venerdì 5 agosto 2011

I sintomi trascurati del totalitarismo


Nel giugno 1921, all'apertura della XVI legislatura del Parlamento, il deputato socialista Francesco Misiano fu cacciato dall'aula da un gruppo di fascisti.

di Giulia Albanese (*)
 
Il 13 giugno 1921, all'apertura della XVIa legislatura del Parlamento italiano, il deputato socialista Francesco Misiano veniva cacciato dapprima fuori dall'aula, e poi dall'intero edificio parlamentare, a calci e pugni, da un piccolo gruppo di deputati fascisti. Gli aggressori erano stati eletti a metà maggio ed entravano in quell'occasione per la prima volta in Parlamento. Essi segnalavano, anche in questo modo, la presenza di una forza di rottura nella politica anche parlamentare del primo dopoguerra.

Già la campagna elettorale della primavera del 1921 era stata piuttosto violenta. Nella sola giornata del 15 maggio vi erano stati diciannove morti, e nelle due settimane successive si erano contate altre settantuno vittime, senza considerare i feriti. Il gran numero di caduti era la conseguenza dagli scontri tra militanti di forze avverse; di invasioni di circoli o di sedi di partiti o associazioni avversi al movimento fascista, soprattutto socialisti e comunisti; di aggressioni soprattutto fasciste contro singole persone o gruppi.

La conquista di Bologna
Al momento del suo ingresso in parlamento, il movimento fascista, nato nel marzo del 1919, aveva fatto molta strada. Dopo essere stato battuto alle elezioni nell'anno della sua fondazione, il movimento era stato inserito nelle liste del blocco nazionale di molti comuni soprattutto centro-settentrionali alle amministrative del 1920, riuscendo a entrare in alcuni consigli comunali e in qualche giunta. Durante la campagna elettorale del 1920 gli uomini del fascio avevano soprattutto mostrato tutta la propria capacità di intervento - soprattutto violento e comunque per lo più illegale - senza però riuscire a determinare una vittoria di questi blocchi antisocialisti. Anzi, in alcuni casi vi fu anche chi pensò che le provocazioni e le violenze fasciste avevano determinato l'astensione dell'elettorato più moderato.
Il vero exploit di quelle elezioni amministrative era stata tuttavia la conquista di alcuni dei comuni in cui i socialisti avevano ottenuto la maggioranza, attraverso atti di violenza, che avevano portato il prefetto e il governo a decidere il commissariamento e successivamente la nomina di un commissario governativo al posto della giunta regolarmente eletta. I più però si ricordavano soprattutto la conquista fascista del comune di Bologna, dove le cose erano state più complesse. Qui, i socialisti si erano presentati all'appuntamento istituzionale – l'insediamento della giunta socialista – armati, e avevano dato il via all'esposizione della bandiera rossa come segno di vittoria, un atto che avevano concordato proprio per evitare le violenze fasciste.

Nella ricostruzione di quell'evento il dato più evidente era però l'incapacità (o la non volontà?) delle forze dell'ordine di tenere sotto controllo una situazione già ampiamente riconosciuta come esplosiva. In quel caso, nel novembre 1920, a Bologna, erano morte a causa di questa concomitanza di motivi, undici persone, tra le quali un consigliere comunale fascista, negli anni successivi considerato un martire della causa, e dieci militanti socialisti.

Una immediata disillusione
Da quel momento in poi però le spedizioni punitive contro le amministrazioni rosse si erano ripetute, giovando ai fascisti e ai gruppi conservatori che li sostenevano. Queste spedizioni avevano trasformato la geografia politica dei comuni in modo da negare le scelte della maggioranza degli elettori, soprattutto laddove i socialisti avevano ottenuto la maggioranza.
Malgrado nel 1921 la violenza fascista cominciasse a diventare preoccupante anche per alcuni dei moderati e dei conservatori che avevano plaudito la formazione e l'ascesa del movimento fascista, l'inclusione nel blocco nazionale era stata pensata dall'anziano statista Giovanni Giolitti per depotenziare l'azione violenta di questo gruppo e normalizzarlo anche attraverso l'esperienza parlamentare. Tuttavia, per chi aveva pensato che l'elezione in Parlamento potesse generare un atteggiamento meno radicale, la disillusione fu quasi immediata: l'apertura del parlamento il 13 giugno 1921 segna infatti un momento di svolta drammatico nelle forme e nella sostanza del dibattito parlamentare di quegli anni.

C'erano già stati momenti di tensione in Parlamento, e probabilmente anche scene non degne dell'importanza e della sacralità, laica, del luogo, ma la cacciata del socialista Francesco Misiano dalla Camera fu senz'altro un atto di violenza senza precedenti.
Misiano era già stato eletto nelle fila socialiste nella prima legislatura del dopoguerra e la sua elezione aveva avuto un valore simbolico: con essa infatti si segnalava la non disponibilità dei socialisti ad aderire alla causa di quell'Italia interventista che aveva deciso l'entrata del paese nella prima guerra mondiale. Misiano era infatti un candidato ideale per veicolare questo messaggio per la sua scelta di disertare e non combattere durante la guerra. Misiano era però anche un'eccezione nelle fila socialiste, perché la gran parte dei deputati socialisti eletti erano ex combattenti e il partito socialista era senz'altro la forza che aveva permesso il maggiore accesso di ex combattenti, nel parlamento del 1919. Questa, per alcuni versi, era anche una delle grandi contraddizioni di questo partito.

