Ho cercato di usare il minor numero di parole possibili per dire il necessario sulla vicenda Fiat così come è andata maturando negli ultimi due anni, tuttavia il post è diventato assai lungo. Spero almeno che sia di qualche interesse.
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Lo stratega
Il teatino Sergio Marchionne è un tagliatore di teste, un duro: “Abbiamo dovuto cambiare molti dirigenti. Erano diventati come il colesterolo che impedisce al sangue di circolare”. Per quanto riguarda invece gli operai, ha giustificato le misure radicali del suo diktat (orari di lavoro più lunghi e flessibili, pause più brevi, lavoro il sabato e la domenica, da 80 a 120 ore di straordinario annuali, primi giorni di malattia non pagati, norme giuridiche derogate, un patto che di fatto abolisce il diritto di sciopero, esclusione della Fiom, ecc.) facendo riferimento alla condizione fatiscente e ai deludenti risultati delle fabbriche Fiat in Italia.
Il Gruppo Fiat, che circa due anni fa ha rilevato la casa automobilistica Chrysler, ha impianti di produzione in tutto il mondo, anche in Polonia, Serbia, Turchia e Brasile. Fiat fa la maggior parte dei suoi profitti in Brasile e Polonia, mentre in Italia, per quanto riguarda il settore auto, sostiene che sta perdendo soldi.
Un mese fa Marchionne è comparso in televisione minacciando di chiudere gli stabilimenti italiani di Fiat auto, poiché la società non guadagnerebbe un solo euro nel nostro paese, a causa della scarsa produttività degli operai. Pochi giorni dopo ha detto che la società sarebbe intenzionata di investire 20mld di euro negli stabilimenti italiani nei prossimi cinque anni, allo scopo di raddoppiare la produzione di automobili. La condizione per tali investimenti, tuttavia, era che i sindacati accettassero le condizioni imposte dall’azienda.
Marchionne fa il pesce in barile, lo dimostrano i numeri, inesorabilmente [qui] [qui]. La Fiat produce poco in Italia perché non vende, i suoi prodotti non sono concorrenziali sul mercato: “Noi siamo la Apple dell’automobile e la 500 è il nostro iPod”, ha dichiarato molto modestamente Marchionne. Ed infatti a Mirafiori prevede di produrre modelli Crysler con investimento di un miliardo di euro per la produzione di 280 mila Suv all’anno.
Parte di questo piano è quello di aumentare la produttività al livello dello stabilimento di Tychy, in Polonia, dove 6.000 dipendenti producono una macchina nuova ogni 35 secondi. La fabbrica polacca della Fiat è una delle più produttive d'Europa con condizioni di sfruttamento estreme e dove non si sciopera e i salari sono un terzo di quelli italiani.
Il modello utilizzato dall’italo-canadese Marchionne, residente in Svizzera e figlio di un carabiniere, per questi attacchi contro la forza-lavoro Fiat, è quello sperimentato negli Stati Uniti. Due anni fa, al culmine della crisi finanziaria mondiale, la Fiat ha rilevato il Gruppo Chrysler e poi chiuso diversi stabilimenti, con il sostegno del presidente Barack Obama, e in stretta collaborazione con il sindacato UAW (United auto workers). Il sindacato ha concordato, tra l’altro, che i nuovi dipendenti siano pagati con un salario ridotto del 50 per cento, per tutti il divieto di sciopero, e ha ricevuto in cambio una rilevante partecipazione azionaria (azioni svalutatissime) nella società, ma solo un seggio in consiglio d’amministrazione. Nel 2011 la casa americana tornerà in Borsa e a quel punto il Tesoro Usa sarà uscito e anche il sindacato dovrebbe disimpegnarsi. Dalla Chrysler esce la tedesca Daimler (Mercedes), con la perdita totale del residuo capitale ancora detenuto pari al 19,9%, perdita che si aggiunge ai 10 miliardi di dollari di cassa già persi nello sventurato sbarco a Detroit. Naturalmente nella sua avventura americana la Fiat ha trovato ad accoglierla “favolosi incentivi pubblici”, come scrive il Corriere della sera dello scorso 28 settembre.
Dal punto di vista societario, infine, Marchionne ha diviso la società in due parti che saranno quotate separatamente in Borsa nel mese di gennaio. Una società comprende il settore automobilistico, mentre l’altra si concentrerà sulla produzione di camion (Iveco), macchine agricole (CNH) così come i motori e cambi (Powertrain). Lo stabilimento di assemblaggio in Sicilia, Termini Imerese, verrà chiuso completamente entro il 2011.
