Quali vicende hanno portato all’Ermitage il celebre gruppo marmoreo della prima versione delle tre Grazie del Canova? Curiosando su questi fatti viene fuori una delle tante singolari vicende in cui c’è l’artiglio dell’onnipresente potere Vaticano.
L'opera scultorea è realizzata dal maestro di Possagno su commissione di Josephine de Beauharnais [1], fino al 1809 imperatrice e moglie di Napoleone. Ma Giuseppina (nata Maria Josèphe Rose Tascher de la Pagerie), prima ancora di sposare Napoleone era stata maritata con Alexandre de Beauharnais, ghigliottinato nel 1794 insieme al fratello Augustin, in Piazza della Rivoluzione (Place de la Concorde) a Parigi. Giuseppina da Alexandre de Beauharnais ebbe due figli: Hortense e Eugenio (Parigi, 1781 – Monaco di Baviera, 1824) noto come Eugène Rose de Beauharnais, che divenne generale di Napoleone, nonché figlio adottivo [2].
Nel 1805 Napoleone deve nominare alla guida del neo-costituito Regno d'Italia un viceré, un uomo a lui assolutamente fedele e privo di obiettivi politici propri: Eugène de Beauharnais era il candidato ideale. Da quel momento il rampollo fissa la propria residenza principale nella Villa Reale di Monza, che vuole circondata dal più grande Parco recintato d'Europa. Eugène sposerà nel 1806 la principessa Augusta di Baviera, figlia del re di Baviera. Il viaggio di nozze da Monaco a Milano passando per Venezia sarà trionfale.
Nel 1810, fatto importante per il nostro racconto, Napoleone Bonaparte emana una legge con la quale mette a disposizione del viceré d’Italia un Appannaggio: cioè un insieme di beni destinati a mantenere la sua famiglia e la corte. L’Appannaggio Beauharnais consiste in beni da poco confiscati – in base a leggi mutuate dalla Francia – a conventi, monasteri, enti religiosi, ecc. Si tratta complessivamente di 2.300 terreni, 138 edifici urbani ed una ottantina di opifici e mulini. Sono tutti collocati nelle Marche, regione che dal 1808 era stata annessa al Regno d’Italia, in particolare nei Dipartimenti del Metauro e Musone (province di Pesaro e Urbino, Ancona, Macerata). Tra gli edifici, ad Ancona, il Palazzo Reale (dopo il 1815 chiamato Palazzo dell’Appannaggio) dove Eugenio risiede durante le sue visite alla città; attualmente è sede regionale della Banca d’Italia) [3].
Nel 1814, subito dopo il primo esilio di Napoleone, Eugenio spera di ottenere dal Congresso di Vienna un principato e una rendita annuale. Non è chiaro a quale titolo o per quali servigi [4], ma ciò conferma una volta di più, come al di là delle controversie politiche, i membri delle classi dominanti siano quasi sempre, alla fine, solidali tra loro, tanto è vero che, alla caduta definitiva di Napoleone, nessun componente della “famiglia” imperiale dovette dolersi di patire l’indigenza (Luciano Bonaparte, tra gli altri). Ad Eugenio propongono Pontecorvo di cui Bernadotte era, in precedenza, principe ereditario [5]. Ma la proposta non va in porto. Nel frattempo – mentre Beauharnais è ritornato a Monaco dove il suocero gli affida il ducato di Leuchtenberg – Napoleone lascia l’isola d’Elba e sbarca a Golfe Juan il 1° marzo 1815.
In questa breve fase Eugenio Beauharnais non svolge palesemente alcun ruolo né politico né militare [6], limitandosi ad assistere ai Cento Giorni di Napoleone che si chiudono con la disfatta di Waterloo e la definitiva abdicazione. Alla riapertura del Congresso, Eugenio – che come accennato aveva sposato la figlia del re di Baviera – ottiene dalle potenze vincitrici (con l’art. 64 del Protocollo “separato e segreto”) il diritto ad usufruire dei beni ricevuti nel 1810 come “Appannaggio” in qualità di viceré d'Italia [7], nonostante le rimostranze del cardinale Consalvi [8], che partecipa in qualità di osservatore in rappresentanza dello Stato Pontificio. La conferma dell’Appannaggio Beauharnais (ora chiamato Leuchtemberg) è una autentica spina nel fianco per lo Stato della Chiesa: il feudo è un’isola in cui i funzionari pontifici non hanno nessun potere e soprattutto non ricavano alcuna rendita. Inoltre i poderi sono amministrati da un piccolo esercito di tecnici e fattori a volte stranieri e non cattolici, e dove i parroci non possono esercitare la loro opera di evangelizzazione e carità su migliaia di contadini analfabeti. L’Appannaggio Leuchtemberg si rivelerà poi, per il Vaticano, anche una fonte di problemi politici in relazione ai moti cosiddetti risorgimentali. In tal senso, nel primo volume de Gli ultimi rivolgimenti italiani: memorie storiche di F.A. Gualterio, a p. 189, si legge:
«Coloro che nelle Marche dovevano così corrispondere al concertato sollevamento, erano composti dei due elementi che già notai in Romagna, e inoltre di un terzo, il quale in questa provincia non esisteva, od era minimo; ma invece nelle Marche era il più numeroso, e nella presente rivoluzione disponeva di più forze e di maggiori mezzi pecuniarj che non s’avessero gli altri due. Era questo il partito del duca di Leuchtemberg [Massimigliano, figlio ed erede di Eugenio], genero dell’Imperatore delle Russie, che possedeva l'appannaggio assegnato a suo padre dal Congresso di Vienna».
