In un tripudio di slide il governo comunica che l’Italia
riparte alla grande: più 16%. Il ricatto lavorativo funziona: li chiamano “incidenti
sul lavoro”, di quel lavoro salariato su cui si fonda la nostra società e senza
il quale, tanto per dire, agli azionisti di Banca d’Italia non andrebbe un
dividendo di 340 milioni per il 2015. In fin dei conti 1.172
lavoratori morti non fanno notizia. Ogni lavoratore deve conoscere questa
prospettiva, guardarsi in faccia e scegliere. Se il gioco non gli interessa,
può sempre morire di fame.
venerdì 29 aprile 2016
giovedì 28 aprile 2016
Un selfie
Viviamo
un momento storico davvero peculiare, in cui l’attività umana è riuscita a
produrre nelle nostre società progressi e mutamenti che non è avventato
definire rivoluzionari. Tuttavia da molte fonti sentiamo arrivare echi di grave
allarme per le sorti dell’ecosistema planetario, di seria incertezza per il perdurare
della crisi e le forme sempre più ampie e acute di disuguaglianza, quindi di
preoccupazione per l’involuzione dei sistemi politici, di dissociazione tra
democrazia e capitalismo (maggiore democrazia genera minore governabilità, insegna
la Trilaterale). Deve dunque trovarsi una causa fondamentale di questa
situazione, tra le tante che possono concorrervi (*).
Questa
causa, se non si vuole ricorrere semplicisticamente a motivi d’ordine psicologico
o meramente sociologico, è da rintracciare nello strapotere che ha assunto l’economia
nelle nostre società, l’assenza di vincoli reali cui è lasciata la sua azione, la
dimensione oligarchica che hanno assunto industria, banche, finanza; la totale
subordinazione al capitale cui è stato lasciato il lavoro in nome delle “compatibilità”
di sistema (salari da fame e orari da pazzi, fidelizzazione dei lavoratori
all’impresa entro un sistema mediato da ricatti), la sostituzione dei diritti
con politiche di sussidiarietà e una cultura della carità (un’imprenditorialità
“no profit” assai lucrosa). A questo terremoto sociale si risponde in buona
sostanza con la propaganda più smaccata (**).
mercoledì 27 aprile 2016
La fonte di tutte le sofferenze
Il
lavoro salariato è uno scambio dove il potere sta da una sola parte, quella del
capitalista, un potere violento statuito e regolato per legge che sfrutta la
condizione di bisogno del lavoratore. Il lavoratore è solo oggetto dello
scambio, come qualsiasi altra merce, dunque un oggetto di uno scambio ineguale,
prigioniero di una situazione cui non può sfuggire se non perdendo tutto, a
cominciare dalla propria identità. Quando si parla o si scrive di una persona,
subito è specificato il mestiere o la professione, cioè il posto che essa
occupa nella divisione sociale del lavoro, la sua posizione di classe.
Tale situazione, dopo lotte decennali, era stata a suo tempo in parte mitigata con l'introduzione di alcuni diritti e tutele più favorevoli ai lavoratori. Dagli anni Ottanta è cominciato a spirare un vento contrario, il neoliberismo ha conquistato il "cuore" di molti, e il "mercato" è sembrato essere la panacea di tutti i mali, nulla ormai poteva frapporsi al nuovo ordine capitalistico mondiale. Finiva un'epoca e ne iniziava un'altra, in cui abbiamo cominciato a goderne i frutti, e altri più succosi verranno.
Ciò
che era cominciato con il pacchetto Treu è poi continuato in modo molto più violento
nelle politiche sociali italiane con la famigerata legge 30, ispirata da Marco Biagi,
già consigliere di Prodi, Treu, Bassolino, ecc.. Il lavoro assume il carattere di
massima precarietà e il caporalato diventa legale con il cosiddetto voucher, laddove il padrone è sollevato
perfino dal dover stipulare alcun tipo di contratto, e dove il lavoratore è
privato del diritto alle prestazioni a sostegno del reddito (disoccupazione,
maternità, malattia, assegni familiari ecc.).
