione storicamente determinati, tanto è vero che laddove la forma-valore sopravvive, ciò accade perché i rapporti di produzione effettivi, reali, che ne giustificano l’esistenza sono ancora di tipo capitalistico. » Giusto! Esisteva ancora la proprietà “privata” (seppur statale) di quei mezzi!
    Tanto è vero che poi concludi:
    « Ed è ciò che è successo precisamente nei paesi cosiddetti comunisti: non per l’incapacità e la cattiveria di una qualche burocrazia di partito in particolare, » – ma concludi frettolosamente – « ma perché erano ancora assenti le condizioni storiche oggettive indispensabili per tale trasformazione. »
    Allora – secondo te – sono indispensabili “le condizioni storiche oggettive per tale trasformazione”, oppure sono indispensabili “l’intervento specifico dell’Uomo-lavoratore in quanto cosciente dello sfruttamento che gli viene praticato durante la sua misera esistenza”?

    Senza farla tanto lunga: l’unica differenza che esiste fra l’uomo+macchina e la macchina+uomo (il robot) è che al primo puoi sottrarre plusvalore (lavoro non pagato) mentre al robot… no! Il primo, per poter sopravvivere, ha bisogno dei mezzi di sussistenza; il secondo, quando gli togli l’energia si ferma e non produce mai… plusvalore.
    Comunque grazie per lo spunto che mi hai dato e che ha dato stura a questo mio intervento.

    Plinio il vecchio

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    1. la macchina non produce mai, in qualunque situazione, nuovo valore, se non quello che cede gradualmente nel processo svalorizzandosi. non c'è differenza tra l’uomo+macchina e la macchina+uomo, solo la foza-lavoro umana, in date condizioni, è produttiva di nuovo valore. ciao

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  15. Spiego perché il termine "appartenenza" è del tutto corretto alla luce della teoria marxiana. Come è noto, Marx, per primo, sia nelle opere pubblicate, quindi nel primo libro del Capitale (giacché il secondo e il terzo sono frutto della selezione operata da Engels, mentre le "Teorie sul plusvalore" sono state edite a cura di Kautsky), sia nei manoscritti da lui non pubblicati, quindi nei celebri "Grundrisse" (o "Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica") e nel “Capitolo sesto inedito” del Capitale, ha, per un verso, sviluppato, nella sua ricerca sulla società, la scienza dell’economia politica e, per un altro verso, criticato quei fattori di coercizione che, uniformando le volontà e i comportamenti umani, sono la base di questa stessa scienza. Egli ha condensato tutto ciò, mutuandola dalla "Scienza della logica" di Hegel, nella categoria di ‘sussunzione’, la quale scaturisce pertanto dall’incrocio fra le categorie che, come quelle di ‘cooperazione’ e di ‘associazione’, mantengono la loro validità anche in modi di produzione diversi da quello capitalistico (ad esempio, nel modo di produzione feudale, comunista, schiavistico, asiatico, germanico ecc.) e le categorie specificamente connesse alla produzione capitalistica. Da ciò consegue che le categorie più generali (valide per più epoche), venendo assorbite entro le specifiche modalità di funzionamento del processo capitalistico di produzione, risultino, entro di questo, profondamente trasformate. Più esattamente ancora, Marx intende per ‘sussunzione’ il rapporto che si istituisce tra il processo di valorizzazione del capitale ed il processo lavorativo, mentre, ‘traducendo’ nel campo della ricerca economico-storica il procedimento matematico dell’integrazione matematica, definisce ‘derivazione’ la trasformazione cui sono sottoposte le categorie più generali quando divengono funzionali al sistema capitalistico. Orbene, qual è l’uso che Marx fa di queste categorie sul terreno dell’analisi sociale? In effetti, processo lavorativo e processo di valorizzazione si determinano reciprocamente, ma i due processi non si collocano sullo stesso piano, poiché il primo è ‘sussunto’ sotto il secondo, sotto il suo potere ed il suo comando. Questo rapporto è rappresentato drammaticamente da Marx come alienazione umana del lavoratore, furto del suo tempo, riduzione della sua cultura e della sua individualità. Nondimeno, tale ‘sussunzione’ non è mai assoluta, poiché implica, insieme con la violenza della sottomissione esterna, anche la possibilità della contestazione, cioè la lotta di classe. Infine, per quanto concerne la ‘cooperazione’ (forza produttiva legata alle differenti forme, storicamente determinate, della divisione del lavoro) e l’‘associazione’ (struttura comunitaria di proprietà e di gestione delle attività lavorative, anch’essa storicamente determinata), vale la pena ricordare che non solo la borghesia capitalistica, ma anche lo stesso proletariato ha la possibilità di operare combinando e ‘derivando’ fra di loro diversi tipi di rapporti economici e giuridico-politici, come dimostra la stessa categoria cui, nel "Manifesto del partito comunista", Marx ed Engels ricorrono per definire la società comunista: «Una associazione in cui il libero sviluppo di ciascuno è condizione del libero sviluppo di tutti». Pertanto, la rivendicazione comunista di una gestione “collettiva” dei mezzi di produzione da parte di “tutti gli individui” è, come indica con chiarezza il "Manifesto", lo scopo per cui sono chiamati a battersi i moderni proletari, cioè i lavoratori salariati, una volta superata la fase della immediata reazione luddistica in cui essi volevano distruggere le macchine e tornare al vecchio sistema di produzione. Nel proletariato individualità e collettività coincidono, mentre è il capitalismo che con l’appropriazione “privata” dei mezzi “collettivi” di produzione distrugge ogni proprietà “individuale” da parte di tutti e colpisce al cuore la stessa individualità della persona umana.