Solamente nel 1845 mons. Giacomo Antonelli – in seguito nominato da Pio IX, pur privo degli ordini sacerdotali, cardinale e segretario di stato – riesce, con un’abile operazione, a risolvere il problema del feudo marchigiano. Compra i beni da Massimiliano di Leuchtemberg (che li aveva ereditati dal padre Eugenio) e poi li rivende ad una società, formata da principi romani e ricchi borghesi, la quale è vincolata a rivenderli a piccoli lotti e favorire gli enti religiosi. In verità tra i maggiori compratori figurano lo stesso Pio IX, cardinali, principi e affaristi vicini alla Curia vaticana [9].
Nel 1858 rimangono ancora invenduti un quinto dei beni: sono, per la maggior parte, terreni ubicati nella bassa vallata dell’Esino (un tempo appartenuti ai Cistercensi di Chiaravalle ), il Palazzo di Ancona, un Palco al Teatro. Vengono acquistati, nell’agosto 1858, da tre commercianti anconetani (Tarsetti, Bonomi e Rebighini) dietro garanzia firmata da una ditta svizzera, operante ad Ancona, la Blumer et Jenny. I nuovi acquirenti provvederanno, dopo che le Marche entreranno a far parte dell’Italia unita, a rivendere i beni.
Ma torniamo alle Grazie del Canova. La prima idea nacque probabilmente nel 1810 quando Canova arrivò a Parigi per il ritratto della nuova moglie di Napoleone, Maria Luisa d’Asburgo, ma continua a mantenere buoni rapporti anche con la cara amica di un tempo, ovvero Giuseppina. Questa, giugno 1812, avanza al Canova la richiesta di scolpire il gruppo delle Grazie; l'artista chiede tempo perché la proposta è “estremamente delicata e piena di spine”. Ad ogni buon conto il modello in gesso è terminato nell'agosto 1813 e in ottobre Canova chiede un anticipo di venti mila franchi, affermando che avrà bisogno di circa un paio d'anni. In dicembre il riscontro positivo di Joséphine: è l'ultimo contatto che conosciamo fra il maestro e l'ex-imperatrice.
Scrive altresì Amedeo Quondam nel suo lavoro Tre Inglesi, l’Italia, il Rinascimento, Liguori 2006, p. 179:
«Canova inizia a progettare il gruppo delle tre Grazie nel 1812, in Italia (a Frascati), realizzandone un modello in terracotta che dona a Madame Recamier (l’opera è ora a Lione); l’anno successivo Giuseppina gli commissiona la scultura che sarà ultimata nel 1816 […]. Nel 1815 il duca di Bedford commissiona al Canova una replica del gruppo, che sarà collocato, in un tempietto, nella sua dimora di Woburn Abbey (per questo evento Ugo Foscolo scriverà la Dissertation on an ancient Hymn to the Graces, pubblicata nel 1822 nel sontuoso volume che celebra l’inaugurazione del sito inglese)» [10].
Comunque sia, il gruppo canoviano delle Grazie, che si rifà al corrispondente mito greco, non entrò mai in possesso della committente, cioè di Giuseppina, che morì nel maggio del 1814, sembra per le complicazioni di una infreddatura presa in giardino per accogliere lo zar Alessandro I vestita in maniera “impalpabile” [11]. L’opera venne quindi consegnata al figlio, Eugène de Beauharnais, nel marzo 1817, il quale salda il dovuto al Canova. Da questi pervenne al di lui figlio ed erede, Maximilien Joseph Eugène Auguste Napoléon. A seguito delle sue nozze con la figlia dello zar Nicola I, Marijia Nikolaevna Romanov, trasferì le collezioni della nonna imperatrice (Giuseppina) nella propria residenza russa [12]. Nel 1901 la collezione venne acquisita dall'Ermitage, ed accostata alle altre opere dello stesso Canova già acquisite dallo zar Alessandro I.
