mercoledì 12 giugno 2019

Preferiscono parlar d’altro


Si fa sempre più sciapa la diatriba tra neokeynesiani (qualunque cosa ciò voglia dire con questi chiari di luna) e i realisti più realisti del re, i quali ultimi sostenendo che lo “stimolo artificiale della domanda” produce guasti al sistema con infine l’incremento del già enorme debito pubblico. Da entrambe le sponde è preso in considerazione solo l’aspetto circolatorio, finanziario e distributivo dell’economia. Ciò che avviene a monte non ha rilievo se non per l’asettica presa d’atto statistica relativa all’andamento congiunturale e il dato sull’occupazione/disoccupazione. Sull’interpretazione di tali dati si formano le più cervellotiche convinzioni.

Sono quasi due secoli che l’economia politica non indaga più la realtà ma si limita a descrivere le ombre proiettate sul fondo della caverna. Perché ciò avvenga è presto detto: almeno a livello ufficiale dev’essere mantenuto il silenzio sul segreto (di Pulcinella) della società borghese, ossia sul fatto che essa, sotto qualunque bandiera nazionale ed ideologica, è una società che continua a poggiare sulla schiavitù.

Dopo che l’utopia neoclassica dell’”equilibrio perfetto” si dimostrò per quel che era, iniziarono a farsi strada, presso gli apologeti del capitalismo J.A. Schumpeter e W.C. Mitchell, i primi abbozzi di una “teoria dei cicli” che non era altro che una presa d’atto della natura ciclica del capitalismo. La crisi generale del 1929, infine, con la sua sconvolgente drammaticità, rendeva indilazionabile mettere i piedi per terra, ossia abbandonare l’utopia ed escogitare nuove giustificazioni a favore del regno millenario del libero scambio.

Lo stesso Keynes, che in passato era stato uno dei più eminenti esponenti della teoria neo-classica, dovette prendere atto che la teoria dell’“equilibrio” è un’invenzione, una fola che non ha nulla a che vedere con il mondo reale (*). Il sistema capitalistico, lasciato alla sua spontaneità, non tende all’equilibrio, ma allo squilibrio dei vari fattori a causa della divaricazione tra domanda e offerta. Invece di indagare a fondo le cause di tale “disarmonia”, Keynes s’inventa una bizzarra “legge psicologica” che chiama della “diminuzione della propensione al consumo”.

Secondo questo lord inglese, alla base dei movimenti economici stanno non ben definiti “elementi psicologici”, che, mentre dai neo-classici vengono utilizzati per risolvere il “misterioso” problema della determinazione dei prezzi, in lui giustificano la tendenza, ugualmente “misteriosa”, del sistema allo squilibrio. Egli sostenne che per ricondurre il sistema all’equilibrio di piena occupazione è necessario produrre della domanda aggiuntiva, “aggregata”, tramite l’intervento dello Stato, che si esplica essenzialmente mediante la definizione del saggio d’interesse, la politica fiscale, forme di controllo sulla massa complessiva degli investimenti per determinarne il volume complessivo, ecc..

Il solito vecchio trucco: la contraddizione (lo “squilibrio”) perde il carattere capitalistico per assumerne uno “umano”: non è il modo di produzione capitalistico che contiene in sé le cause dello squilibrio, ma la psiche umana; non è quindi il modo di produzione che va cambiato, ma la testa degli uomini!

La Teoria Generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta fu pubblicata nel 1935, dunque dopo il varo del New Deal rooseveltiano. Keynes, un ciarlatano al pari di tanti altri suoi colleghi, sistematizzò in una “teoria” ad hoc ciò che già avveniva negli Usa, in Germania, in Italia e in altri paesi. L’intervento pubblico a sostegno dell’economia in crisi è sempre stata una prassi fin dalle epoche più remote. Gli scrittori borghesi trovano sempre modi nuovi per dire cose note, per cui anche quando ripetono cose risapute le scoprono autonomamente.

In seguito i lavori degli economisti keynesiani rappresenteranno per decenni una silloge imprescindibile negli atenei occidentali e una nuova religione per i saltafossi del riformismo che con essa beatificarono il capitalismo, fino a quando la crisi fiscale dello Stato ha travolto anche Keynes e la sua baracca di burattini.

I neoliberisti hanno buon gioco nell’affermare che “La domanda aggregata della quale si parla in macroeconomia è domanda effettiva, domanda che si traduce in capacità di spesa. Se il potere d'acquisto dei lavoratori si sviluppa di pari passo alla loro produttività, la domanda potrà essere finanziata dai redditi dei lavoratori stessi. Ma se la produttività cresce più in fretta dei salari reali, allora ci saranno in giro più prodotti che redditi da lavoro per acquistarli”. Con ciò scompare d’incanto la contraddizione interna, immanente, della crisi capitalistica.

Non si scopre nulla dicendo che se i salari crescono meno della produttività ci saranno in giro più prodotti che i redditi da lavoro non possono acquistare. Tuttavia, anche se la produttività del lavoro aumenta (così come se rimane stagnate) e aumentano i salari (ma pur rimanendo fermi), in ogni caso lo squilibrio tra domanda e offerta, ossia la crisi, si manifesta ugualmente. Com’è possibile? Per dimostrarlo non servono grafici né complesse equazioni, tantomeno “algoritmi”.

L’arcano sta nell’eccedenza del valore del prodotto sul valore dei fattori del prodotto consumati, cioè dei mezzi di produzione e della forza-lavoro. Lo sanno bene ma preferiscono parlar d’altro.

(*) “Dimostrerò che i postulati della teoria neo-classica si possono applicare soltanto ad un caso particolare e non in senso generale, la situazione da essa supposta essendo un caso limite delle posizioni di equilibrio possibili. Avviene inoltre che le caratteristiche del caso particolare, supposto dalla teoria neo-classica, non sono quelle della società economica nella quale effettivamente viviamo; e che quindi i suoi insegnamenti sono ingannevoli e disastrosi, se si cerca di applicarli ai fatti dell’esperienza.”

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