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    1. eccepisco solo questo:
      se la proprietà (l'appropriazione) della terra è solo dei contadini, e le fabbriche solo degli operai, non c'è più proprietà collettiva. ad ogni modo anche il titolo di "proprietà", sia essa privata o collettiva, è ideologicamente orientato verso il "possesso". forse sarebbe meglio parlare di controllo o simili. cmq mi pare questione di lana caprina.

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  16. Ma la differenza tra proprietà e possesso dei mezzi di produzione è fondamentale e non è affatto una questione di lana caprina. Occorre infatti prevenire una confusione semantica e concettuale tra i termini che afferiscono all’àmbito giuridico della proprietà capitalistica, come il termine ‘privato’, e i termini che afferiscono all’àmbito reale del possesso o, come preferisce Olympe, dell’effettivo controllo dei mezzi di produzione, quali i termini ‘individuale’ e ‘collettivo’. La statalizzazione dei mezzi di produzione caratterizza, nella forma del controllo operaio, la prima fase della società comunista, corrispondente alla conquista del potere politico e alla dittatura del proletariato: essa è prodromica alla socializzazione comunista dei mezzi di produzione, ma tale socializzazione è già preparata materialmente, pur all’interno del modo di appropriazione borghese, dalla socializzazione capitalistica. «Il capitale non è una proprietà personale; esso è una potenza sociale», scrivono gli autori del "Manifesto" e precisano: «Se dunque il capitale viene trasformato in proprietà comune, appartenente a tutti i membri della società, ciò non vuol dire che si trasformi una proprietà personale in proprietà sociale. Si trasforma soltanto il carattere sociale della proprietà. Esso perde il suo carattere di classe». In questo senso, vi è un perfetto parallelismo con quanto affermano Marx ed Engels a proposito della formazione e della scuola: "Non sono i comunisti che inventano l’influenza della società sulla educazione; essi ne cambiano soltanto il carattere; essi strappano l’educazione all’influenza della classe dominante». Naturalmente, sono sempre possibili degenerazioni della cooperazione socialista in proprietà personale e corporativa improntata al modello piccolo-borghese e revisionista dell’autogestione di stampo proudhoniano (si pensi al caso della Jugoslavia). Sennonché in un’economia pianificata a livello centrale i processi di socializzazione delle forze produttive impediscono in radice qualsiasi processo di questo tipo e garantiscono, unitamente alla vigilanza del partito e alla mobilitazione delle masse lavoratrici, ossia contestualmente alla continuazione della lotta di classe contro i tentativi più o meno larvati e indiretti di restaurazione del capitalismo (poiché il processo della transizione dal capitalismo al comunismo, come dimostra l’esperienza storica, non è né pacifico né lineare), la progressiva affermazione della cooperazione e dell’associazione e il graduale superamento della legge della valorizzazione capitalistica. In questo senso, come è noto, l’accusa di negare la libera iniziativa dell’individuo (o persona umana) in nome del collettivismo è uno dei motivi ricorrenti della polemica antimarxista e anticomunista condotta dai liberali e dai cattolici. In realtà, una simile accusa nasce dal fraintendimento o dalla mistificazione del pensiero di Marx e, nella fattispecie, dalla errata identificazione fra i concetti di individuale e di privato, di universale e di collettivo. In primo luogo, occorre osservare che nel materialista Marx il termine ‘individuo’ è assai frequente e corrisponde a quanto nel loro linguaggio gli spiritualisti sono soliti indicare con il termine di ‘persona’ o ‘persona umana’. Inoltre, generalmente sfugge che, sul piano teorico, per Marx ‘individuale’ non si oppone affatto a ‘collettivo’, bensì a ‘privato’. In conclusione, il concetto di ‘collettivo’ designa una totalità di individui senza alcuna esclusione, mentre il concetto di ‘privato’ designa ciò che appartiene a pochi individui con esclusione dei più.