Note:
[1] Parve all'ottima imperatrice Giuseppina che lo scarpello di Canova fosse il più adattato a rappresentare le Grazie; e posseditrice come era ella di parecchie gentili opere sue, giudicò che nessuno meglio di lui avrebbe potuto trattare questo soggetto a cui gli antichi ardevano così devoto incenso. Nè mal s'appose nel suo presagio, se non che l'avara morte le chiuse il ciglio avanti che il lavoro giugnesse al suo compimento (Leopoldo Cicognara, St. della scultura, Prato, 1824, Libro VII, pp. 127-28). Per una descrizione coeva dell’impatto che ebbero le opere del Canova: Isabella Teotochi Albrizzi, Opere di scultura e di plastica di A.C., Firenze, 1809 (l’Autrice, essendo alla data in cui scrive non ancora realizzato in marmo il gruppo delle Tre Grazie, descrive, p. 96 e ss., la danza di Venere colle Tre Gazie, bassorilievo in gesso).
[2] «All'epoca del terrorismo, Giuseppina Beauharnais trovavasi in prigione, quando il di lei marito lasciò la testa sul palco, Eugenio, di lei figlio, venne collocato a servire in casa di un falegname, ed Ortensia, di lei figlia, in casa di un lavorante in biancheria (Las Cases, Memoriale di Sant’Elena, trad. it. vol. IV, p. 70 cit. da Tradizioni italiane per la prima volta raccontate, Torino 1850, vol. IV, p.553)».
«Giuseppina Beauharnais, donna di Buonaparte, non sembra che negli affetti restasse fissata dagli allori; prodiga, frivola, intrigante, avversa ai Giacobini perché legata coll'antica nobiltà, giovò immensamente alla grandezza di esso per le sue relazioni. De' figli di lei, Eugenio era buon soldato, carissimo a Buonaparte che l'avea seco avuto in Egitto. Ortensia, educatala quella madama Campan ch'era stata confidente di Maria Antonietta, sposò di poi Luigi Buonaparte (Cesare Cantù, Storia di Cent’anni, Torino 1863, vol. II, p. 232)».
[3] (…) l'ambizioso Napoleone in vece di mostrarsi grato ai suoi benefizi, e rispettare la sua pacifica neutralità conveniente alla sua dignità, incomincio ad invadere i suoi stati, siccome indicammo al citato vol. XX, pag. 20 del Dizionario; prima occupò Ancona e sua provincia, poscia fece altrettanto con quelle di Urbino, Macerata e Camerino, Benevento e Pontecorvo (Gaetano Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, vol. XXVII, p. 121).
[4] «La condizione delle cose era tanto disperata, specialmente dopo l'invasione della Francia, che Eugenio mentre s’adoperava per essere proclamato re d'Italia dal senato italiano, trattava cogli austriaci per disciogliere l'esercito e consegnar loro le piazze forti (Giovanni L. Cecilia, Storie segrete delle famiglie reali …, Genova 1859, vol. IV, p. 310)».
[5] Sempre nel Dizionario del Moroni, nel vol. XCIX, ove si parla del Congresso di Vienna, alla p. 332, si legge: Quanto al principe Eugenio Beauharnais, figliastro di Napoleone I e già vicerè d'Italia, nella convenzione di Vienna del 23 aprile 1815, gli fu assegnato un distretto nel regno delle due Sicilie, contenente una popolazione di 50.000 abitanti, ma non essendo ratificata nell'atto finale del congresso, ed opponendosi Ferdinando I, ottenne nel 1817 darglisi in compenso 5 milioni di franchi.
[6] «Questo procedere antipensato, d'indietreggiare via via che Gioacchino venisse incontro e Napoleone precipitasse, era fatto credere conseguire dalla condotta volubile di Gioacchino. E fin la moglie ebbe a crederlo, e mandò in fretta al marito, l'un dopo l'atro, il conte di Mosbourg e il duca di Santa Teodora, incitandolo che combatesse; conciossiachè solo in questo, in concorrer davvero con gli alleali, anch’ella, dicono, vedesse scampo alla sua caduta. Ma Gioacchino, si volse in un subito al Viceré, proponendogli, con una lettera, di riunire insieme gli eserciti e dar addosso al comun nimico. E comandò al duca di Campochiaro, mandolo a Vienna, che subito ritornasse; e al de Angelis, il quale in Napoli soprastava, assente il ministro, agli affari esteri, che non pubblicasse il trattato; ma l'ordine non giunse in tempo. Eugenio, por diffidenza o vendetta, mise in mano a’ nimici la stessa lettera; Gioacchino allora, stizzito, gittavasi ad assaltarlo; quando, Napoleone disfatto, la guerra anche in Italia si fu cessata».
