Tutti ricordiamo la data del 6 agosto 1945 per un motivo ben preciso. Bisognerebbe anche ricordare che l’Italia il 15 luglio dello stesso anno aveva dichiarato guerra al Giappone. Poi il 15 agosto ci fu il famoso Rescritto dell’imperatore. Il 2 settembre la firma della resa ufficiale del Giappone a Tokio, presenti i giapponesi sconfitti e i rappresentanti delle potenze vincitrici. Non era presente un rappresentante italiano, col rischio di ritrovarsi, dopo la firma della pace avvenuta a bordo della “Missouri”, come l’unico paese ancora in guerra col Giappone.
Il 13 luglio 1945, il ministro degli Esteri De Gasperi telegrafava all’ambasciatore italiano, Tarchiani, a Washington, «di pregare il governo svedese, che ha protezione nostri interessi in Giappone, di notificare immediatamente al governo nipponico che l'Italia si considera in stato di guerra col Giappone a partire dal giorno 15 luglio. Dichiarazione di guerra è motivata dal proposito d’estendere al conflitto contro il regime di aggressione nipponico quella stessa piena solidarietà con le Nazioni Unite e principalmente con gli Stati Uniti d’America e con la Cina, già dimostrata nella guerra contro l’aggressore tedesco in Europa dal popolo italiano. [...] ella vorrà una volta ancora ufficialmente riaffermare nostro proposito che partecipazione italiana al conflitto sia effettiva.»
Il 21 luglio, Stefano Jacini, ministro della Guerra, si chiamava ancora così il dicastero, valutava il possibile contributo operativo alla guerra contro il Giappone con l’invio di un corpo di spedizione volontario, composto delle varie armi, della forza complessiva da 6 a 8 mila uomini, pronto a muovere entro quattro mesi dal termine della consegna di tutto quanto è necessario per vestirlo, equipaggiarlo, armarlo, vettovagliarlo, consentirne un moderno funzionamento. Il corpo di spedizione doveva essere composto esclusivamente con volontari di classi giovani (sino al 30° anno). Il successo del reclutamento volontario era subordinato all’”azione di propaganda della stampa e dei partiti, perché i volontari affluis[sero] numerosi”.
Dopo Hiroshima e Nagasaki, il ministro degli Esteri De Gasperi non perse tempo, il 13 agosto comunicava agli ambasciatori italiani a Washimngton, Londra e Mosca, di ritenere «indispensabile e urgente che venga attirata attenzione di codesto governo [americano, inglese e russo] su questione partecipazione italiana ad atti di resa e di armistizio che saranno firmati col Giappone. È infatti necessario che in tali atti sia fatta espressa menzione che essi sono stipulati anche a nome e nell’interesse dell'Italia, ad ogni effetto. Italia è in stato di guerra col Giappone e sua cobelligeranza in tale guerra è stata anche ufficialmente e solennemente riconosciuta nella dichiarazione della Conferenza di Potsdam.»
Tale riconoscimento veniva chiesto senza aver inviato un solo soldato in Oriente e sparato un solo colpo.
Così proseguiva: «[...] esclusione Italia rappresenterebbe nuova umiliazione per popolo italiano, che dopo due anni di lotta e di sacrifici si sentirebbe considerato ancora una volta ai margini della comunità delle Nazioni.»
In nota al telegramma: « (Solo Washington). Siamo certi Dipartimento di Stato vorrà anche in questa occasione dimostrarci quell’amichevole comprensione che abbiamo sempre constatato e di cui gli siamo particolarmente grati .»
Il 19 agosto, l’incaricato d’affari a Washington, Di Stefano, telegrafava a De Gasperi: «A quanto è stato testé comunicato Dipartimento di Stato fino a ieri 18 stava ancora studiando formula da inserire che possibilmente comprendesse senza nominarli individualmente tutti gli Stati in guerra. Al riguardo è stato nuovamente fatto presente da parte nostra che qualora si usasse Nazioni Unite queste non avrebbero giuridicamente compresa Italia e pertanto opportunità dizione più lata.»
Sempre l’incaricato d’affari a Washington, Di Stefano, telegrafava a De Gasperi in data 23 agosto: «In conversazione amichevole al Dipartimento di Stato ho appreso che per non dar luogo a frizioni alla vigilia visita de Gaulle si era finito qui per consentire all'ultimo momento che un rappresentante militare francese partecipasse atto formale resa nipponica che avrà luogo tra giorni a Tokio. Si era in conseguenza deciso contrariamente a prima decisione di ammettere anche rappresentanti Olanda e Nuova Zelanda oltre che Australia, nazioni che vi avevano diritto più della Francia.
Mi si è detto che si sarebbe cercato nella formula di resa di tener conto di tutti pur rilevando che in considerazione nostra prossima ammissione Nazioni Unite non sembrava che si dovesse dare soverchia importanza ad atto di valore soprattutto esteriore giacché decisioni sostanziali erano state già prese a Manila. Date nostre questioni di ben maggiore importanza attualmente sul tappeto non ho ritenuto dover insistere ulteriormente dopo precedenti richieste.»
Insomma, sulla corazzata “Missouri” non ci sarebbe stato nessun rappresentante ufficiale italiano. Del resto, a una dichiarazione di guerra per finta non poteva che corrispondere una pace per finta, che poteva però rivelarsi una beffa. Tanto che il 25 agosto, il segretario generale agli Esteri, Renato Prunas, scriveva all’incaricato d’affari a Washington, Di Stefano: «Si approva azione svolta e si prega voler continuare seguire questione. Interessa infatti che l’Italia non abbia a rimanere unico paese in stato di guerra col Giappone. E ciò sia per ovvie considerazioni politiche generali già illustratele sia per riflessi che permanere tale status potrebbe avere su nostri interessi e connazionali colà.»
In continuità col fascismo, la nuova Italia era un po' mosca cocchiera, un po' sciacallo.
RispondiElimina(Peppe)
Come sempre
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