martedì 31 maggio 2016

Breve cronaca di una falsificazione


L’Introduzione per l’edizione in opuscolo di Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, che uscì a Berlino nel 1895, fu scritta da Engels pochi mesi prima della sua morte, fra il 14 febbraio e il 6 marzo 1895. Proprio il 6 marzo, tramite una lettera di Richard Fischer, la direzione del Partito socialdemocratico tedesco, adducendo motivi di opportunità tattica e accennando al pericolo sempre incombente di una legge contro i socialisti (*), chiese ad Engels di attutire il tono, ritenuto troppo rivoluzionario, dell’Introduzione e di accogliere una serie di modifiche che si considerava necessario apportarvi.

lunedì 30 maggio 2016

Il lungo sonno di Ricolfi


L’editoriale di ieri su Il Sole 24 ore è a firma di Luca Ricolfi, con un titolo chandleriano: Il lungo sonno della produttività italiana. Il prof. Ricolfi ci ricorda subito che il risveglio della produttività è la condizione necessaria per la ripresa del Paese. Caso mai l'avessimo dimenticato tra un sorso e l'altro di delorazepam.

Per spacciare un simile mito ci vogliono delle motivazioni “giuste”, che coinvolgano una vasta platea: bisogna scrivere che l’aumento di produttività deve accompagnarsi alla creazione di nuovi e migliori posti di lavoro, all’aumento dei salari e ad aziende più dinamiche e moderne.

Balle. Primo: è la produzione basata sul valore di scambio che sta mostrando sempre più la sua divaricante contraddizione e il suo limite storico. Secondo: il lavoro in forma immediata cessa sempre più di essere la grande fonte della ricchezza.

Poi, di contorno: quante altre auto inquinanti, cibo spazzatura, appartamenti sfitti, illusioni a buon mercato bisogna produrre in surplus per soddisfare il mito della produttività, il bisogno insaziabile di valorizzazione del capitale, la brama del profitto?

Nuovi e migliori posti di lavoro non ci saranno, la disoccupazione – sanno benissimo – nel medio-lungo e lunghissimo periodo aumenterà per effetto delle nuove tecnologie, quanto all’aumento dei salari esso pregiudica la cosiddetta “competitività” in presenza di un quadro di stagnazione e caduta del saggio del profitto (in rapporto al capitale investito).

La banda larga, canta Ricolfi. Sì, quella c’è l’abbiamo già da secoli e dobbiamo mantenerla. E poi vai col valzer della riduzione della pressione fiscale, degli investimenti in R&S, “il caso italiano difficile da spiegare in modo convincente”, “che la stagione del ristagno duri ininterrottamente da vent’anni”. Eppure, non era con “la più grande ondata di privatizzazioni mai vista in un’economia occidentale”, quindi “Imponendo un decennio di sacrifici alle famiglie”, ossia tagliando i salari, che sarebbe aumentata efficienza, produttività e redditività?

Ah, secondo Ricolfi la causa del disastro sarebbe riconducibile al mito nefasto del “federalismo”, tanto per citare qualcosa, quindi l’immane moltiplicazione dei centri di decisione, dei soggetti coinvolti nei processi politici, e poi le “esternalità” positive e quelle negative. E dunque, in definitiva, il problema sarebbe eminentemente politico. Ma allora la soluzione è a portata di mano, di riforma.

Professor Ricolfi, le dice niente “struttura produttiva”, rapporti di forza, quote di mercato, scomparsa della grande impresa, debolezza di quella media ed eccessiva ampiezza di quella piccolissima, divisione internazionale del lavoro e collocazione assegnataci dagli anelli forti della catena (europea ed internazionale), quindi ferrea legge del profitto che costringe alla delocalizzazione, eccetera? Non le pare evidente che la spinta al rinnovamento tecnologico ed alla crescita degli impianti, cioè all’aumento della composizione tecnica del capitale (sennò l’aumento della produttività come lo realizzi, coltivando marjuana? è un'idea!), è ben diversa per chi produce scarpe, tessili ed elettrodomestici, e per chi, invece, sforna acciai speciali ed elettronica? Certo, soggiungo, che Marchionne torna qui a produrre le sue macchine, ma non per aumentare i salari e diminuire il saggio di sfruttamento. Non per pagare le tasse sugli utili.

