mercoledì 25 settembre 2013

Rassegna stampa


Non so se per rispetto di contratto o per improbabile scelta, fatto sta che Repubblica pubblica in traduzione un articolo di Paul Krugman dal titolo significativo: Gli americani liberi, ma di morire di fame, titolo che traduce quello originale: Free to Be Hungry, apparso alcuni giorni or sono sul New York Times con 1357 commenti dei lettori. Un altro articolo sullo stesso tema, Krugman l’aveva scritto, se ricordo bene, nel maggio scorso. Quello del taglio delle risorse destinate a sostegno dei buoni alimentari (food stamps) per 48 milioni di americani è dunque un tema scottante negli Usa (in questo blog ne scrivo dal 2010).

Due cose m’incuriosiscono di questo articolo e di altri che compaiono nella stampa Usa, ossia il fatto che unanimemente si dà per terminata la fase recessiva nell’anno 2009 (anche se si ammette che i suoi effetti continuano). L’altra riguarda questo modo comune di ragionare: una notizia buona almeno c'è ed è che i buoni pasto se non altro hanno alleviato le difficoltà, mantenendo milioni di americani alla larga dalla povertà”. Ho già osservato in un post recente, che è come dire che i poveri che frequentano le mense di carità ipso facto non sono più dei poveri. Come far capire a chi ha caldo che cos’è il freddo?



Come ho già scritto altre volte (e lo farò ancora), questo atteggiamento dipende dal fatto che la coscienza individuale diventa coscienza soltanto realizzandosi nelle forme ideologiche dell'ambiente che gli sono date, e dunque nelle forme che sono il prodotto dell'ordine economico e sociale dominante. Ecco perché dunque persone istruite e meno inclini di altre a dar retta ai più vieti truismi possano ritenere, per esempio, del tutto razionale – fatta la tara alla sciocchezza della produzione a km zero – che un paio di jeans venga prodotto dagli schiavi vietnamiti o pakistani e poi commercializzato in Europa.

C’è inoltre un articolo altrettanto interessante sul tema del programma di assistenza alimentare ai bisognosi, pubblicato su un noto periodico americano facente capo agli anarchici insurrezionalisti: Forbes. Vi si possono apprendere – anche dai commenti che vi fanno seguito – realtà inedite per la comune concezione che a noi italiani è stata inculcata fin da piccoli a proposito degli Usa. Buona lettura, sovversivi.



13 commenti:

  1. Cara Olympe, questo è un commento inutile, te lo anticipo, ma proviene dal mio pancino... :)
    Per estensione: me lo scovi tu un compagno comunista che abbia davvero ripugnanza della proprietà privata, se non con millanta eccezioni quando riguarda il privato suo? Domanda oziosa, forse, e sulle prime un po' straniante, ma io credo che spieghi molte, molte contraddizioni universali...

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    1. carissima, ti rispondo con franchezza: così come non bisogna imputare al singolo capitalista le responsabilità del sistema del quale è agente, allo stesso modo non si può chiedere ai comportamenti di ognuno di essere qualche cosa di diverso dal modo di vivere comune. tutti subiamo, chi più chi meno, dei condizionamenti. a volte, direi spesso, pur con riluttanza, ci dobbiamo adeguare, per salvare le apparenze, per il quieto vivere, per i figli, per questo e quell'altro. vedrò di tornare sull'argomento. un bacio