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  17. Dopo pranzo mi riprometto di finire l'articolo, ma sono arrivato a un punto in cui è interessante aggiungere un'informazione.
    Attualmente lo sviluppo delle Intelligenze Artificiali è arrivato a un punto tale per cui si prefigura la costruzione delle cosiddette GAI (General Artificial Intelligence), la cui realizzazione si ipotizza avvenire "in automatico" attraverso altre AI. Il che inficia un po' il tuo ragionamento sul macchinario che non aumenta da sè il proprio valore. Se si riuscirà ad andare nella direzione di una GAI capace di fare costanti upgrade di se stessa, un mondo senza più bisogno di lavoro per sopravvivere potrebbe essere davvero un sogno realizzabile.
    Ti consiglio di dare una letta a questo articolo:

    https://waitbutwhy.com/2015/01/artificial-intelligence-revolution-1.html

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    1. siccome la risposta non sarà breve, ti rispondo appena posso

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    2. Produzione di macchine a mezzo di macchine? Alla fine della giorstra queste macchine dovranno pur produrre qualcosa di utile: auto, frigoriferi, scatole di tonno, lampadine, preservativi, ecc. ecc.

      Il punto è questo: ho scritto, sulla traccia di Marx, che come ogni altra parte costitutiva del capitale costante, le macchine non creano valore, ma cedono il loro proprio valore al prodotto, alla produzione del quale esse servono. Il loro valore viene quindi trasferito gradualmente nel valore nel prodotto: esse formano una parte costitutiva del valore del prodotto stesso. Invece di ridurlo più buon a mercato, lo rincarano in proporzione del proprio valore. Ed è un fatto tangibile che la macchina e il macchinario sistematicamente sviluppato, che sono il mezzo di lavoro caratteristico della grande industria, si gonfiano sproporzionatamente di valore in confronto ai mezzi di lavoro dell’industria artigiana e manifatturiera.

      Data la proporzione nella quale le macchine trasferiscono valore nel prodotto, la grandezza di questa parte del valore dipende dalla grandezza di valore delle macchine stesse. Nessun nuovo valore verrebbe aggiunto, nessun plusvalore. Il capitalista si ritroverà in mano lo stesso valore, oggettivamente trasformato, di prima.

      Siccome una parte, per quanto piccola, di lavoro umano, almeno in origine c’è sempre (progettazione e realizzazione delle macchine “madri”), nella realtà concreta, tanto meno lavoro le macchine contengono, tanto minor valore aggiungono al prodotto; tanto meno valore esse cedono, tanto più sono produttive e tanto più il servizio che fanno s’avvicina a quello delle forze naturali. Ma la produzione di macchine per mezzo di macchine ne diminuisce il valore proporzionalmente alla loro estensione ed efficacia.

      Il valore effettivamente aggiunto sarà infinitesimo rispetto al capitale investito. Perciò la difficoltà dell’accumulazione diventerà impossibilità di fatto. Ecco la contraddizione immanente.

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    3. Ok capisco quello che dici, e sono cose che ho pensato anche io appena ho cominciato a riflettere su questa cosa (come al solito con minore rigore accademico :P ).

      Ma secondo me si può andare oltre.
      Innanzitutto una AGI sarebbe in grado di aumentare da sola il proprio valore, in maniera potenzialmente esponenziale e completamente svincolata dal valore iniziale, fino al punto di essere in grado di dirigere in modo totalmente automatizzato la produzione di qualsivoglia bene.
      Una AGI sarebbe molto, ma molto più intelligente di un uomo :) Non parliamo più di robot "stupidi", ma addirittura di una intelligenza superiore.

      Questo significa in sostanza che si romperebbe l'assioma di base di qualsiasi sistema economico preesistente, cioè lo sfruttamento, allo scopo di poter disporre di ricchezza (oggi denaro, una volta terre ecc ecc) senza aver fondamentalmente bisogno di lavorare.

      Il capitalismo è "solo" l'ultima incarnazione storica del paradigma sfruttatore/sfruttato, con tutte le sue specificità e contraddizioni che Marx ha perfettamente evidenziato.

      Ora, nel momento in cui il lavoro umano diventasse superfluo o quasi, siamo d'accordo o no che sfruttare sarebbe altrettanto superfluo? E che parlare di plusvalore diventerebbe anacronistico?

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    4. quando John Wyatt nel 1735 annunciò la sua macchina per filare, e con essa la rivoluzione industriale del secolo XVIII, non accennò neppure con una parola che la macchina non fosse mossa da un uomo ma da un asino; tuttavia questa parte toccò all’asino. Ora, la sostanza della cosa non cambia, sia che la forza motrice provenga dall’uomo, sia che provenga anch’essa a sua volta da una macchina oppure da un asino.
      ciao

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    5. "la sostanza della cosa non cambia, sia che la forza motrice provenga dall’uomo, sia che provenga anch’essa a sua volta da una macchina oppure da un asino" vero se la macchina si sentisse sfruttata. Magari una macchina super intelligente proverebbe piacere e soddisfazione nella sua vita solo in minima parte dedicata a soddisfare i bisogni dei suoi creatori.. cmq questa cosa è ovviamente al limite della fantascienza, ma a mio modesto parere non va sottovalutata.

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