Se nel 1919 c'erano stati degli schiamazzi all'indirizzo di Misiano, la situazione cambiò radicalmente nel giugno del 1921, a causa della presenza di una non troppo sparuta minoranza fascista. All'apertura della camera, alcuni deputati fascisti avevano preso Misiano e lo avevano cacciato fuori dall'aula parlamentare, poi via via giù dalle scale a calci e pugni fino a costringerlo a uscire dall'edificio.

La discussione che questo episodio aveva determinato in aula era di particolare interesse. Era stata violata la libertà e l'intangibilità dei rappresentanti politici della nazione, e questo gesto aveva destato sconcerto anche in chi, fino a quel momento, aveva pensato di placare e ammorbidire la radicalità fascista e, ancor di più, quella socialista grazie alle violenze fasciste, o in chi, non ponendosi il problema, aveva comunque pensato che un luogo come il Parlamento non sarebbe stato toccato da violenze di questo tipo.

Il discorso di Rocco
Giuseppe Emanuele Modigliani, anch'egli socialista, aveva chiesto immediatamente la sospensione della seduta fino al rientro del deputato espulso, trovando il favore solo dell'estrema sinistra, socialisti e comunisti. Per questa proposta si era speso però anche Napoleone Colajanni, storica figura del parlamento italiano, che aveva combattuto quando era giovanissimo con Garibaldi, feroce interventista e antisocialista a partire dalla guerra e soprattutto nel dopoguerra. Fino a quel momento Colajanni era stato molto vicino al fascismo e ne aveva sostenuto le battaglie. In questa occasione però era intervenuto denunciando come inammissibili le violenze contro deputati e senatori, dentro o fuori dall'aula parlamentare, e schierandosi, a partire da quel momento, contro il fascismo.

Di diverso avviso i fascisti che nella persona di Aldo Finzi - futuro sottosegretario agli Interni, costretto a dimettersi per il caso Matteotti - avevano auspicato che Misiano rimanesse fuori dall'aula parlamentare per evitare episodi incresciosi come questo. In particolare, il deputato Alfredo Rocco, di area nazionalista, futuro estensore del codice fascista, pur lamentando l'atto di violenza, aveva sottolineato che la violenza era una conseguenza delle illegalità commesse da Misiano e dai socialisti.
Il discorso più significativo fu però quello del deputato Valentino Coda che aveva riconosciuto la rottura della legalità formale provocata dall'azione fascista, ma aveva sostenuto che invece si era salvato in questo modo «l'onore del parlamento». Egli aveva dichiarato inoltre esplicitamente di assumersi completamente, anche a nome del gruppo parlamentare fascista, la responsabilità delle violenze commesse.

Armati nell'aula
Le parole di Coda risuonano oggi come un'anticipazione piuttosto evidente di un altro e ben più noto discorso pronunciato nella stessa aula solo tre anni e mezzo dopo, il discorso di Benito Mussolini che dà il via alla stretta totalitaria, quello con il quale il capogruppo fascista si prendeva la responsabilità delle violenze compiute contro un altro deputato socialista, Giacomo Matteotti. E tuttavia, anche per chi assisteva a quella scena allora, nel giugno 1921, la rottura di linguaggi e di pratiche operata dai fascisti doveva apparire evidente.
Non sarebbe stata l'ultima volta in cui un parlamentare italiano sarebbe stato oggetto di violenze da parte dei fascisti: le violenze e le minacce esplicite si ripeterono nel corso dei mesi seguenti e vi fu addirittura qualcuno che osò entrare in aula armato. Nel settembre 1921, pochi mesi dopo questi fatti, il deputato Giuseppe Di Vagno sarebbe stato ucciso in Puglia e nel giugno 1924 la stessa sorte sarebbe toccata a Giacomo Matteotti. Fedeli all'idea che bisognava cambiare il paese con la violenza, i fascisti avrebbero continuato ad assumersi le responsabilità delle proprie gesta, senza che la classe dirigente liberale si assumesse la responsabilità di fermarli.

(il manifesto, 31 luglio 20011, p.10)
(*) Di Giulia Albanese, La marcia su Roma, Laterza 2006, inquadra gli avvenimenti descritti nell’articolo nel crescendo di violenza che porta alla dittatura.

3 commenti:

  1. Eppure non è sulla violenza fisica che si basano i prodromi del totalitarismo incipiente.

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  2. infatti, caro paolo, la violenza è solo un sintomo

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  3. Mi sono perso qualche notizia? ci sono state nuove violenze?

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