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  2. Se per "persone istruite e meno inclini di altre a dar retta ai più vieti truismi" dobbiamo intendere (anche) quelle scolarizzate, non sorprende che giudichino razionale tutto quello che non è reale e nemmeno apparente. La scuola ha i suoi canoni (dunque gli autori che si studiano sono gli auctores, i grandi, i maestri, gli imprescindibili e quelli che non si studiano, tutti gli altri, non contano o non esistono del tutto), una sua linea del tempo (solitamente si pensa storicamente successivo chi è trattato nelle pagine successive del manuale). È per questa ragione, credo, che mi ha tanto spiazzato il Suo post "de te fabula narratur". Molto più sorprendente di quello di oggi, perché quello di oggi racconta di un centro dell'impero che fa molta fatica a capire quello che gli sta succedendo (come recitava la presentazione editoriale di un libro di Canfora: “Nel mondo ricco (?) ha vinto la libertà [...]. La democrazia è rinviata ad altre epoche” e io so che questo slogan è vero, ma so anche che se “loro” se ne appropriano riusciranno a convincere le persone istruite di cui sopra che dittatura è bello), ma si sapeva, non ci voleva Repubblica per dirlo (sarà mica che Repubblica fa parte di quei “loro”?). No, il problema era nel post precedente, perché è lì, secondo me, che la scuola ha distillato un po' dei suoi veleni: non mi pare ragionevole assumere il (o parte del) pensiero di Cicerone (106-43 a.C.) come linea guida della mentalità latina, valida addirittura per quasi mezzo millennio (Costantino nasce circa nel 285 d.C.). Se il pensiero di Cicerone avesse avuto qualche effetto serio, Roma sarebbe rimasta un'oligarchia repubblicana (una repubblica oligarchica?) e non sarebbe diventata una monarchia a tratti assoluta, i romani sarebbero diventati atei convinti per aver letto il De divinatione - un reading sulla religio instrumentum regni - e, come Carcopino (ministro di Petain) insegna, i moderni forse non avrebbero letto quel monumentale epistolario che insieme agli atteggiamenti paramafiosi dell'uomo Cicerone, mostra anche la genesi editoriale e il pubblico implicito di molte delle sue opere.

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    1. molto interessante, sarebbe utile usasse un nick eventualmente in futuro (è per caso VY ?).

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    2. Grazie per l'interesse, credo però di aver inviato queste righe almeno cinque volte e dividendole (Quello che si legge ora non è tutto). Per questo ho chiesto venia in qualcuno degli invii, ma rinnovo la richiesta di comprensione.
      Saluti Ale

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    3. a me sono giunti solo i commenti pubblicati, se vuole può mandare anche gli altri. cordialità

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  3. Permette un O.T. Olympe?
    CASO TELECOM: Bernabe': 'Ho saputo del riassetto dalla stampa'; Catricalà: 'Governo avvertito solo a cose fatte'; LETTA: "VIGILEREMO, MA E' UNA SOCIETA' PRIVATA"; GRILLO: "NO A VENDITA"

    Io: che simpatiche macchiette!

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  4. Come sottolineava C. Mossé in tempi ormai lontani, quello che è vero per il centro dell'impero negli ultimi mesi della repubblica (ma sto parlando di Roma, mi raccomando) – sono gli schiavi che lavorano, i liberi se ne astengano - non è più vero già a partire dal primo secolo di monarchia. Anche a Roma, o nelle altre megalopoli imperiali, quando i bacini di approvvigionamento della manodopera schiavile in vario modo si prosciugheranno, i conferenzieri (tipo Dione di Prusa) racconteranno che il lavoro e l'autarchia delle famiglie sono cose belle e giuste e consiglieranno di deportare (letteralmente) le scioperate e affamate plebi urbane a lavorare la campagna. Ma non è vero che le plebi libere vivevano sempre di carità: gli artigiani c'erano, erano organizzati in collegia (associazioni professionali sciolte per intervento del senato all'epoca di Catilina, riattivate pochi anni dopo da Clodio, sciolte di nuovo da Cesare e riaperte definitivamente nell'alto impero per diventare gabbie da cui nemmeno gli eredi potevano uscire: curiosamente proprio nei collegia resteranno a lungo attive punitissime sacche di paganesimo). Per altro, anche la Mossé sostiene che l'idea del lavoro produttivo come scuola di perfezionamento morale rimane estranea allo spirito antico e io, sommessamente, mi chiedo se le epigrafi del CIL, che spesso celebrano insieme al morto (e, incredibilmente, anche alla morta) il suo lavoro, debbano essere tutte abrase. Ma, conclude la Mossé, sarà il “capitalismo che, rafforzando l'alienazione del lavoratore, darà al lavoro il suo vero valore di attività generatrice di profitti”, il che, date le premesse su “loro” e “noi” (be', anche meno: “io”), mi pare una conclusione potenzialmente foriera di rischi: meglio il modo di produzione schiavistico?
    Insomma quello che voglio dire è che forse per Platone e Aristotele e anche per i padri della chiesa il lavoro è una maledizione. Se il capitalismo poi, sia pure per i suoi sporchi fini, rivaluta il lavoro viva il capitalismo. Gli uomini hanno SEMPRE lavorato per sé e per gli altri: riconoscere il valore del lavoro è comunque un bene.
    Ora, sia pure con toni saputelli, io cerco realmente il confronto e per tanto La ringrazio dell'ospitalità e dell'ascolto
    Cari saluti

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    1. mi fa molto piacere il suo commento.