Ricolfi, ci dice nulla sui motivi della sua decennale letargia?

venerdì 27 maggio 2016

Il golpe democratico


Nel 2013 alle elezioni per la Camera il Pd ottenne il 25,42% dei voti, il Movimento di Grillo il 25,55, vale a dire circa 8,6 milioni di voti per lista. Il Pd in forza dei voti ottenuti in coalizione ottenne la maggioranza di 345 seggi alla Camera. Ma al Senato le cose andarono, in forza del Porcellum, diversamente.

Con la nuova legge elettorale, l’Italicum, basta poco più di un terzo dei voti (37%) perché una lista o una coalizione ottenga 340 seggi su 618. Nel caso una lista ottenesse almeno il 37% dei voti, ma un numero inferiore di seggi per raggiungere la maggioranza assoluta, scatterebbe ugualmente il premio di maggioranza (+ 15 per cento) fino ad un massimo di 340 seggi. otterrebbe così, rispetto a un sistema proporzionale puro, oltre cento deputati in più. Cosa che del resto accade, per la Camera ma non per il Senato, anche con il Porcellum.

Poniamo, per contro, che né il Pd e né il M5S alle prossime elezioni ottengano il 37% dei voti, che essi registrino lo stesso risultato del 2013. Con un sistema proporzionale puro si avrebbe la seguente assegnazione di seggi:

Partito democratico:
8.600.000 voti, 158 seggi circa.

Movimento cinque stelle:
8.600.000 voti, 158 seggi circa.

Con l’Italicum si andrà al ballottaggio. La lista vincente otterrebbe, nell’esempio dato, un premio di maggioranza con 321 seggi su 630. Vale a dire circa 163 seggi in più di quanti ne avrebbe ottenuti sulla base dei voti espressi al primo turno.

Solo un piccolo, ininfluente dettaglio: il nuovo Senato, non più eletto direttamente, non conta più una cippa, con una maggioranza assoluta di 340 o anche solo di 321 seggi alla Camera, cioè di deputati che rispondono solo al loro capo – sia esso Renzi, Grillo o Pinco Pallino – e che da esso dipendono per la loro riconferma, il Capo stesso può far approvare sul tamburo qualunque legge. Spetterà poi alla Consulta, dopo anni, pronunciarsi eventualmente sulla loro costituzionalità.


Come non avvedersi che, posto il trucco della riduzione del Senato a una accolta di belle statuine (ecco perché modificazioni costituzionali e legge elettorale vanno assieme sulla scheda del referendum), con la nuova legge elettorale va in scena un altro e decisivo atto di un golpe … democratico?

Il mero titolo di cittadini


Scrive il direttore del Sole 24ore che il costo del lavoro in Italia è cresciuto negli ultimi lustri più che in paesi come la Germania o la Francia. Non so s’è vero, ad ogni modo si tratta di oneri, di tassazione, poiché i salari dell’industria italiana non sono paragonabili a quelli dell’industria tedesca e nemmeno di quella francese. Sono tra i più bassi dell’area euro. Ma questo particolare viene taciuto, poiché la malafede è tanta e non ci si può aspettare, al riguardo, alcuna parola di verità da chi scrive unicamente in difesa degli interessi del padronato e da questi è pagato.

La stessa cosa dicasi per quanto riguarda la produttività del lavoro: lo sfruttamento della forza-lavoro italiana è tra i più intensivi non solo in Europa, ma nell’Occidente. E dunque se la produttività del lavoro, pur in presenza di uno sfruttamento più elevato della forza-lavoro, ristagna, evidentemente cause e motivi vanno ricercati altrove. E perciò c’è tanta ideologia e malafede nelle dichiarazioni del nuovo presidente degli industriali italiani: “costruire un capitalismo moderno fatto di mercato, avendo come bussola lo scambio salari-produttività”. Tradotto, significa: aumentare ancor di più il saggio di sfruttamento della forza-lavoro.

