«Uno dei più straordinari edifizi che possa
aver mai immaginato un pittore di paesaggi fantastici: una sorta di gradinata
titanica, come una cascata enorme di muraglie a scaglioni, un ammasso
gigantesco e triste di costruzioni, che offriva non so che aspetto misto di
sacro e di barbarico, come una necropoli guerresca o una rocca mostruosa,
innalzata per arrestare un'invasione di popoli, o per contener col terrore
milioni di ribelli. Una cosa strana, grande, bella davvero. Era la fortezza di
Fenestrelle».
Così
Edmondo de Amicis descrisse la fortezza piemontese in Val Chiosone, sul confine
italo-francese. La costruzione militare antica più lunga del mondo, dopo la
celeberrima muraglia cinese, ne ha viste di ogni tipo in quasi tre secoli. Fu
usata anche come prigione prima e durante l’epoca napoleonica, quando ospitò
importanti prelati, e pure dopo, in epoca sabauda, quando ospitò il vescovo di
Torino, mazziniani, garibaldini e borbonici.
Vi
prese dimora anche lo scrittore savoiardo François Xavier de Maistre, il quale,
nel 1790, per ingannare la noia delle 42 giornate da recluso nel Padiglione
degli ufficiali, a causa di un duello, vi tracciò la bozza del suo capolavoro, Un voyage autour de ma chambre. Alcuni
decenni dopo vi fu inviato a prendere alloggio coatto anche un tal Giuseppe
Bersani (figlio naturale di Carlo Felice), appartenente al nucleo carbonaro
Cavalieri della Libertà, e pure il povero Vincenzo Gioberti.
Nel
1916 vi fu ristretto anche il colonnello (non ancora generale come scrive
erroneamente il sito ufficiale della fortezza) Giulio Dahuet, reo di essersi
duramente contrapposto alle strategie sanguinarie del Cadorna. Il “più
innovativo teorico militare italiano dopo Macchiavelli”, scrive Mark Thompson (La guerra bianca, p. 220) a proposito di
Dahuet, evidentemente trascurando il Montecuccoli.
Alla
fine della seconda guerra mondiale, ormai obsoleta da un punto di vista
militare, la struttura fu abbandonata, subendo anni di degrado e saccheggio,
come da prassi nell’ex bel paese. In pratica fu derubata di tutto ciò che era
possibile asportare: infissi, porte e persino le travi dei solai delle caserme.
E
dire che ebbe ospite come prigioniero, un po’ paradossalmente, proprio colui al
quale si deve – per quanto ne so – la prima legge italica, segnatamente pontificia,
sulla tutela del patrimonio artistico, che sottopose gli scavi di antichità a
licenza e il commercio degli oggetti d'arte e il loro restauro ad
autorizzazione.
Si tratta
del beneventano Bartolomeo Pacca, cardinale di santa romana chiesa che, dopo
essere stato prosegretario di Stato di Pio VII e aver ricoperto le più alte
cariche sotto il successore Leone XII, non divenne egli stesso papa nel
conclave del 1929 per un veto del re di Francia che gli preferì Pio VIII, al
secolo card. Castiglioni. Dal 1831, il nuovo papa, Gregorio XVI, ossia il
bellunese Cappellari, confermò Pacca come pro-datario (cancelleria apostolica) e
gli fu amico.
Il cardinale
Bartolomeo Pacca, figlio del marchese Orazio e di Cristina (o Crispina)
Malaspina d’Olivola (figlia di Teresa Malaspina di Fosdinovo andata in moglie a
Giuseppe Malaspina d’Olivola, feudatario della Lunigiana il cui ramo si estinse
coi fratelli di Cristina), ebbe vita lunga e assai avventurosa, in un periodo
cruciale della storia. Conobbe re e imperatori, fu al servizio di cinque papi
e, come detto, sfiorò per un paio di volte l’elezione al soglio egli stesso. Fu
un reazionario di prima natura, acerrimo oppositore di ogni novità liberale,
soprattutto difensore dei beni e dei diritti ecclesiastici in Francia, ma anche
uomo di lettere e amante dell’arte.
Manco
a dirlo aveva studiato dai gesuiti a Napoli, poi nel collegio Clementino dei
somaschi in Roma e ancor giovanissimo fece parte quale membro della celebre
accademia dell’Arcadia. Compiuti gli studi ecclesiastici si segnalò verso i
suoi precettori per le sue chiare doti intellettuali e Pio VI l’annoverò tra i
suoi camerieri segreti sovrannumerari. Poco dopo lo inviò nunzio a Colonia per
faccende assai scottanti, e fu anche poi – secondo Gaetano Moroni (*) – a
Parigi da Luigi XVI, “in epoca che cercava salvezza da una fuga”.
