Il giorno 24 ottobre 1917, il generale Luigi Cadorna, comandante supremo dell’esercito italiano, si alza come solito alle 5. Trova a fianco del letto gli stivali tirati a lucido e l’uniforme impeccabile. Fa colazione «con latte, caffè e savoiardi con il burro, quindi scrive la sua lettera giornaliera alla famiglia». L’offensiva austro-tedesca su Tolmino, Plezzo e Caporetto è in atto da ore, ma il capo di stato maggiore italiano ancora lo ignora. Infatti, nella lettera ai familiari osserva che il peggioramento atmosferico favorisce la situazione di difesa.
Era tornato a Udine, al proprio comando, il 19 ottobre, dopo una villeggiatura con sua moglie nei pressi di Venezia. Era «di ottimo umore: calmo, riposato, tranquillo». Un paio di mesi prima, durante la cosiddetta XI battaglia dell’Isonzo, l’esercito aveva perso 166mila uomini; dei 40mila morti, 25mila erano stati uccisi sul monte San Gabriele. Conquistato il cocuzzolo, per celebrare degnamente la vittoria, era intervenuto il M° Toscanini (in quell’occasione in visita al figlio ufficiale), il quale diresse la banda militare. Per tale motivo, fu insignito da Cadorna della medaglia d’argento al valore (Thompson, p. 298).
Non tutti i combattenti avevano però avuto la possibilità di andare in villeggiatura come Cadorna. Ai reparti, dopo mesi di prima linea e lunghi periodi di gravosi lavori nelle retrovie, era stata promessa la licenza, ma poi era stata revocata. Ne erano seguite rumorose proteste, ma nulla di grave. Ciò nonostante, per dare l’esempio, e seguendo le direttive rigidissime di Cadorna, si procedette alla decimazione dei “riottosi”. Si mettevano i biglietti con i nomi dei soldati in uno zaino e si estraevano a sorte i condannati alla fucilazione. Uno di questi, non più giovane, aveva sette figli.
L’unico vero ammutinamento era occorso nella 6^ compagnia della Brigata Catanzaro. D’Annunzio – uno dei più pericolosi psicopatici allora presenti al fronte – «si affrettò a ritornare per assistere alle esecuzioni. Gli uomini furono allineati contro il muro di un cimitero dietro un campo di grano. Presso il muro crescevano le ortiche. “Un caldo opprimente. Le allodole cantavano”. Gli uomini, bassi, con la pelle scura, venivano dalla Campania, dalla Calabria, dalla Puglia e dalla Sicilia. Intonarono, a una voce, un inno o una preghiera. Il poeta distolse lo sguardo, mentre i loro corpi si afflosciavano al suolo. I suoi appunti non riportano alcuna reazione emotiva, bensì solo particolari verificatisi dopo l’avvenimento: “Sotto le foglie vidi i berretti, gli elmetti, i brani delle cervella coperti dalle mosche a nuovoli, le righe del sangue già risecco tra gleba e gleba”. In seguito, riscrivendo di quella esperienza, si rivolse agli uomini morti: “Siete contadini. Vi conosco alle mani. Vi conosco al modo di tenere i piedi in terra. Non voglio sapere se siete innocenti, se siete colpevoli. So che foste prodi, che foste costanti” […].
L’indifferenza di D’Annunzio per l’innocenza o la colpevolezza degli uomini rispondeva in pieno allo spirito di Cadorna. Quello che importava era l’effetto deterrente (Thompson, p. 278)».
Nero e implacabile, l’odio di classe, trascolora nel sangue in odio razzista.
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Mark Thompson, La guerra bianca, ilSaggiatore.
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