Da questa gente non c’è da aspettarsi nulla, essi possono confidare altresì nella mansuetudine dei lavoratori italiani. In Francia non è così. Verrebbe quasi da dire che i lavoratori italiani sono in generale senza dignità. E però bisogna tener conto di una situazione assai diversa da quella francese. I lavoratori italiani sono stati, più ancora che in Francia, abbandonati da tutti, dai partiti (che non esistono più) e dai sindacati, i quali sono gli unici attori accreditati a negoziare i contratti collettivi nazionali: niente sindacati di base, niente sciopero (il conflitto non è più ammesso, pena sanzioni [*]), di modo che lo sfruttamento da individuale e privo di regole diventa collettivo e regolato (vedi accordi sottoscritti del 28 giugno 2011, del 31 maggio 2013, e del 10 gennaio 2014).

I lavoratori sono stati abbandonati anche da quel ceto intellettuale che almeno a parole un tempo si schierava dalla parte di chi per sopravvivere deve sfangarla davvero. A questi milioni di lavoratori rimane il mero titolo di cittadini, nel loro insieme costituiscono ancora formalmente il popolo sovrano, ma la realtà è ben diversa, poiché quando tutto è aleatorio e i lavoratori sono sottoposti alla volontà incondizionata dell’impresa da cui dipende la loro vita, allora questi lavoratori non diventano altro che oggetto di scambio, degli schiavi dei loro padroni.


[*] Lo sciopero è un diritto individuale, che però viene sempre esercitato in forma collettiva: presuppone quindi l’esistenza di una organizzazione dei lavoratori che lo dichiari. Con gli accordi sottoscritti da CGIL, CISL, UIL e Confindustria, un sindacato è sottoposto a sanzioni economiche e sospensione di diritti sindacali, nel caso utilizzi l’arma dello sciopero come “iniziativa di contrasto”, ossia l’unica forma di lotta con cui i lavoratori abbiano mai ottenuto risultati concreti. Sono state create pertanto le condizioni perché nessuna associazione sindacale possa dichiararlo, e ciò significa nei fatti rendere nullo il diritto di ogni singolo lavoratore.

giovedì 26 maggio 2016

A proposito di tubi


Per un paio di giorni, tanto dura un dibattito in questo paese sulle questioni più serie, si parlerà di tubature e di acqua. Giustamente, anche perché l’acqua che esce dal rubinetto di casa quasi mai è davvero potabile. Diciamo che il più delle volte è passabile. Si tratta ad ogni modo di chiacchiere poiché poi non succederà nulla.

Anche di un altro tema si dovrebbe dire e a lungo poiché riguarda la nostra salute, segnatamente la salute dei cosiddetti meno abbienti, vale a dire dei comuni mortali. E comuni mortali non è un’espressione a caso in una società di classe. Perciò, nel caso fosse sfuggito, segnalo questo articolo, soprattutto a coloro che dicono che il capitalismo non c’entra mai nulla. Il trucco, l’infamia, è di far passare per “naturale” ciò che invece è definito dal sociale.

Pertanto, “malattia” è una comoda classificazione che consente di rimuovere dei problemi e perpetuare le condizioni sociali che nel determinarla hanno tanta parte. Un esempio: il lavoro salariato ammala e uccide. Ridurre la giornata lavorativa significa ridurre anche l’incidenza delle malattie (non solo di quelle classificate “professionali”) e delle morti. Il capitale non succhia solo valore dal lavoro dell’operaio e del salariato, ma la sua stessa vita.


Per capire l’uomo abbiamo bisogno di un modello qualitativamente diverso da quello del verme; per comprenderne la complessità non basta scansionarne il corpo inserito in un tubo.