Il tattico
Marchionne ha usato lo stabilimento Fiat di Pomigliano D'Arco in provincia di Napoli come un progetto pilota per gli attacchi su salari e condizioni di lavoro, approfittando del fatto che la disoccupazione nel sud è particolarmente elevata e il ricatto più facile.
Durante l'estate, Marchionne ha posto un ultimatum a tutti i lavoratori di Pomigliano D'Arco: o si accettano condizioni di lavoro di gran lunga peggiori delle attuali, con gli stessi livelli di produttività nella fabbrica di Tychy in Polonia, o la fabbrica sarebbe stata chiusa. Se gli operai accettano, ha promesso nuovi investimenti per 700 milioni e il trasferimento della produzione del modello Panda da Tychy a Pomigliano.
Marchionne ha trovato favorevoli al suo progetto i sindacati liberali, cattolici e fascisti (Fim, Uilm, Fismic e UGL). Solo la Fiom, affiliata alla più grande federazione sindacale CGIL diretta da ex socialisti, si è rifiutata di firmare e per tale motivo è stata esclusa dalla fabbrica. Tuttavia, come vedremo, per quanto riguarda la sostanza si tratta solo di fumo negli occhi.
I lavoratori di Pomigliano conoscono bene i pericoli della disoccupazione: per anni la fabbrica ha vissuto lunghi periodi di lavoro a tempo ridotto, in cui i lavoratori devono vivere con le elemosine fornite dalla cassa integrazione, una forma di indennità di disoccupazione pagata con fondi statali ed europei. Nonostante il ricatto della Fiat, il 36 per cento dei voti dei salariati al referendum indetto pro o contro il diktat dell’azienda, si è espresso contro il nuovo contratto, con grande scorno della società, dei sindacati gialli e della borghesia parlamentare, inclusa quella di “sinistra”.
Il collaborazionismo
La Fiat ha ottenuto concessioni simili dai sindacati italiani ed europei nelle sue fabbriche. Le nuove condizioni di lavoro per le fabbriche nostrane sono state oggetto di discussioni, il 4 novembre, tra Marchionne e la Cisl e Uil, cioè le federazioni sindacali che avevano già approvato il piano di giugno, e in questi giorni sono state formalizzate. La Fiom, che non aveva firmato l'accordo a Pomigliano d'Arco, non è stata invitata, nonostante che con i suoi 360.000 iscritti, secondo le statistiche ufficiali, rappresenti il più grande sindacato dei metalmeccanici.
Tuttavia l'atteggiamento di Fiom e Cgil non può essere fondamentalmente distinto da quello di UIL e CISL. Tutti e tre i maggiori sindacati, in ultima analisi, accettano la drastica ristrutturazione di Fiat e partecipano ad essa, anche se la Fiom deve tener conto della rabbia dei lavoratori interessati e quindi prendere una direzione politica indipendente. Il 16 ottobre scorso, ha organizzato una manifestazione a Roma con diverse migliaia di lavoratori, per protestare contro gli attacchi da parte di Fiat e le politiche economiche del governo Berlusconi.
Nell’occasione il segretario generale della Fiom, Maurizio Landini, ha detto: “Vogliamo difendere i contratti di lavoro, l’occupazione e la democrazia a fronte di uno dei più grandi attacchi ai diritti dei lavoratori”. Il segretario CGIL Guglielmo Epifani ha anche minacciato uno sciopero generale se il governo non avesse accettato immediatamente le richieste dei lavoratori.
Queste sono parole vuote. In realtà, la Fiom e la Cgil sono da lungo tempo venute a patti sia con la piccola e media industria e soprattutto con la Fiat, sapendo che essa stabilisce lo standard per l'intera economia italiana. «Pomigliano non ha alternative. Napoli non ha alternative sul suo territorio» aveva dichiarato Epifani (CdS, 14-6-10). Egli ha anche pubblicamente giustificato l’accordo con il fatto che in molte fabbriche, le condizioni di lavoro oggi sono molto peggiori che in Fiat (cosa del resto vera). Perciò rivela un segreto di Pulcinella il segretario della Cisl Bonanni quando afferma che quello della Fiom è solo "un gioco mediatico".
Landini ha sostenuto il progetto di spostare la produzione della Panda dalla Polonia verso l’Italia. “Noi e gli operai siamo i primi ad avere interesse a mantenere la produzione in Italia”, ha detto alla radio. Ha paragonato la Fiat alla Volkswagen. Ha soggiunto che VW ha deliberatamente tenuto circa metà della sua produzione in Germania, mentre Fiat produce i tre quarti delle sue auto fuori d'Italia, indicando la sua disponibilità a fare concessioni. Fiom, ha aggiunto, “non è una organizzazione che dice sempre no”.