In
seguito fu inviato alla nunziatura di Lisbona, dove dovette opporsi “con petto
apostolico” agli assalti dei giansenisti che lì vi si erano rifugiati. Pio VII
l’elevò al rango di cardinale nel 1801, e, dopo essere stato a Gibilterra (con
Malta un centro di spionaggio d’eccellenza), fece ritorno a Roma nel 1802. Tutto
lascia credere che il card. Pacco fosse una specie di Père Joseph, l’eminenza grigia di Richelieu che
ispirò il celebre e omonimo romanzo (uno dei miei preferiti in assoluto) di
Huxley. E difatti, anche se in rete non
mi pare si trovi notizia in proposito, il cardinale Picca fu eminenza grigia
dell’intelligence vaticana, protettore di un monsignore di origini romane che ideò
un originale sistema di cifratura.
Fu
sulla scorta di un messaggio cifrato proveniente dall’Olanda, mittente il
monsignore di cui sopra, che il Vaticano venne a conoscere di una cospirazione
organizzata in Belgio, da dove sarebbero partiti numerosi “sovversivi” per
giungere a Roma come pellegrini per fomentarvi moti rivoluzionari. Infiltrati
dagli agenti pontifici, ben quattordici cospiratori furono identificati,
arrestati, processati e i loro capi appesi per il collo. Iddio sarà anche
misericordioso, ma i suoi rappresentanti sanno essere sicuramente molto
pragmatici.
Questo
successe dopo, nel 1829, ma nel 1809 il card. Pacca e il suo superiore, Pio
VII, furono “convocati” a Grenoble da Napoleone (i francesi dovettero penare
non poco per entrare al Quirinale e trascinarli via). Il Pacca era considerato
da Napoleone un vero e pericoloso nemico, perciò fu inviato presso l'accennata
fortezza piemontese – in villeggiatura direbbe qualcuno –, dove vi rimase fino
al 1813. In quell’anno fu firmato a Fontainebleau il Concordato tra Francia e
Chiesa romana. Sulla base del Concordato furono liberati numerosi prelati, ma
non il Pacca. Il Papa chiese e ottenne come condizione che fosse libero anche
il card. Pacca.
Da
notare che la corrispondenza tra il segretario di Stato vaticano, il card.
Consalvi e il suo ambasciatore, nel corso dei negoziati per il concordato con
Parigi, fu regolarmente intercettata e letta. Il capo della polizia bonapartista
era Joseph Fouché, erede del primo vero e proprio servizio di intelligence, il Secret du Roi di Luigi XV, il quale
articolò il servizio in sei diverse branche. Negli stessi anni fiorì a Parigi
la prima agenzia di spionaggio per conto terzi, creata dal conte d'Antraigues,
che vendette all'Austria, alla Russia e all'Inghilterra ottime informazioni
diplomatiche, politiche e militari.
Di
Napoleone ammiro di più – non il genio strategico (a mio avviso quasi
inesistente), o l’indiscutibile genio tattico e organizzativo, l’abilità
manovriera e il fiuto politico – il fatto che fu l’unico personaggio storico di
rilievo che riuscì quasi a schiacciare definitivamente i ragni velenosi del
Vaticano. Mancò una religione e relativa gerarchia di ricambio.
L'anno
seguente il pontefice tornò a Roma, accolto trionfalmente dai nobili e dalle
plebi, e Bartolomeo Pacca fu nominato prosegretario di stato e ministro delle
finanze dello stato pontificio. In quell'epoca fece “rimodernare” l'arco di
trionfo di Tito.
(*) Dizionario di erudizione storico
ecclesiastica, vol. L, p. 85 e sgg.. L’opera, che consta di 103 volumi, fu
intitolata dall’Autore proprio al cardinale Bartolomeo Pacca. Il Moroni si
prese cura di pubblicare anche delle opere del cardinale.
Lei l'altro giorno, mi ha risposto che scrivere per lei, è...un atto politico.
RispondiEliminaFaccia autocritica: è atto politico questo suo post.
E tanti saluti
XXX
E.C.
RispondiEliminaE' atto politico questo suo post? (mancava il punto interrogativo).