mercoledì 14 dicembre 2016

Compagni di niente



La crisi e ancora la crisi. In radice alla crisi sociale e politica attuale c’è senz’altro la crisi economica. Eppure nei media e nel dibattito economico e politico (sempre autoreferenziali) non c’è mai un solo accenno sulle cause reali della crisi. Men che meno sul carattere generale e storico della crisi capitalistica. Ciò che si dice e si scrive sulla crisi appartiene alla sfera delle mere ipotesi, spesso totalmente fantastiche, un’estetizzazione del reale nei suoi variegati effetti, finanziari, di sovrapproduzione, di sproporzione, tecnologici, demografici, eccetera. Non una parola a riguardo della contraddizione fondamentale da cui la crisi capitalistica trae origine, come se le leggi e i concetti dell’economia politica fossero qualcosa fuori e al di sopra dalla storia, un qualcosa che possa essere trasposto da una formazione economica ad un’altra. Ovvio che al fondo di tale atteggiamento alienato ci sono precisi interessi, anzitutto il dominio del capitale sul lavoro e sui rapporti sociali.
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Veniamo al nostro orticello. È dunque vero ciò che scrive un altro blogger, ossia che tutta questa merda mediatica, con contorno di protesta e condita di ogni improperio, viene condivisa, attraverso il web e i social media, con i propri compagni di niente. In buona sostanza, a ben vedere, è ciò che è avvenuto in ogni epoca, dagli insulti tracciati sui muri di Pompei, ai pamphlets dell’ancien régime, che quanto a ferocia sono ai vertici della classifica. Nel caso francese, però, il travestimento ideologico di quella protesta vedeva gli interessi di una classe in ascesa, la borghesia, poggiare su una pur limitata e temporanea coincidenza con quelli del proletariato nascente.

Oggi, per contro, non c’è nessuna classe in ascesa e la protesta e la rabbia sociale degli sfruttati e dei “dimenticati” trova il suo oggetto nelle sempre più marcate disuguaglianze sociali e in tutte quelle altre mende sociali di cui è ricchissima la cronaca quotidiana e l’esperienza di ognuno di noi. E tuttavia si tratta di una protesta che pur avendo per obiettivo, nella migliore delle ipotesi, “un altro mondo possibile”, resta tuttavia compresa entro le coordinate del capitalismo. Manca insomma ancora il bisogno vitale di una trasformazione rivoluzionaria. E tale bisogno, tradotto in teoria e programma politico, non potrà che sorgere dalle condizioni stesse della crisi storica del modo di produzione capitalistico.  


5 commenti:

  1. "Il risultato dello studio dell’Istat è che quest’anno è aumentata la quota di italiani che esprimono una soddisfazione elevata per la vita nel complesso (ossia un punteggio di almeno 8 su una scala 0-10); si è passati da 35,1% a 41,0%, dopo il forte calo registrato tra il 2011 e il 2013 (quando la percentuale era scesa dal 45,9 al 35,0%)"
    http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/12/14/istat-diminuisce-la-vita-media-degli-italiani-nel-2015-e-scesa-a-823-anni/3258418/


    Non conosco i parametri utilizzati per la ricerca, ma sembra che lo zoccolo duro contro il bisogno di cambiamento sia alto. Mi sembra che questo numero del 40% ritorni anche nelle scelte elettorali.
    Una buona giornata.g

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    1. io guardo a quel 60 per cento che è tutt'altro che soddisfatto, ma ad ogni modo la vita media, dopo decenni, decresce. ed è solo l'inizio, come del resto questa crisi è solo ai suoi esordi.n tra dieci anni i senza lavoro o con un lavoro molto precario saranno la maggioranza. ciao

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    2. Sono pienamente d'accordo con te.
      Ma è molto duro dover accettare il fatto che la ragione serve a poco.
      E, in attesa che la necessità si faccia valere, si debba assistere allo scempio quotidiano di vita, avendo la piena contezza di quanti ancora ne debbano arrivare.
      Ed è ancor più duro accettare che tra il 40% dell’umanità che se ne fotte di miseria, guerre, malattie, distruzione di specie viventi e natura, e quant’altro, ci siano tante persone con cui siamo in contatto
      In effetti l’unica soluzione è quella di guardare al 60% e continuare a lavorare in quel campo.
      Ciao.g

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  2. La concorrenza isola gli individui, non solo i borghesi, ma ancor più i proletari, ponendoli gli uni di fronte agli altri , benché li raccolga insieme. Perciò passa molto tempo prima che questi individui possano unirsi, senza tener conto che i mezzi necessari per questa unione - se non deve essere puramente locale, - le grandi città industriali e le comunicazioni rapide e a basso prezzo, devono essere prima prodotti dalla grande industria; e perciò non è possibile vincere, se non dopo una lunga lotta, tutte le forze organizzate contro questi individui che vivono isolati e in condizioni che riproducono quotidianamente l’isolamento. Esigere il
    contrario vorrebbe dire esigere che la concorrenza non debba esistere in quest’epoca storica determinata,
    o che gli individui debbano cavarsi dalla testa situazioni sulle quali essi, come individui isolati, non hanno alcun controllo. (ideologia tedesca)

    la dipendenza universale reciproca mostrava già allora l' orientamento a farsi network (per chi aveva occhi per vedere..)
    si può osservare che le megalopoli più che industriali sono diventate concentrazioni del terziario avanzato, accanto quello molto meno, e che le comunicazioni rapide a basso costo sono cosa freschissima.
    la sussistenza a ridosso del minimo da una parte e il lavoro sociale astratto dall' altra implementano una classe che potrebbe avere nuove caratteristiche, se e quando si riconoscerà come tale. per spezzare la concorrenza più che solidarietà servono forze produttive di pari sviluppo (per quanto possibile..). poco si ricalcherà le forme passate dell' antagonismo di classe, almeno questo possiamo immaginarlo.

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