Epifani poi è stato sostituito come capo della CGIL da Susanna Camusso, della quale ho già scritto in questo blog. Questa ha detto di avere buoni rapporti con il capo della Confindustria, Emma Marcegaglia. Camusso ha lamentato però il fatto che non era stata invitata alla recenti discussioni con Marchionne. In una dichiarazione scritta, la dirigenza della Cgil ha auspicato “l'opportunità di riprendere un dialogo serio”. “La decisione da parte della Fiat di approfondire la rottura con la Cgil è preoccupante, perché dimostra che essa non è disposta a proseguire il dialogo”, afferma il sindacato. Lo stesso giorno, il portavoce della Cgil, Vincenzo Scudier, ha chiesto una “tavola rotonda sul futuro delle fabbriche in Italia”, una chiara offerta di collaborare con la Fiat.
La sinistra piccolo-borghese, assai frammentata in decine di organizzazioni, sta cercando di ritrarre Fiom come alternativa militante agli altri sindacati collaborazionisti. Ad esempio, Controcorrente, che appartiene al Comitato Internazionale dei Lavoratori (CWI), sostiene che Fiom rappresenta oggi “l’unica forza per rispondere con decisione a questo stato di cose e che ha mostrato resistenza a Berlusconi e Marchionne”.
Questo non solo è sbagliato, ma è anche un deliberato tentativo di distogliere l’attenzione dalle questioni politiche che riguardano i lavoratori in generale e quelli della Fiat, in Italia e in Europa, in particolare. Marchionne, un uomo d’affari esperto, che ha lavorato come avvocato e manager in Canada, Stati Uniti e Svizzera (p. es.: vicepresidente e chief financial officier alla Lawson Mardon, dove lavora con Sergio Cragnotti impegnato in operazini finanziarie poco chiare[qui]), non agisce da solo alla Fiat. Dietro di lui c’è Confindustria (anche se ne esce formalmente, ovviamente allo scopo di poter denunciare i precedenti accordi) e il governo italiano. Marcegaglia ha sostenuto in più occasioni le azioni della Fiat e il ministro Sacconi è ripetutamente intervenuto a favore di Fiat, celebrando da ultimo il nuovo accordo contrattuale.
La classe dominante vede le nuove condizioni di lavoro alla Fiat come modello per l’Italia, che è in profonda crisi, con la disoccupazione in aumento e quella giovanile è al 26,8 per cento, un altissimo debito e una guerra valutaria globale che sta rendendo le condizioni per le industrie di esportazione molto difficili. La classe dirigente sta cercando di superare la crisi a scapito dei lavoratori, e Marchionne ha aperto la strada agli attacchi. Il Financial Times ha addirittura paragonato il capo di Fiat all’ex primo ministro britannico e "Lady di ferro" Margaret Thatcher: “l’ultimatum del signor Marchionne ai sindacati, accettare l'accordo o Fiat lascerà l’Italia, ha persino indotto alcuni a paragonare il suo piano alla sconfitta che l’ex primo ministro britannico inflisse ai minatori del carbone nel 1985”.
Dopo l’accordo dell’altro giorno, la Fiom ha proclamato uno sciopero dei metalmeccanici di otto ore da tenersi solo tra un mese, il 28 gennaio!! Per quella data con la scusa del referemdum. «Consideriamo quel referendum illegittimo – dice Giorgio Airaudo – e non daremo come organizzazione alcuna indicazione di voto». Se illegittimo perché ne attendono l'esito prima dello sciopero? Gli operai non possono sperare di difendere i loro diritti e le condizioni di lavoro se prima non si liberano dal controllo degli apparati sindacali e costruiscono propri organismi di lotta politica contro la classe dominante e il suoi governi.
Ma questo è proprio quello che i sindacati, i partiti di “opposizione” e dei loro seguaci tra la sinistra piccolo-borghese vogliono in ogni modo prevenire. Anche se Berlusconi è impopolare e impantanato in sempre nuovi scandali, essi nei fatti si oppongono una campagna per far cadere il suo governo. Lasciano l'iniziativa a Gianfranco Fini, ex fascista, e già partner della coalizione di Berlusconi che ha montato la sceneggiata del voto di fiducia. Solo gli allocchi potevano crederci. In questo modo sindacati e partiti di “opposizione” disarmano la classe operaia e favoriscono di fatto le condizioni nelle quali la classe dominante procede da lungo tempo contro i diritti e gli interessi dei salariati.