      nel mio post non sostengo che solo gli schiavi lavorassero, ed infatti scrivo:
      Tuttavia, nonostante il gran numero di disoccupati cronici, ossia di mantenuti e di assistiti, e di rentiers, il carattere stesso di metropoli di Roma ne faceva una città di fittissimi traffici e di intensa attività manifatturiera, con decine di migliaia di addetti. Non solo schiavi e liberti, dunque, ma anche cittadini.

      bisogna tener conto, nell'economia di un post e a riguardo della media di chi legge, che utilizzo degli schemi, perciò certe forzature sono inevitabili

      non bisogna dimenticare che la schiavitù, come sappiamo, costituiva anzitutto un bene patrimoniale e quindi un cespite di guadagno ed un'effettiva ricchezza.

      ancor oggi, lo schiavo moderno, pur svincolato da tale caratteristica che lo rendeva bene patrimoniale, svolge la medesima funzione, anzi, ancor più in regime di accumulazione di tipo capitalistico, perciò è ovvio che il capitalismo – come per altri versi la chiesa di sempre – rivaluti il lavoro: senza il lavoro dei salariati il capitalismo è morto.

      nessun uomo lavorerebbe per un padrone se non fosse motivato dal bisogno, e su questo non ci piove

      gli uomini possono cooperare tra loro, ma devono essere liberi dal bisogno di farlo per altri divenendone schiavi, perciò hanno bisogno di altre motivazioni. solo allora, in tal caso, il lavoro assumerà vera e completa dignità. come già rilevava marx, il lavoro è la prima necessità dell'uomo, ma non intesa nelle forme sordide dello sfruttamento di ogni epoca.

      molte grazie per l'attenzione. saluti

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  5. Parlando di lavoro, professori del MIT Sloan School of Management, non proprio l'ultima delle università, affermano che nei prossimi anni l'evoluzione tecnologica nel lavoro porterà molti problemi riguardo al lavoro "umano", al lavoro "in carne e ossa", perché alla velocità della crescita tecnologica non riusciranno a crescere in maniera proporzionale nuovi lavori rispetto a quelli che si perderanno. Questi professori del MIT come prova di tutto questo usano la comparazione della "produttività", definita come "la quantità di valore economico creato per una data unità di input ,ad esempio un'ora di lavoro", rispetto al totale dell'occupazione, e notano che a partire dal 2000 le due linee divergono molto, cioè la produttività aumenta di molto ma non c'è una parallela crescita di posti di lavoro, e dal 2011 dicono che il gap è significativamente aumentato con crescita economica che non crea un numero corrispondente di posti di lavoro. I tizi del MIT credono che la responsabilità è della crescita tecnologica.
    Questi professori del MIT dicono che:
    "E' il grande paradosso della nostra era....La produttività è a livelli record, l'innovazione non è mai stata più veloce, ma allo stesso tempo abbiamo una caduta del reddito mediano e abbiamo meno posti di lavoro. Le persone sono in ritardo perché la tecnologia avanza così velocemente e le nostre competenze e le organizzazioni non tengono il passo".
    Ma non è che questi professori del MIT dovrebbero leggere un pò di Marx, ergo si stupiscono un pò ingenuamente?
    O mi sbaglio di grosso?
    L'articolo del MIT: http://www.technologyreview.com/featuredstory/515926/how-technology-is-destroying-jobs/
    Segnalo un altro articolo recente del MIT sulla stessa linea:
    http://www.technologyreview.com/view/519241/report-suggests-nearly-half-of-us-jobs-are-vulnerable-to-computerization/,
    dove, da una ricerca dell'Università di Oxford, si afferma che entro 20 anni il 45% dell'occupazione in USA sarà "automatizzato". La soluzione dei ricercatori dell'Università di Oxford: molto semplice, i lavoratori si dovranno riciclare acquisendo "competenze creative e sociali". Ci vogliono i ricercatori di Oxford per una risposta del genere?
    Ciao,
    Carlo.

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    1. ciao Carlo, mi sembra che questo post calzi a pennello:
      http://diciottobrumaio.blogspot.it/2013/05/il-carattere-storico-e-transitorio.html

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    2. Grazie per la dritta del post.
      Noto comunque che questi professori di altisonanti università fanno ricerche, arrivano fino ad un certo limite però poi oltre non riescono ad andare, mi pare che si perdono un pò lungo la strada della ricerca.
      Ciao,
      Carlo.

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