Archivio storico italiano di deputazione toscana di storia patria, Firenze 1856, tomo terzo, p. 68.
[7] Il Moroni scive: «E siccome nella summentovata convenzione di Vienna del 25 aprile, fu pure stabilito che al principe Eugenio Beauharnais (di cui riparlai nel voi. XCIII, p. 47) dovesse competere l'appannaggio d'un milione di lire, assegnatogli da Napoleone I nel 1810, e formato per la più parte co' beni ecclesiastici delle Marche, e perciò dovesse conservarne il godimento; il Papa Pio VII, fisso nel principio dell’inalienabilità de' beni ecclesiastici, protestò di doversi opporre, e che se cedeva alla forza non si prestava che passivamente. Da ciò ne venne, che si adottò il ripiego di conciliare il tutto con un enfiteusi, mediante il quale nel 1816 Pio VII concesse al principe Eugenio l'investitura de' beni dell'appannaggio, col patto che pagasse un laudemio di 160.000 scudi, e l'annuo canone di 4.000; riserbandosi la facoltà di redimere nello spazio di 9 anni i beni concessi, sborsando 3.170.000 scudi (la redenzione fu poi fatta da Gregorio XVI nel 1845, collo sborso di 3.750.000 scudi, come notai nel vol. XXXII, p.326 ed altrove)».
[8] Il cardinal segretario di stato Consalvi, fomentatore di discordie tra il Papa e Napoleone, dovette ritirarsi fino alla caduta dell’Imperatore (ibidem). Sulla figura complessiva del card. Consalvi, cfr. il vol. XVII, alla voce.
[9] Dal vol. XXXII, p.326, del Dizionario: I beni rustici ed urbani costituenti il così detto Appannaggio negli stati pontificii, concessi dalla santa Sede coll' annuo canone di quattromila scudi, fino dagli 8 maggio 1816, in enfiteusi al defunto principe Eugenio Beauharnais, e quindi passati alla principessa Augusta Amalia di Baviera di lui vedova consorte, ed al figlio principe imperiale di Russia Massimiliano duca di Leuchtenberg, furono coll’autorità del pontificio chirografo de' 22 marzo 1845, e col contratto formalmente stipulato a' 3 aprile , ricuperati all'utile dominio della santa Sede dal cardinal Mario Mattei a ciò deputato, per il prezzo di tre milioni settecento cinquantamila scudi. La real casa di Leuchtenberg fu rappresentata dal commendatore Roux de Damiani. E perchè la detta ricupera della massa de' beni meglio corrispondesse alle sovrane intenzioni, di essere cioè con tante vendite divisa in favore specialmente dei luoghi pii, corpi morali e sudditi pontificii, onde l'industria pubblica se ne giovasse a maggior incremento del commercio interno, con chirografo de' 14 aprile e stipolazione de' 24 detto, ebbe luogo la retrovendita generale de' medesimi beni ad una rispettabile società romana, per quindi effettuare le parziali vendite.
[10] Alcuni versi del carme Le Grazie del Foscolo, vennero pubblicati nella Biblioteca Italiana, nel 1818 (Canova poneva la prima pietra al Tempio canoviano di Possagno); nel 1822 (l’anno della morte del Canova), vennero poi pubblicati 184 versi delle Grazie nella Dissertation on an ancient Hymn to the Graces, così come scrive Amedeo Quondam; ma la prima edizione integrale delle Grazie, Foscolo non la vide: fu, infatti, pubblicata postuma, nel 1848, con ampi e arbitrari rimaneggiamenti dell’Editore.
[11] «Malmaison, luogo di delizia, sommamente reso piacevole da Napoleone I, che non raramente vi dimorava. Ritirossi in esso, dopo la separazione da lui, l'imperatrice Giuseppina Beauharnais Tascher de la Pagerie, madre del principe Eugenio viceré d'Italia e poi duca di Lenchtemberg; e nel 1814 vi ricevè parecchie visite dell'imperatore di Russia Alessandro I, che rese onorevole testimonianza alle amabili qualità del suo spirito (Moroni, vol XCV, p. 58)».
[12] Secondo Amedeo Quondam, op. cit. p. 179, le Grazie furono portate da Monaco in Russia dal principe Nicola di Leuchtenberg, figlio di Massimiliano di Leuchtenberg e della granduchessa Maria Nikolaievna, figlia di Nicola I.
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