lunedì 8 febbraio 2010

Apologhi e crisi di sistema


L’articolo di Gianni Riotta di  ieri è un esempio del suo genere preferito. Scrive:
«Se è vero che solo la coordinazione globale ci porterà fuori dalla crisi, che solo l'intreccio perfetto tra politica e finanza ci farà atterrare sull'Hudson come su un letto di piume e che la leadership europea non può più accontentarsi di mezze figure ma deve finalmente premiare personalità forti, allora abbiamo messo insieme il caso perfetto per la nomina del presidente del Financial Stability Forum e governatore della Banca d'Italia Mario Draghi a capo della Banca centrale europea dopo Jean-Claude Trichet».
Fin qui è il solito apologo, poi prosegue con l’”analisi”:
«Draghi è stimato negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, cuore della finanza anglosassone, ha dimostrato col Fsf equanimità e capacità di dialogo e ha guidato con cautela la Banca d'Italia in una difficile transizione. I suoi avversari punteranno sulla deriva populista e sulle pulsioni protezionistiche, imputando al governatore i trascorsi da Goldman Sachs. Bubbole: nei giorni più neri della crisi, Paulson ricorda che furono la profondità di analisi storica del presidente della Federal Reserve Bernanke e la sua esperienza di come funziona davvero una grande istituzione finanziaria (anche Paulson è ex Goldman Sachs), a salvare il banco».
Aver salvato il culo, temporaneamente, alle banche con i denari dei contribuenti,  è dipeso non dagli interessi prevalenti, ma dalla “profondità di analisi storica” del presidente della Federal Reserve, il quale non ha fatto altro che mandare al macero la distinzione giuridica tra debito pubblico e debiti delle società. Il grande direttore, approdato al quotidiano di Confindustria dopo aver fatto pratica nel giornale che fu il più autorevole portavoce in Italia della rivoluzione culturale maoista, sorvola sul fatto che le banche centrali, specie quelle anglosassoni, hanno giocato un ruolo essenziale nell’esuberanza irrazionale dei mercati, nell’incentivare la crescita dei prezzi degli asset e la loro leva finanziaria come mezzi per forzare i ritmi, giudicati troppo lenti, delle vecchie metropoli. Come se non fossero proprio i grandi gruppi finanziari garantiti e sponsorizzati dagli Stati, la stessa cricca di potere che Riotta esalta, ad aver agito come pompa aspirante del capitale eccedente dei mercati  emergenti e cartina di tornasole per il credito al consumo. Sempre pronti, questi giornalisti certificati, in occasione del prossimo immancabile patatrac, ad addossare le responsabilità di ciò che accade all’avidità umana che si lancia periodicamente in rincorse sfrenate di valori patrimoniali razionalmente insostenibili, risolvendo l'"analisi" delle crisi del capitalismo, i motivi della sua storica insostenibilità, in una spiegazione di tipo antropologico

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Piero Ostellino, sul Corriere di oggi, scrive:
«In definitiva, la responsabilità «sociale» dell’imprenditore sta tutta qui: nel fare il proprio mestiere all’interno di una cornice normativa che ne massimizzi — disciplinandone la libertà di intrapresa — le capacità. Che, nell’era della globalizzazione, si traducono in innovazione e competitività».
Traduzione: la responsabilità «sociale» dell’imprenditore sta tutta qui: nel fare il proprio mestiere all’interno di una cornice normativa che nella pratica (legge Biagi) «traduce il precariato in una nuova forma di schiavismo in cui le persone lavorano sei ore al giorno per sei giorni alla settimana e tutto l’anno, senza diritto a un giorno retribuito di ferie, malattia o maternità (Curzio Maltese, la bolla, Feltrinelli, p. 52 ».

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