Come
si vede le “riforme del lavoro”, fino alla modificazione dell’articolo 18 e al
Jobs act, che introduce maggiore flessibilità (per es.: la possibilità di
arrivare mezz’ora più tardi per portare all’asilo il figlio, ma in cambio mi
dai disponibilità a lavorare nei festivi) e regala miliardi di euro statali ai
padroni, sono riforme a marchio di “sinistra”. In tale situazione il lavoro
perde le sue peculiarità etico-mitologiche per assumere palesemente quelle
della violenza e della prevaricazione con implicazioni psicofisiche molto gravi per i lavoratori. A
ben considerare è la fonte di tutte le sofferenze.
martedì 26 aprile 2016
La crisi ha la sua reale causa nel meccanismo stesso dell’accumulazione
Quello che segue non è un post troppo
lungo, tuttavia, dato il carattere della nostra epoca, esso potrebbe risultare poco
adatto proposto dopo due interi giorni di festa. Confido nella bontà e
qualità dei lettori. L’ultima parte accenna di sfuggita a una nota questione ed
è dedicata in particolare all’amichevole e chiaro lettore che legge fino in fondo
nonostante non s’aspetti nulla di nuovo prim'ancora di avervi posto gli occhi.
*
“Abbiamo attraversato una
crisi globale che ha superato per dimensioni e qualità quella degli anni Trenta
e non è ancora finita” (Domenicale di ieri).
Leggiamo di continuo frasi come queste cui seguono poi analisi politiche o economiche
sulle cause della crisi che non escono mai dalla sfera dell’apologia del
mercato. Al massimo c’è chi suggerisce politiche di stampo neokeynesiano, e
altri propongono addirittura di gettare denaro dagli elicotteri. Come se le
cause della crisi fossero riconducibili semplicemente a questioni di manovra
monetaria, di spesa pubblica e di reddito disponibile.
Da
questo sito leggo: “Nel 2015 Pechino ne ha prodotto 800 milioni di
tonnellate: il quadruplo di quanto qualsiasi altro grande produttore abbia mai
sfornato. Stante la flessione della domanda mondiale, metà dell’acciaio cinese
giace invenduto: 400 milioni di tonnellate, più della produzione dell’intera
Europa. Situazioni simili si registrano in una molteplicità di comparti: dal
vetro al cemento, passando per la gomma, i pannelli solari e la vitamina C, di
cui la sola Cina produce una quantità pari al 90% del fabbisogno globale”.
lunedì 25 aprile 2016
[...]
Nel divenire del modo di
produzione capitalistico lo Stato ha, in stadi di sviluppo diversi, assunto
forme diverse. Bonapartismo, fascismo, nazismo, democrazia, eccetera,
riguardano la metamorfosi della forma-Stato e vanno lette in relazione al
movimento contradditorio del capitale e alle fasi di sviluppo e di crisi che
esso ha attraversato. Qualcuno, molto tempo fa, ebbe ad osservare che la democrazia è il migliore involucro per
il capitalismo, cioè l'involucro più funzionale alla sua dittatura. E anche un
uomo pacato e pragmatico come Ezio Mauro, di recente, si chiedeva se la
democrazia non valesse solo per le fasi alte del ciclo economico.
Per rifarci al tema nei termini correnti della pubblicistica borghese, c’è da osservare che nemmeno i sistemi più democratici
garantiscono alcuni dei più fondamentali diritti sociali, come per esempio il
diritto al lavoro e ad avere un tetto, anche se talune Costituzioni
stabiliscono un nesso tra libertà e giustizia sociale. Ciò che conta sono i reali rapporti sociali che tali Costituzioni
vanno a formalizzare. E già il solo formale richiamo a tale nesso, come
sappiamo, dà fastidio a molti laddove è dichiarata la prevalenza dell’utilità
sociale rispetto al diritto di proprietà (vedi articoli 41 e 42 della Cost.).
La Costituzione borghese sancisce
il diritto al lavoro, tacendo però le condizioni che sole danno a tale diritto
un senso (*). In effetti essa non sancisce altro che l'operaio salariato ha il
permesso di lavorare per la sua propria vita, cioè di vivere, solo in quanto
lavora, per un certo tempo, gratuitamente, per il capitalista e quindi anche
per quelli che insieme col capitalista consumano il plusvalore.
Tutto il sistema di produzione
capitalistico si aggira attorno al problema di prolungare questo lavoro
gratuito sviluppando la produttività e dunque prolungando in assoluto la
giornata di lavoro. Pertanto ciò che viene taciuto è proprio il fatto essenziale
che il sistema del lavoro salariato è un sistema di schiavitù, e di una
schiavitù che diventa sempre più dura nella misura in cui si sviluppano le
forze produttive sociali del lavoro, tanto se l'operaio è pagato meglio, quanto se è pagato peggio.
*
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